martedì 15 settembre 2009

Filippo Corridoni - Una vita contro

di Andrea Benzi (curatore delle opere di Filippo Corridoni)

Gli esordi
Filippo Corridoni è personaggio storico di problematica e difficile collocazione. La sua memoria e il suo ricordo sono oggetto di una sorta di oblio e ciò è avvenuto nonostante siano innumerevoli le vie, le scuole, gli enti a lui dedicati, da scuole e caserme a cooperative di lavoratori, tanto da farne un nome che, nella toponomastica italiana, svetta a ridosso dei grandi personaggi della storia nazionale. Nella schiera dei soggetti che hanno fatto la storia italiana dell'ultimo secolo, è probabilmente l'unico cui sia stata concessa la dedica del nome del suo paese natale: Pausula, infatti, vicina a Macerata, dove nacque il 19 agosto del 1887, è dal 1931 Corridonia. Varie le cause della perdita di memoria e di interesse intorno alla sua figura: fra le principali, il suo messaggio politico, fortemente contraddittorio a livello ideologico, assolutamente coerente nei fatti fino alle estreme conseguenze. Senza dimenticare poi, questione di non secondaria importanza, la totale appropriazione della sua figura da parte del fascismo, che ne fece propagandare l'immagine di protomartire della rivoluzione fascista, di antici-patore ante litteram di quella sintesi fra sinistra massimalista e interventismo patriottico e irredentista che fu alle radici del movimento di Mussolini. Se poi esaminiamo il riaffiorare della sua figura dopo il 1945, al di là dei pochi sforzi e contributi di alcuni studiosi, il ricordo di Corridoni è stato inserito in qualche manifestazione culturale e sindacale condotta dalla Cisnal, sindacato autonomo vicino all'allora Msi, quando non vicino ai partiti monarchici (Corridoni fu un acceso e violento repubblicano...). Operazioni queste tutte dirette a esaltare lo spirito del sindacalismo nazionale come essenza del messaggio cor-ridoniano, piuttosto che del sindacalismo rivoluzionario, fenomeno cui Corridoni aveva invece contribuito.
IL SINDACALISMO NAZIONALE, invece, aveva finito per rappresentare null'altro che l'approdo finale, fascista di regime, corporativo e istituzionale, indubbiamente antitetico rispetto all'essenza dello stesso sindacalismo rivoluzionario, che pure aveva attraversato il filtro dell'interventismo volontario del 1914-1918 e del produttivismo del 1919-1922.
Silenzio quindi della cultura istituzionale cui va aggiunto il rammarico di Giuseppe Di Vittorio, leader storico della Cgil, il quale aveva conosciuto giovanissimo Filippo Corridoni e amava ricordarne l'azione e denunciarne l'appropriazione indebita da parte del fascismo. Ripercorriamo allora la sua biografia: nato nel 1887 nell'odierna Corridonia da famiglia di fornaciari (operai di fornace), è primo di quattro fratelli, i quali avrebbero finito, sulla sua scia, per legare il loro nome alla storia italiana. La fanciullezza e la gioventù di Corridoni trascorrono nella pròvincìa marchigiana: la frequentazione del prozio Filippo, frate francescano predicatore e missionario, è di fondamentale importanza per la sua educazione e per la sua crescita culturale. Infatti, tutta la sua azione, pur essendo contraddistinta spesso da feroci accenti anticlericali, era comunque impregnata di uno spirito religioso, di un'idea di missione, che lo portarono a sostenere sforzi e sacrifici incredibili, che venivano inoltre sopportati da un fisico minato dalla tisi: toccanti sono i ricordi, da parte delle cronache del tempo, dei frequenti «colpi di tosse» che interrompevano i suoi discorsi e l'accenno disperato ai suoi problemi di salute in alcune sue lettere.
LO ZIO FRATE GLI TRASMETTE NOZIONI DI CULTURA CLASSICA e di lingua francese; contemporaneamente Corridoni studia e lavora, anch'egli come «fornaciaro», ma, le indubbie doti rivelate agli insegnanti spingono questi a consigliare ai genitori, e a sostenere, un suo proseguimento degli studi. Viene quindi inviato a Fermo, dove, grazie a una borsa di studio, può studiare all'Istituto superiore industriale, ottenendo nel 1904 il diploma di perito disegnatore meccanico. Legge testi di Mazzini e Pisacane, probabilmente si avvicina alla lettura di Marx ed emergono ormai le sue qualità: forte generosità, disponibilità ad apprendere, vivace intelligenza e sensibilità, coraggio e lealtà, insofferenza verso i potenti, senso della ribellione accompagnati a una grande affabilità di fondo e a disponibilità al dialogo. La provincia marchigiana gli va stretta: nell'Italia che vive ormai pienamente la propria seconda rivoluzione industriale, si trasferisce a Milano, dove lavora come disegnatore meccanico nell'industria metallurgica Miani e Silvestri. Vive, ci dicono le lettere, in un piccolo alloggio a porta Venezia (via San Gregorio 48) e si avvicina ai circoli giovanili del Partito socialista. Alloggia in seguito presso la casa di Comunardo Braccialarghe, a porta Vigentina. Divenuto presto uno dei referenti giovanili del Partito socialista, le sue simpatie si orientano verso la corrente sindacalista e rivoluzionaria e interviene in alcune manifestazioni con spiccati toni antimilitaristi. Così si espresse la sera del 20 giugno 1907 nelle scuole di via Felice Casati: «Noi propugniamo la dissoluzione degli eserciti permanenti e la costituzione della nazione armata. Solo con essa il popolo è garantito dalle oppressioni dei suoi governanti; solo con essa si sentirà cittadino nella sua patria».
CON MARIA RYGIER, GIOVANE A-NARCHICA DI ORIGINE TOSCANA, diffonde un giornaletto antimilitarista. Rompete le Righe! al quale collabora anche come articolista: mentre ne distribuisce alcune copie di fronte alla caserma del Nizza cavalleria, viene arrestato. Condannato a cinque anni di reclusione per apologia di reato, esce dal carcere in seguito a un'amnistia. Deve però ben presto riparare all'estero: andrà a Nizza, perché il provvedimento di clemenza risulterà, in sede di controllo, non applicabile al suo caso. La sua biografia registra così i tre eventi ricorrenti della sua breve vita: malattia, carcere (subirà qualcosa come una trentina di custodie cautelari), esilio.
IN CONTATTO A NIZZA con il fuoruscitismo antagonista politico e sindacale, nel 1908 decide di tornare sotto il falso nome di Leo Celvisio a Parma, epicentro di scioperi bracciantili di straordinaria durezza, anticipati da alcune agitazioni nel 1907 e innescati dalla mancata applicazione dei patti stipulati con i proprietari terrieri a seguito delle stesse agitazioni.
Gli scioperi di Parma, pietra miliare delle azioni organizzate di protesta condotta dalle classi la-voratrici durante il novecento italiano, durarono oltre due mesi e portarono a una paralisi dell'economia agricola del parmense e a una durissima reazione dell'Agraria, l'associazione dei proprietari terrieri che si contrappose agli scioperanti, i quali alla fine furono costretti a cedere, sia per le azioni repressive della prefettura e delle squadre armate private dei proprietari, sia per il ricorso al crumiraggio. Furono decisive per la sconfitta anche le fratture interne al sindacato stesso, con la contrapposizione fra la camera del lavoro di Parma, sindacalista rivoluzionaria, e quella di Borgo San Donnine, l'odierna Fidenza, riformista.
E' A PARMA CHE CORRIDONI conosce Alceste De Ambris, segretario della locale camera del lavoro e inizia a collaborare con il giornale L'Internazionale, organo della camera del lavoro «sindacalista» (con questo aggettivo si indicavano le camere del lavoro soste-nitrici del movimento sindacale che non condivideva, pur ancora all'interno di un quadro unitario, rappresentato dalla Confederazione generale del lavoro, i legami politici con il Partito socialista e comunque non simpatizzavano per le strategie riformiste). La frequentazione di De Ambris e l'applicazione diretta sul campo delle idee sindacaliste iniziano a forgiare le sue convinzioni: «Il perno del riformismo è lo stato, il nostro è il sindacato. I riformisti vogliono conquistare lo stato, il potere centrale, per potere dettare dall'alto di esso le loro leggi di uguaglianza sociale; noi, servendoci del sindacato come di catapulta, vogliamo distruggere l'organismo statale», avrebbe scritto nel libretto Le forme di lotta e di solidarietà del 1912. Distintosi per l'acceso attivismo, viene riconosciuto dalla polizia e deve riparare ancora all'estero, questa volta in Svizzera, a Zurigo, dove continua le sue collaborazioni giornalistiche con L'Internazionale.
Una nuova amnistia gli consente di fare rientro in Italia. E' il 1909 e si reca nel modenese, dove assume la direzione della camera del lavoro di San Felice sul Panare e tenta un'azione politica di sintesi fra l'ala riformista e l'ala rivoluzionaria dei lavoratori modenesi, cercando di fare prevalere la seconda; si distingue altresì per una aggressiva campagna anticlericale che giunge alla minacciata occupazione del duomo di Mirandola e all'interruzione di alcune funzioni religiose. Nuovamente arrestato, viene isolato dal movimento sindacale per il prevalere della corrente riformista e confederale, ma fonda il giornale Bandiera rossa, che vivrà solo poche settimane. Colla-bora altresì con il giornale Bandiera proletaria, che in seguito diventerà Bandiera del popolo, testate entrambe dirette da Edmondo Ros-soni, il quale, già agitatore sindacale bracciantile nel ferrarese, diverrà per un lungo periodo capo delle Confederazioni sindacali fasciste, ministro in vari governi Mussolini, firmatario dell'ordine del giorno di Dino Grandi la fatidica notte del 25 luglio 1943. •
GLI ANNI RIVOLUZIONARI
Nel periodo prima della grande guerra, all'interno dell'Usi, una scissione da sinistra della Confederazione generale del lavoro, diventa un leader e collabora con alcuni uomini che saranno protagonisti degli avvenimenti successivi: Àlceste De Ambris, Michele Bianchi, Giuseppe Di Vittorio, Attilio Deffenu. E incontra anche Benito Mussolini, con il quale all'inizio non mancano gli scontri e le diffidenze reciproche
Sfiduciato dagli scarsi risultati ottenuti nel modenese, ritenendo di non potere innescare la rivoluzione presso il bracciantato e preferendo quindi svolgere la sua azione fra gli operai dell'industria e dei nascenti servizi pubblici, protagonisti assai più dinamici della rivoluzione industriale e tecnologica che stava modernizzando le grandi città italiane, torna conseguentemente a Milano nei primi giorni del 1911: «Milano», scriverà nel 1912, «è una delle poche città d'Italia che è ricca di tutte le caratteristiche necessarie a un completo trionfo delle nostre idealità: industrialismo sviluppatissimo, contrasti di classe netti e vivi, nessuna infatuazione elettoralistica, accentuato spirito battagliero, fusione completa fra indigeni e immigrati e quindi nessuna acredine regionalistica...».
Fallito un tentativo di farsi assumere alla Itala (ditta destinata a mutare la denominazione sociale in Fiat) diviene collaboratore retribuito del giornale del sindacato dei ferrovieri, La conquista, e nelle riunioni sindacali sostiene la necessità di organizzare i sindacati sulla base dell'appartenenza all'unità produttiva e non sulla base della qualifica lavorativa, come erano fino a quel momento organizzati i cosiddetti sindacati di mestiere. Veniva così posto in essere un modello innovativo di organizzazione sindacale e di relazioni industriali («In conclusione: una organizzazione per ogni stabilimento, una federazione per ogni ramo d'industria, una confederazione fra
tutte le federazioni. Ecco secondo il mio modesto parere, cosa dovrebbe essere il grande sindacato metallurgico»).
IL PROGETTO TUTTAVIA NON TROVA UNA GRANDE ADESIONE, ma la sua fama inizia a crescere, accompagnata a un rispetto e a un seguito sempre maggiori presso la classe lavoratrice, grazie alle sue doti oratorie, al suo fascino e alla limpida natura del suo carattere e delle sue intenzioni, alla sua generosità e alla sua intransigenza coerente. Chiamato a dirigere la camera del lavoro di Legnano nel febbraio del 1911, nei mesi successivi, a Milano, diviene capo del sindacato dei lavoratori del gas, i cosiddetti gasisti, di cui organizza uno sciopero che tuttavia fallisce, ma ormai è fra i capi del sindacalismo rivoluzionario milanese. Sul finire del 1911 si impegna negli scioperi di solidarietà con i lavoratori di Piombino e in una accesa campagna contro l'intervento giolittiano in Libia, scrivendo e pubblicando il libretto Le rovine del neoimperialismo italico.
Dopo un periodo di convalescenza e di cura a Lugano, si reca a Bologna dove assume la segreteria del sindacato provinciale edile e collabora con Pulvio Zocchi per organizzare uno sciopero di facchini e più in generale le forze del sindacato bolognese aderenti al Comitato nazionale dell'azione diretta, diretto da Alceste De Ambris, cioè quella corrente sindacale che è ormai in aperta rottura con il resto della confederazione unitaria. Sempre attivo nella propaganda antimilitarista e di appoggio alle «vittime politiche», cioè oppositori incarcerati o costretti all'esilio, viene nuovamente arrestato. A Modena, pur con riluttanza iniziale, partecipa quindi al congresso del Cnad dal quale esce l'Unione sindacale italiana, l'Usi, nei fatti un'aperta scissione in seno alla Confederazione generale del lavoro. Quel che avviene a Modena è fondamentale per la storia del movimento sindacale italiano: con la costituzione dell'Usi, il quadro sindacale unitario fu definitivamente infranto e questa frattura non si sanò mai più, se non per brevissimi periodi e per eccezionali contingenze; ancora oggi la frattura esistente fra sindacati confederali, peraltro a loro volta divisi, e sindacati autonomi, è erede lontana, con varie differenze, di quel congresso. Con lui entrano nell'Usi i fratelli De Ambris, Tullio Masotti, Giovanni e Ines Bitelli, Fulvio Zoc-chi, Alberto Meschi, Giuseppe Di Vittorio, Riccardo Sacconi, Cesare Rossi, Livio Ciardi, Agostino Gregori, Assirto Pacchioni, Giuseppe Maja, Vittorio Brogi, Nicolo Fancello, Icilio Guatelli, Emiliano Cuzzani e tanti altri. Durante l'assise congressuale tiene una relazione, in seguito pubblicata: Le forme di lotta e di solidarietà, dove indica, nero su bianco, nello sciopero, nel boicottaggio e nel sabotaggio gli strumenti di lotta, nel caso anche violenta, per affrontare la sfida del capitalismo e della borghesia industriale: non con la strategia riformista o l'elezioni-smo partitico, ma attraverso l'azione diretta.
LA NASCITA DI UNA NUOVA ORGANIZZAZIONE con tutti i problemi che ne derivano, lo chiama nuovamente a Milano: qui costituisce l'Usm, l'Unione sindacale milanese, associata all'Usi e con un proprio organo di stampa L'avanguardia. Ottiene un certo consenso con l'adesione dei metallurgici, dei gasisti, del sindacato dei vestiari, dei tappezzieri di carta e dei decoratori. Alloggia in una pensione in Via Eustachi, insieme con i fratelli De Ambris, Michele Bianchi, futuro quadrumviro della marcia su Roma, e Attilio Deffenu, avvocato sassarese, già aderente alla Lega antiprotezionista di Maffeo Pantaleoni e collaboratore de La Lupa di Paolo Orano. Nel mese del maggio 1913 guida uno sciopero dei lavoratori dell'auto e dei cosiddetti ciclisti, grazie anche all'appoggio di Be-nito Mussolini, allora direttore deU'Avanti!. Il destino dei due inizia a incrociarsi, ma i rapporti saranno all'inizio contraddistinti da un forte sospetto e da una reciproca diffidenza e invidia. Lo sciopero, pur non ottenendo i risultati sperati, riesce ad attirare la partecipazione di altre categorie e la figura di Cor-ridoni ne esce rafforzata. Di nuovo inquisito per avere scritto e diffuso l'opuscoletto Le forme di lotta e solidarietà («Scrivendo sul sabotaggio io non ho inteso di fare l'apologia del delitto d'incendio e di quello di danneggiamento: ho voluto prendere in esame un fenomeno della lotta di classe... Nessuno ha mostrato...di essersi reso conto di ciò che sia veramente il sabotaggio, del suo valore morale, politico e sociale... un mezzo di lotta nelle guerre econo-miche tra capitale e lavoro...»), torna in carcere; ne esce a metà settembre, dopo il fallimento dello sciopero degli operai del materiale mobile. Poco tempo per riposarsi: nell'ottobre del 1913 è ancora a Parma per sostenere la candidatura di protesta di Alceste De Ambris nelle elezioni suppletive del VI collegio per la Camera («La candidatura protesta....si propone invece di riparare a un'iniquità legale, conferendo al perseguitato dalla reazione le immunità parlamentari, all'unico scopo di trarlo dal carcere o dall'esilio, per restituirlo alla pienezza dei suoi diritti...»).
L'USIVI, NONOSTANTE ABBIA OSPITATO IL CONGRESSO DELL'USI del dicembre 1914 e il vittorioso appoggio a un'ulteriore candidatura di protesta, quella dell'anziano combattente risorgimentale Amicare Cipriani nel gennaio 1914 al collegio VI di Milano, il quale peraltro non potrà mai sedere in Parlamento in quanto rifiutatosi di giurare fedeltà al re, si è nel frattempo fortemente indebolita e versa in gravi difficoltà finanziarie: tan-t'è che la relazione di Corridoni all'assemblea degli iscritti, tenuta il 23 marzo 1914, è fatta oggetto di forti critiche. Come se non bastasse, Corridoni è entrato in contrasto con Mussolini, contro cui pone in essere un violento e ingiurioso attacco dalle colonne de L'Internazionale di Milano e Parma (l'edizione di Bologna omette invece la pubblicazione dell'articolo), definendo Mussolini apertamente nemico: il 7 marzo 1914 ha scritto infatti Politicantismo socialdemocratico alla sbarra. Come si combatte il lealissimo direttore dell'Avanti!. Chi sono i nostri nemici: Adeli-no Marchetti e Benito Mussolini. Partecipa alla settimana rossa che si scatena dopo i sanguinosi scontri di Ancona del 7 giugno 1914, in occasione della festa dello Statuto e che sfocia in una situazione apertamente insurrezionale in molte zone d'Italia: è fra i capi delle proteste condotte a Milano e, fra gli organizzatori, il più instancabile e coraggioso: «Mai in Italia c'è stato tanto accanimento contro la folla inerme, troppo abituata alla pazienza e alla rassegnazione. E' ora di finirla. Ma non facciamo della inutile retorica. Dobbiamo cercare di non accontentarci della piccola politica, ma di fare della politica antistatale. Dobbiamo mirare in alto perché non è soltanto contro la bastonata del poliziotto che dobbiamo reagire...ma rivoltarci contro il Governo e contro la Monarchia. Noi diciamo forte che il proletariato di Milano e d'Italia non riprenderà il lavoro fino a quando la Casa Savoia non sarà mandata in Sardegna...».
Diventa una sorta di spauracchio per il padronato milanese, tanto da essere messo all'indice dal Corriere della Sera che ne anticipa la prossima dura repressione. Viene fermato infatti durante una manifestazione e duramente percosso dalla polizia, cui si uniscono gli insulti e la gogna della folla borghese nei pressi della galleria Vittorio Emanue-le. Ma il fallimento finale della lotta nella settimana rossa e la definitiva messa in crisi dello «sciopero generale espropriatore» come strumento di lotta alternativo per il proletariato all'insurrezione di stile risorgimentale incominciano a generare in luì, così come in tanti altri, un certo pessimismo e una riflessione sul ruolo del sindacato che avrebbe fatalmente anticipato un mutamento radicale delle posizioni.
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