giovedì 13 agosto 2009

Mario D’Agostino

NUOVA LUCE SUI FATTI AVVENUTI
A CASALDUNI ED A PONTELANDOLFO NELL’AGOSTO DEL 1861*

S. A. per www.vesuvioweb.com

Solitamente, nell’immaginario collettivo, due soli sono i fatti memorabili accaduti nell’estate del 1861 in provincia di Benevento: l’eccidio dei soldati piemontesi avvenuto a Casalduni l’11 di agosto e la distruzione di Pontelandolfo portata a termine tre giorni dopo. Questi due episodi, però, sono soltanto la punta di un grosso iceberg e la loro origine si può in gran parte far risalire a ciò che il 10 di agosto avvenne a Pescolamazza (oggi Pesco Sannita) ed a Pietrelcina.
All’alba di quel giorno partì da Benevento un contingente militare agli ordini del colonnello Gaetano Negri. All’altezza dei Mosti le forze vennero divise in due colonne. Verso Pietrelcina mossero, agli ordini del maggiore Rossi, una compagnia di bersaglieri comandata dal capitano Teyas ed una compagnia del 61° fanteria comandata dal capitano Malinverni. Il resto della truppa, sotto il comando dello stesso Negri, si diresse verso Pescolamazza.
I bersaglieri di Negri, giunti in piazza, andarono subito a circondare il palazzo Orlando. Gli uomini di casa, sentendo bussare violentemente, vestiti sommariamente si precipitarono ad aprire la porta. I soldati, senza dar loro neppure il tempo di finire di vestirsi, li spinsero a calci e pugni per la piazza fino ad un grosso olmo che era alla sua estremità superiore. Giunti sotto l’albero, tra i cui rami sventolava ancora la bandiera bianca che i rivoltosi di Pago insieme ai reazionari locali vi avevano messo due giorni prima, il colonnello Negri fece legare al tronco Luigi Orlando e, dopo averlo accusato di essere promotore e capo della rivolta filoborbonica di Pesco, ordinò che fosse fucilato all’istante. Il figlio prete don Giandonato ebbe appena il tempo di dargli l’assoluzione prima che i piemontesi facessero fuoco. Dopo l’esecuzione i soldati chiamarono a raccolta i paesani per mostrar loro il cadavere ancora sanguinante del notabile giustiziato.

Pontelandolfo
Mentre queste cose avvenivano a Pesco il maggiore Rossi ingaggiava battaglia a Pietrelcina contro circa quattrocento uomini guidati dal capobanda collese Francesco Saverio Basile, meglio noto come il Pilorusso. I reazionari, colti di sorpresa, furono presto sbaragliati e si diedero alla fuga lasciando sul terreno ben trentacinque dei loro uomini. Fin qui niente da recriminare: si trattava di una battaglia che i piemontesi, molto meglio equipaggiati ed addestrati, avevano vinto sul campo.

Mario D’Agostino. Nuova luce ...

Quello che avvenne dopo, però, fu solo violenza gratuita contro degli uomini inermi. I soldati, infatti, guidati dal sindaco Giacomo Tavini in persona, si recarono casa per casa catturando altri undici uomini di età compresa tra i diciotto ed i settantacinque anni che fucilarono poi a sangue freddo. Nella rete, naturalmente, non caddero né i capi politici della rivolta pietrelcinese (in prima fila l’arciprete don Nicola de’ Tommasi, suo fratello Antonio ed il loro nipote Filippo) né quelli militari (Domenico Brindisi, Domenico Brini, Gioacchino Saginario e Giovanni Sagliocca) ma solo dei poveri diavoli che ebbero la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Ecco i loro nomi: Domenico Cardone (anni 38), Cosimo d’Andrea (anni 30), Giovenale de’ Palma (anni 70, di Pago), Mennato Aucone (anni 75), Giuseppe Frangiosa (anni 30), Lorenzo Pannullo (anni 42), Antonio Lepore (anni
24), Giovanni de’ Cianni (anni 18), Giuseppe de’ Cianni (anni 43), Michele Orlando (anni 45) e Giuseppe Santillo (anni 31). Solo uno di essi (Domenico Cardone) fu giustiziato alle ore dodici. Tutti gli altri risultano essere stati fucilati alle dieci. Orbene, ne sono convinto, furono proprio le brutali esecuzioni avvenute a Pescolamazza ed a Pietrelcina, più che l’esito sfavorevole della battaglia, a far saltare il sangue agli occhi dei reazionari.
Francesco Esci, infatti, il noto capobanda pescolano che aveva lasciato Pesco a tarda sera e che molto probabilmente si era accampato con i suoi uomini nel bosco della Barrata per passarvi la notte, quando il mattino dopo si avvicinò a Pietrelcina per dare man forte al Pilorusso, resosi conto che le sorti della battaglia erano ormai compromesse e che a nulla sarebbe servito il suo intervento, preferì dirigersi verso Fragneto Monforte. E qui, dove il giorno prima non aveva dato luogo a nessun atto di violenza, ordinò alla sua banda di saccheggiare le case dei liberali più in vista e fece fucilare due garibaldini: Rosario De Angelis e Nicola Petrone. Questo fu solo un piccolo assaggio di quello che sarebbe successo l’indomani, 11 agosto, a Casalduni. Quel giorno, come è noto, qui vennero fatti prigionieri e fucilati quaranta soldati piemontesi comandati dal tenente Cesare Augusto Bracci. Principale responsabile di questo eccidio fu ritenuto Angelo Pica alias Picozzo il quale, in concorso con Filippo Volpicella, Nicola Cirelli e Nicola d’Aloia era responsabile anche della fucilazione dei due garibaldini di Fragneto Monforte. Siccome il Pica, il Volpicella, il Cirelli ed il d’Aloia facevano parte della banda Esci è ovvio presupporre che il vero responsabile di tutti questi misfatti fosse proprio il capobanda pescolano. Il suo nome ovviamente non compare negli atti processuali solo perché al tempo in cui il processo venne istruito egli era già morto. Fu fucilato, infatti, a Pescolamazza, in contrada Vignale di Iorio, il 24 settembre del 1861 insieme al noto capobanda alberonese Michele Zeuli che era stato catturato a Pietrelcina il 27 di agosto in casa del vinaio Bartolomeo Masone.
La stampa di regime, naturalmente, fece in modo che la ragione stesse tutta dalla parte dei soldati. Il Giornale officiale di Napoli, infatti, nel n. 194 del 16 agosto 1861 fece credere che a Pescolamazza Luigi Orlando era stato solo arrestato e che a Pietrelcina erano morti soltanto trentacinque reazionari in battaglia. Fu facile così per la propaganda filogovernativa presentare il massacro di Casalduni come un tipico esempio della cieca ferocia dei briganti e far apparire la distruzione di Pontelandolfo come una normale azione di ritorsione che, per quanto crudele, era, tutto sommato, umanamente giustificabile.

(*) Per una conoscenza approfondita di quanto avvenne nei vari paesi del beneventano tra la fine del 1860 e l’estate del 1861 cfr. Mario D’Agostino, La reazione borbonica in provincia di Benevento, seconda edizione, Fratelli Conte Editori, Pozzuoli, 2005. Il volume, di cui viene qui riprodotta la copertina, è distribuito dalle Edizioni il Rubino s.r.l., via provinciale Pianura 25/A (località S. Martino), 80078 Pozzuoli (NA) (tel. 0818530868, e.mail: il rubino@tin.it ).

Il professore Mario D’Agostino è dottore in chimica e dottore di ricerca in scienze farmaceutiche. Profondo cultore della ricerca storica ed etnografica del suo paese d’origine, Pesco Sannita, ha pubblicato già nel 1981 una Storia di Pesco Sannita. Uno dei suoi ultimi lavori su lingua e tradizioni della sua terra è il Dizionario Pescolano, un percorso affascinante su usi e costumi del popolo di Pesco Sannita attraverso lo studio del suo dialetto.

Nessun commento:

Posta un commento