venerdì 31 luglio 2009

UN’IMPRESA PER TUTTI: SOCIALIZZAZIONE



di Miro Renzaglia

“La parola operaio non ha per noi alcuna indicazione di classe (...): non rappresenta inferiorità o superiorità sulla scala sociale: esprime un ramo d’occupazione speciale, un genere di lavoro, un’applicazione determinata dell’attività umana, una certa funzione sociale; non altro. Diciamo operaio come diciamo avvocato, mercante, chirurgo, ingegnere. Tra codeste occupazioni non corre divario alcuno quanto ai diritti e ai doveri dei cittadini... Le sole differenze che noi ammettiamo tra i membri di uno Stato sono le differenze di educazione morale. Un giorno, l’educazione generale uniforme ci darà una comune morale. Un giorno saremo tutti operai, cioè vivremo tutti sulla retribuzione dell’opera nostra in qualunque direzione sì eserciti.”
Giuseppe Mazzini, 1842

Il riordinamento del lavoro sotto la legge dell’associazione sostituta all’attuale del salario, sarà, noi crediamo, la base del mondo economico sicuro, e implica che un capitale indispensabile all’impianto dei lavori e alle anticipazioni necessari debba raccogliersi nelle mani degli operai associati.”
Giuseppe Mazzini, 1871

Nel 1943 avvenne un fatto storico clamoroso (storico e clamoroso a livello mondiale, ben inteso...), fino a quel momento sperato e disperato: viene proclamata una Repubblica che, per la prima e, a tutt’oggi, unica volta, intese ufficialmente definirsi sociale, oltre che italiana. Il che apparirà consustanziale emergenza agli esiti della Seconda guerra mondiale solo alla miopia congenita dei pregiudizialisti dell’antifascismo a oltranza. Invece, nonostante l’infausto andamento del conflitto, significava (anche...) altro e, soprattutto, nella fattispecie: “Lo sviluppo logico della nostra rivoluzione” (Mussolini Benito...). Che viene (detta rivoluzione...) dalle lontane aspirazioni mazziniane ricordate in epigrafe (con prego di leggere bene...), quasi contestuali, a quelle dei comunardi parigini che, proprio al grido di “Repubblica sociale”, inaugurarono la rivoluzione del febbraio ’48 (prontamente stroncata dalla reazione, allora, come quasi cento anni dopo lo fu quella italiana...).

A parte quelli che l’avrebbero voluta realizzare già all’indomani del programma di San Sepolcro (1919), la Repubblica sociale italiana continua a cogliere di sorpresa perfino gli storici di età successive i quali, in auge di immancabili ri-pensamenti negazionisti, ancora inciuciano tra ipotesi e sospetti: se si tentò di recuperare le originarie matrici di “sinistra” del fascismo; se è stata la mina a scoppio ritardato per far saltare in aria, conclusa la guerra, gli industriali traditori della patria e del fascismo e i loro degni compari d’affari anglo-americani; o se, al massimo, è stato solo un espediente di propaganda per creare, in finale di partita, nuovo consenso di massa... Quando non arrivano a dichiarare invalide “giuridicamente” le iniziative di uno stato che - sempre a loro dire - non avrebbe avuto nessun riconoscimento legittimativo. Dimenticando (o facendo finta di dimenticare...) che, se così fosse, non ci sarebbe stato alcun bisogno di abrogare “giuridicamente” i suoi atti legiferativi che attuarono, per esempio, “La socializzazione delle imprese” (Decreto del duce 12.2.1944, n.375). Come fecero, di corsa, i partigiani della liberazione, la mattina stessa del loro insediamento al governo (occhio alla data del decreto abrogativo...): 25.4.1945...

Mi sembrava necessario riassumere, in apertura, l’esperienza reale della socializzazione in quella storia del pensiero e (talora...) della praxis che va dal sorgere dello stato sociale, alla partecipazione responsabile dei lavoratori nell’impresa, alla condivisione degli utili, fino alle utopie autogestionali delle stesse (imprese...). L’ho ricordato - dicevo -, un po’ perché mi è caro il contesto storico-politico nella quale si espresse (nonostante l’esito infausto...), sia pure come estrema fioritura e, di più, ancora, perché a me la socializzazione sembra essere qualcosa di, sì, decisamente rivoluzionario ma, anche, di sintesi equilibrata rispetto ai biscotti liberisti, agli insaccati espropri statali (leggi comunismo nella versione burocratica e reale...) e alle istanze partecipative all’acqua di rosa socialdemocratica... Comunque, per fare maggiore chiarezza e puntualizzare un concetto che ha radici lontane, sarà cosa buona e giusta andarle a rintracciare, quelle radici...

Tutto, in fondo, nasce da un concetto molto semplice: la ragione dello stato (attenzione, ho detto: la ragione dello stato, NON la ragion di stato....). Intendo: cosa legittima quel groviglio di istituti e persone collegati da un patto di convivenza che prende il nome appropriato di stato? Uno scambio, un semplice scambio: la rappresentanza dello stato chiede l’obbligazione politica al cittadino (dal rispetto delle leggi, pur che siano, alla tassazione, al servizio miliare, etc...); il cittadino, per il suo, ha titolo di pretendere il riscatto dalle condizioni di bisogno primario (cibo, casa, salute, istruzione, previdenza, prevenzione dagli accidenti ed eventuale assistenza nel caso malaugurato l’accidente si verifichi... etc). Va da sé che i termini di questo contratto possono essere modulati all’infinito. Le cricche liberali, per esempio, hanno sempre ritenuto che un meno di pubblico e un massimo di privato, nei gangli nervosi del vivere consociato, solleverebbe lo stato dall’obbligo di tassazioni feroci (il che, in ogni caso, non avviene mai nella misura corrispondente all’equo...) lasciando libero (?) il cittadino di provvedere personalmente alla sua felicità (!). Tanto che, sempre per fare un esempio, quando nel 1848 l’Irlanda fu colpita dalla micidiale carestia che è ricordata poco e male in pubblicistiche varie e, assolutamente mai, sui libri di storia dei nostri figli, i liberal benpensanti inglesi, servi ormai da due secoli della loro Banca, preferirono veder morire un milione di persone e altre due costrette ad emigrare, anziché soccorrerle “per non creare un popolo di affamati, vittime dell’assistenza” (sic!). D’altro lato, troveremo senz’altro i partigiani del cliché comunista inforcato, più tosto, nella rigidità burocratica del partito-stato omnipervasivo e tutto previdente che nulla lascia alla libera iniziativa dell’individuo; dei Comitati talmente Interni da essere inaccessibili ai più dei compagni-cittadini; dei Soviet tanto Supremi da non abbassarsi mai a concedere se non tutto, com’era nelle premesse, promesse e negli auspici, almeno un po’ di potere a quei soviet terreni che dovevano essere (e non lo sono mai stati...) i Consigli degli operai. In mezzo a questi due poli, apparentemente ostili, la storia ha registrato tutta una gamma svariata di fioriture dispari che modulano in sintesi epocale e/o geografica le possibilità di mezzo. Cancellando da se stessa (la storia ufficiale...), pur tutta via, le tracce dell’unico esperimento reale, realmente alternativo, che porta il nome appropriato di socializzazione e si inscrive tutto nel destino breve della Rsi...

Una mediazione parziale ma logica fra istanze del capitale e quelle delle maestranze si ebbe con il sorgere del, così detto, stato sociale. In prima cattedra, lo stato sociale aveva, infatti, come riserva di auspicio, la redistribuzione della ricchezza interna netta della nazione, per favorire (questa, l’intenzione...) l’affrancatura delle fasce più deboli dal delitto della miseria (la povertà è un’altra cosa che non è detto sia sempre un valore negativo...). Non è nemmeno detto che sia stato Bismarck ad inventarlo (lo stato sociale...) ma è certo che fu lui, un antiliberale per icona assoluta, a dargli una struttura meno vaga, approssimativa ed episodica... Ne ricorderò a memoria alcune parole: “Si dice che io abbia inventato una specie di socialismo di stato. E’ falso. Mi sembrava giusto che un operaio menomato da una macchina o un minatore mutilato da un’esplosione dovesse essere strappato alla fame. Così mi sono battuto per creare un fondo a favore degli operai, gestito da corporazioni autonome, per stimolare uno spirito solidale e d’iniziativa.” Infatti, non aveva (il Bismarck in oggetto...) inventato nessun “socialismo di stato”, se mai aveva costituito un abbozzo di stato sociale pertinente... Pertinente anche - è il caso di sottolinearlo - a sfiatare un po’ la minaccia che le masse cominciavano a montare contro le evidenti nequizie del capitalismo industriale e rampante del suo periodo... E questo è un limite dello stato sociale: il popolo chiede il giusto e lo stato gli dà qualcosa insieme alla paternale: “State boni... se potete... e non rompete troppo co’ ‘ste pretese di voler essere voi, il popolo, l’artefice del vostro destino: se no, noi, la rappresentanza politica, che ce stamo a fa’?” Ecco, appunto: che ce state a fa’? Volete mediare fra i fornitori di braccia e menti e fornitori di capitale? Ce date er biscottino mentre l’artri se pappano ‘a torta? Ce mandate, caso mai, a fa’ le guerre che solo quarche vorta è voluta dar popolo e, nella maggior parte dell’artri, invece, serve solo a creà le premesse necessarie: “Pe’ li ladri delle borse...” (Trilussa)....? (A tal proposito, mi piace ricordare uno dei pochi casi di guerra voluta, fortissimamente voluta, proprio dal popolo - Corridoni, D’Annunzio e Mussolini; le radiose giornate di maggio e la guerra del ’15 – ‘18: do you rimember? - come preparazione sacrificale e necessaria alla rivoluzione che ci fu: quella fascista...).

Un altro limite dello stato sociale è questo: più estende i suoi benefici dalle fasce da proteggere a quelle già protette del loro, più le risorse necessarie ai provvedimenti economici (le gabelle d’imposta...) s’incrementano fatalmente (e qui, mi spiace doverlo dire, ma hanno ragione perfino i liberisti - pensate un po’...). Il fatto è che il sistema misto, libero mercato e stato sociale, mal si conciliano... Se il capitalista è libero di trarre super profitto dal capitale investito in attività produttive e tenerselo accuratamente per sé (per reinvestirlo - che so? - in giochetti finanziari e/o di borsa dove se vince vince lui, e se perde perdiamo tutti...), hai voglia tu a svenarti di tasse per sorreggere uno stato sociale allargato a tutti: i conti non torneranno mai... Così, è semplicemente plausibile la super dittatura del Fondo Monetario Internazionale (e consorelle usuraie affiliate...) che, di tanto in tanto, manda segnali inequivocabili ai sudditi dipendenti per debito pubblico: tagliare lo stato sociale... In questo tran tran da Monte di Pietà, senza scampo e senza fine, è perfino inutile cercare un rimedio: bisogna aspettare che il sistema imploda, secondo profezia marxiana e per suo naturale destino, tenendoci pronti (noi, non marxisti...) all’evenienza con proposte di ricostruzione, alternative e valide, alla più grande crisi che il mondo, dalle sue origini ad allora, avrà conosciuto...

E, allora, vediamo un po’ più da vicino una (a me sembra la sola e la migliore...) fra le possibili alternative. Intanto: alternative a cosa? In primis al sistema delle rappresentanze. Quello, tanto per essere chiari, che ci viene spacciato come “il migliore dei mondi possibili” (Leibniz). Il nostro, in somma: quello che ci invita a delegare le nostre pretese di essere protagonisti almeno della nostra vita a parlamenti, sindacati, consigli di amministrazione, fondi azionari e, giù giù, fino agli amministratori di condominio... Ma basta!!! Io voglio decidere di me stesso ed assumermi la responsabilità della mia decisione e delle conseguenze, positive o negative, che ne derivano... Tutta qui sta la mia libertà... Il resto è manfrina da servi o ignavi... Mi si dirà: “...ma questa è anarchia...”. E io gli risponderò: ma non diciamo stronzate... Non perché ritenga l’anarchia una stronzata, ma solo perché la concepisco come pura utopia e, io, non sono un grande estimatore dell’utopia perché - vedete? - quando l’utopia ha preteso di realizzarsi nella storia, il sogno è sempre diventato un incubo... Non voglio amputarmi della possibilità di sognare, ma non voglio nemmeno elevare il mio sogno ad incubo altrui... Allora, cerchiamo una via di conciliazione dove il sogno aiuti la realtà ad essere meno infame di quella che è. Non ad annientarla in nome di platonici mondi delle idee che si qualificano, riportati a terra, in stermini di immani contingenti umani... Sono un operaio? Bene: voglio esserlo fino in fondo... E se sono operaio voglio decidere nell’ambito del mio contesto... Non delego, non mi faccio rappresentare, non elemosino aumenti di salari... Voglio stare dentro la mia fabbrica, decidere nel merito delle sue imprese e dividere le responsabilità e gli utili... Eh, sì: anche gli utili. O i disutili, semmai... Non voglio che un sindacato qualsiasi venga a barattare il mio licenziamento o la mia messa in cassa integrazione a nome mio e per conto dei “superiori interessi dell’azienda...”. Io da qui non mi muovo: o tutti attivi o tutti a casa: capitalista compreso, però...
Anzi - a dire il vero - la figura del “capitalista puro” manco deve esistere... Perché lui, è vero, c’ha messo il capitale ma se non viene a mensa con me, sono io, è il mio stato che lo licenzia... Perché - lo diceva già Mazzini - : siamo tutti operai E, infine, e soprattutto, che si scordi di mettere le mani sui super profitti: divisi gli utili nelle parti eque, se non equivalenti, che la legge decide, quelli (i super profitti...) vanno a finalizzarsi in pubbliche esigenze “sociali e produttive”. Meno ricco lui, forse... Meno miserabili tutti, senz’altro... E, poi, chi lo dice che lo scaricamento della sua responsabilità assoluta in una responsabilità socialmente condivisa non procuri anche al camerata capitalista condizioni d’essere meno infelice di quanto, per esempio, sono quelle di vedere un figlio, già ampiamente provato dall’abuso di stupefacenti, catapultarsi giù da un viadotto per disperazione (o per dispetto...) esistenziale? (Ciò detto, con tutto il rispetto dovuto alla sorte di quel povero ragazzo e per il dolore di chi fu suo padre: capitalista o no...).

L’architrave della socializzazione, nella versione del decreto legge del duce del 12 febbraio 1944, n. 375, è sorretta da tre colonne che definire d’Ercole è cosa appropriata. La prima riguarda la possibilità che le imprese, in origine private, possano (attenzione al “può” che ho provveduto a mettere in corsivo e sottolineare nel corpo dell’ articolo...); possano - dicevo – diventare di proprietà pubblica ed è data dall’ articolo 31. Lo riporto per intero:

Art. 31. Determinazione delle imprese da passare in proprietà dello Stato - La proprietà di imprese che interessino settori chiave per la indipendenza politica ed economica del Paese, nonché di imprese fornitrici di materie prime, di energia o di servizi necessari al regolare svolgimento della vita sociale, può essere assunta dallo Stato a mezzo dell’I.Ge.Fi. (Istituto di Gestione delle Finanze, ndr.) secondo le norme del presente decreto. Quando l’impresa comprenda aziende aventi attività produttive diverse, lo stato può assumere la proprietà di parte soltanto dell’impresa stessa. Lo Stato inoltre può partecipare al capitale di imprese private.

“Può...”, quindi, non deve, e nemmeno, in assoluto, vuole... In altre parole: lo stato può assumere la proprietà di imprese private o partecipare al suo capitale, qualora determinate esigenze di economia o di strategia politica o militare (mettiamo le imprese produttrici di materiale bellico in caso di guerra...) ne impongano il controllo diretto. Lo stato sociale fascista e repubblicano, quindi NON espropria le imprese, ma si riserva la possibilità di farlo, qualora il caso la necessità o l’emergenza lo richiedano... E, ditemi: quale stato, perfino il più liberista, nelle medesime condizioni di emergenza e di necessità, non si riserva la stessa facoltà... In somma, il nostro caro camerata capitalista, se è serio e sensibile alle sorti della nazione può, fin qui, stare tranquillo: in caso di coscienziosa osservanza dell’etica di solidarietà nazionale, nullo e nessuno lo esproprierà l’impresa...

Meno tranquillo, probabilmente, si sentirà all’avviso delle altre due colonne portanti. La prima delle quali due (“la responsabilità nella gestione dell’impresa”) succingo nella citazione testuale degli articoli 1, 4, 5 e 6, sempre del decreto del duce anzidetto:

Art. 1. (Imprese socializzate) - Le imprese di proprietà privata che dalla data del 1° gennaio 1944 abbiano almeno un milione di capitale o impieghino almeno cento lavoratori, sono socializzate. Sono altresì socializzate tutte le imprese di proprietà dello Stato, delle Province e dei Comuni nonché ogni altra impresa a carattere pubblico. Alla gestione della impresa socializzata prende parte diretta il lavoro. L’ordinamento dell’impresa socializzata è disciplinato dal presente decreto e relative norme di attuazione, dallo statuto di ciascuna impresa, dalle norme del Codice Civile e dalle leggi speciali in quanto non contrastino con il presente decreto.

Art. 4. (Assemblea, consiglio di gestione, collegio sindacale) - All’assemblea partecipano i rappresentanti dei lavoratori, operai, impiegati tecnici, impiegati amministrativi, con un numero di voti pari a quello dei rappresentanti del capitale intervenuto. Il consiglio di gestione, nominato dall’assemblea, è formato per metà di membri scelti fra i lavoratori, operai, impiegati tecnici, impiegati amministrativi. Il collegio sindacale, pure nominato dall’assemblea, è formato per metà di membri designati dai lavoratori e per metà di membri designati dai soci. Il presidente del Collegio sindacale è scelto fra gli iscritti all’albo dei revisori dei conti.

Art. 5. (Consiglio di gestione delle società che non sono per azioni, in accomandita per azioni o a responsabilità limitata) - Nelle società non contemplate nel precedente articolo 3 il consiglio di gestione è formato da un numero di soci che verrà stabilito dallo statuto della società, e di un egual numero di membri eletti fra i lavoratori dell’impresa, operai, impiegati tecnici, impiegati amministrativi.

Art. 6. (Poteri del consiglio di gestione) - Il consiglio di gestione delle imprese private aventi forma di società, sulla base di un periodico e sistematico esame degli elementi tecnici, economici e finanziari della gestione: a) delibera su tutte le questioni relative alla vita dell’impresa, all’indirizzo ed allo svolgimento della produzione nel quadro del piano nazionale stabilito dai competenti organi di Stato; b) esprime il proprio parere su ogni questione inerente alla disciplina ed alla tutela del lavoro nella impresa; c) esercita in genere nell’impresa tutti i poteri attribuitigli dallo statuto e quelli previsti dalle leggi vigenti per gli amministratori, ove non siano in contrasto con le disposizioni del presente provvedimento; d) redige il bilancio dell’impresa e propone la ripartizione degli utili ai sensi delle disposizioni del presente decreto e del Codice Civile.

Mi rendo perfettamente conto che qui possono cominciare i rodimenti nelle parti basse e meno nobili del, caro camerata (?) capitalista: si passa infatti dal suo dominio assoluto, alla gestione sociale dell’impresa: braccia d’operaio, menti di tecnici e amministrativi compongono con lui (ma pure senza di lui...) un consiglio paritetico di responsabilità nella gestione dell’impresa. Sempre in altre parole: lui (il capitalista...) ci metti i soldi, è vero, ma senza di noi non va a compiere nessuna impresa quindi, lo invitiamo a una sana divisione delle responsabilità. Inoltre - sappia - che nel nuovo Stato del Lavoro (repubblicano, sociale e italiano...), nell’impresa socializzata viene escluso il capitalista che non svolge attività produttiva: il “proprietario non lavoratore” viene ridotto ad una sorta di semplice accomandato. Infatti, la figura centrale dell’impresa socializzata non è più lui, il nostro (possiamo chiamarti ancora camerata...?) capitalista, ma il “capo dell’impresa” eletto o nominato, a seconda dei casi (cioè dal tipo di impresa...). Il quale:

Art. 22. (Responsabilità del capo dell’impresa) - Il capo dell’impresa è personalmente responsabile di fronte allo Stato dell’andamento della produzione dell’impresa e può essere rimosso e sostituito a norma delle disposizioni di cui agli articoli seguenti, oltre che nei casi previsti dalle vigenti Leggi, quando la sua attività non risponda alle esigenze dei piani generali della produzione e alle direttive della politica sociale dello Stato.

In oltre:

Art. 30. (Sanzioni penali) - Al capo dell’impresa ed ai membri del consiglio di gestione di essa sono applicabili tutte le sanzioni penali previste dalle leggi per gli imprenditori, soci ed amministratori delle società commerciali.

E, in ultima, ma non ultima analisi:

Art. 7 (Votazioni) - Nelle votazioni tanto dell’assemblea quanto del consiglio di gestione, prevale, in caso di parità di voti, il voto del capo dell’impresa che di diritto presiede i predetti organi sociali.

Voglia perdonarmi: ma io mi sento meglio e più responsabile verso un camerata a sua volta responsabile “politicamente” (non solo economicamente...) dell’impresa, e che designo per libera scelta, piu tosto che da lui, sommo capitalista, che non è nominato né eletto da alcun chi... Si metta l’anima in pace, il caro (credo, non più camerata...) capitalista: “La rivoluzione è come il vento, ora non puoi più neanche farle perdere tempo” (Fabrizio De Andrè nella versione originale de: La canzone del maggio...).

Ma c’è dell’altro. E sarà la parte che gli piacerà di meno (al capitalista...). Ma è pure quella che invece, a noi forza lavoro (e tenga presente il sostantivo forza...) ci titilla in maniera superba. E farà la fortuna dell’impresa (quindi anche la sua, se sa capirlo...). Perché - veda, ancora - se l’impresa è anche la mia, la sua fortuna io voglio pagarla con il sudore della mia fronte, come pretende Nostro Signore ma voglio pure veder realizzato, nelle mie tasche, il vantaggio che gliene e gliene deriva: non voglio il salario e nemmeno gli straordinari per un’impresa a perdere, voglio condividere gli utili di un’impresa a vincere. Sta’ a vedere cosa combinano i seguenti articoli:

Art. 45. (Remunerazione del capitale) - Sugli utili netti, dopo le assegnazioni di legge a riserva e la costituzione di eventuali riserve speciali che saranno stabilite dagli statuti e dai regolamenti, è ammessa una remunerazione al capitale conferito nell’impresa, in una misura non superiore ad un massimo fissato annualmente per i singoli settori produttivi, dal Comitato dei Ministri per la tutela del risparmio e l’esercizio del credito.

Art. 46. Gli utili dell’impresa, detratte le assegnazioni di cui all’articolo precedente, verranno ripartiti tra i lavoratori, operai, impiegati tecnici, impiegati amministrativi, in rapporto all’entità delle remunerazioni percepite nel corso dell’anno. Tale ripartizione non potrà superare comunque il 30 per cento del complesso delle retribuzioni nette corrisposte ai lavoratori nel corso dell’esercizio.

E, a proposito del salario, voglio dire questo. Lui lo sai perfettamente per calcolo finanziario, noi operai lo sappiamo, in vece, per esperienza delle nostre tasche, che l’intero monte salariale distribuito alla forza lavoro non potrà mai corrispondere con esattezza alla possibilità di acquisto dei beni necessari per garantirsi una esistenza libera dal bisogno... Il prodotto che acquistiamo sul mercato libero è gravato da costi suppletivi a quelli della (mia...) mano d’opera: materie prime, energia, conservazione e distribuzione. Quindi, io non avrò mai le risorse per soddisfare le mie esigenze e dovrò ricorrere a prestiti, fidi, mutui bancari e cessioni del quinto... Questo impoverisce me ma non consente neanche a lui (nello stato delle cose attuali...) di vendere a pieno regime quello che la nostra impresa produce. C’è chi pensò che dovesse essere lo stato a elargire, extra salario, una quota di corrispondente carta moneta per colmare questo evidente disavanzo. Fu il maggiore Clifford Douglas, nella perfida Albione, a teorizzare e tentar di promuovere il “credito sociale” ma - si capirà bene - senza esito alcuno. Lo riprese più volte nelle sue opere quel poeta americano, tal Ezra Pound, autoelettosi italiano e fascista, arrivando perfino a proporlo personalmente al duce... Era un buona idea ma l’idea italica di socializzazione va oltre: con la divisione degli utili noi, quel disavanzo, lo colmiamo con la nostra capacità di rendere l’impresa sempre più efficiente e produttiva, anche in termini di retribuzione... Il regime salariale, così, finisce. Com’era già negli auspici del padre della patria: Giuseppe Mazzini.

In fine, il nostro caro capitalista dovrà farci le ossa (ma se si impegna ce la può fare...): i suoi super profitti (o le “eccedenze”, come scrive il legislatore...), si vanno a far benedire (sic!) in opere di pubbliche esigenze sociali (che del resto giovano a tutti, quindi, di nuovo, anche a lui...). Perché, certo non gli sarà sfuggito (ma, nel dubbio, glielo sottolineo e corsivo...), che il secondo comma del suddetto artico 46, prevede:

Art. 46 (comma secondo) Le eccedenze saranno destinate ad una cassa di compensazione amministrata dall’Istituto di Gestione e Finanziamento e destinate a scopi di natura sociale e produttiva.

E mo’, caro (immagino, a questo punto, mai più camerata...) capitalista, mettece ‘na pezza...

P.S. Ce l’ha messa... ce l’ha messa... la pezza. Finanziando i gruppi partigiani social-comunisti e del partito di (re)azione che, come primo atto legislativo del loro governo, subentrato all’infausto regime, all’oggi del medesimo 25.4.1945, ci aggiustarono per le feste di liberazione (?), abrogando tutto: in perfetta sintonia d’ascolto con le sirene sue (del capitalista...) e della mal emerita volontà alleata, sua buona compagna di merende... E io - io, operaio - mi sono ripreso il mio bel sindacato rappresentativo continuando, ad essere un salariato, puntualmente licenziato o cassintegrato quando il caso ve ne incorra... Sessant’anni di lotte operaie (dal ’45 a oggi...) e di feste del lavoro, e di liberazione (maddaché?...), e di “sacrifici necessari per la ripresa e lo sviluppo”, e di “ristrutturazioni”, e di “concertazioni” mi hanno fatto conquistare, però, il bel traguardo della “flessibilità” (cioè del lavoro precario elevato a sistema permanente effettivo...). E un innalzamento dell’età pensionabile, probabilmente post-mortem... In attesa della quale (morte...), lui (il capitalista dei miei stivali...) non smette di incitarmi con tutto il suo responsabile zelo: “Zitto e lavora (se hai la fortuna di lavorare...), schiavo...”. Con tanti e rinnovati saluti alla giustizia proletaria...

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