giovedì 16 luglio 2009

L’invasione e la caduta del Regno delle Due Sicilie

L’antefatto
Già nel 1820 e poi nel rivoluzionario 1848 era stata la Sicilia a manifestare i primi fermenti, "in questa fase nell’isola scarso era il seguito popolare (esso esisteva solo tra gli intellettuali) per le idee mazziniane e il programma di unificazione dell’Italia; l’unico obiettivo era la liberazione dal dominio napoletano”[152]; si arrivò a proclamare, il 13 aprile 1848, la decadenza di Ferdinando II e ad offrire la corona ad un principe di casa Savoja che declinò l’invito anche perchè il re delle Due Sicilie mandò una nota diplomatica al Piemonte in cui fece intravedere la possibilità di un conflitto in caso di accettazione. All’inizio della prima guerra di indipendenza del 1848, i siciliani "dai forti di Messina spararono contro le navi di Ferdinando II che si dirigevano in Adriatico per operare, congiuntamente con la flotta sarda, contro la marina austriaca. Era la riprova che per la Sicilia, il nemico ereditario era Napoli e non Vienna”[153].

Eppure sotto il governo dei Borboni la Sicilia godeva di eccezionali privilegi: le imposte non erano gravose, non esisteva, come già detto, la coscrizione obbligatoria, la vita e la proprietà erano sicure tanto che la famosa guida turistica del Murray[154] affermava che i Borbone "ebbero almeno il merito di rendere le strade della Sicilia sicure come quelle del Nord Europa"; nel decennio 1850-1860 si costruirono nuove arterie, si ampliarono i porti, si eressero scuole ed ospedali, nondimeno i Siciliani erano scontenti e desideravano il distacco dalla parte continentale del regno.

Ma la forte presenza commerciale e finanziaria inglese aveva generato una diffusa anglofilia la quale andava di pari passo con la convinzione che si potesse realizzare l’indipendenza sotto un protettorato inglese per fare della Sicilia un'altra Malta, protesa tra Europa e Africa; questa soluzione era stata incoraggiata da Londra ma, nella primavera del 1860, Napoleone III dichiarò che se l’Inghilterra, approfittando dell’ennesima rivolta isolana appena scoppiata, avesse occupato anche solo in parte la Sicilia ci sarebbe stata la guerra e la Francia si sarebbe annessa il Belgio.

Con la successiva invasione garibaldina e piemontese dell’isola: "la Sicilia, impegnata come tràvasi in una guerra contro Napoli e non potendo sperare d’altri che dagli Italiani e dal sentimento italiano, deve seguire e se si vuole anche subire, senza condizioni, almeno per adesso, questo sentimento e neppur mostrare semplici velleità separatiste”[155]. Nel luglio 1860, quando gli avvenimenti erano nel vivo, il siciliano Francesco Ferrara così scriveva a Cavour "in Sicilia la rivoluzione operatasi e il partito da prendere hanno un solo movente: il desiderio irresistibile di emanciparsi da Napoli. Le grida che si innalzano, i principii che s’invocano, sono semplici frasi a cui si ricorre per politica necessità, e che possono da un’ora all’altra mutare col mutarsi delle circostanze: la nazionalità, l’unità, sono propriamente mezzi e non fine….il Piemonte non ha soltanto l’interesse di secondare alla cieca l’attuale voga di annessione, ma gli deve molto più importare di operarla in modo che essa dallo stato di semplice necessità passi a quello di volontà, e che la Sicilia non divenga la piaga del regno italiano com’è stata quella del regno borbonico”[156]

Dopo l’annessione al regno d’Italia i siciliani stettero molto peggio che sotto quello delle Due Sicilie: Cavour non concedette nessuna forma di autogoverno, impose nuove e più gravose tasse come pure la coscrizione obbligatoria; i nuovi funzionari piemontesi, che si succedettero ad un ritmo serrato fallendo tutti nei loro compiti, erano completamente insensibili nei confronti della Sicilia della quale ignoravano usi e costumi, per non parlare della lingua. L’ordine pubblico non venne più garantito tanto che solo a Palermo si contarono millecinquecento assassinii nei primi due anni dall’unità; i latifondisti che avevano così tenacemente appoggiato i piemontesi continuarono a perpetrare i loro soprusi, bande di malfattori si scontravano quotidianamente in tutta la regione, iniziava l’era della mafia e bisognerà aspettare il 1937 per avere la prima legge di colonizzazione del latifondo siciliano. Ricordiamo, infine, la brutale repressione che nel 1866 insanguinò Palermo: c’era stata una rivolta contro i nuovi padroni piemontesi e nell’occasione la seconda capitale delle ex Due Sicilie fu bombardata dal mare e devastata dalle truppe di Raffaele Cadorna, in un sol giorno si ebbero 2000 morti e 3600 prigionieri.

L’azione
I rivoluzionari unitari soffiavano sul fuoco del malcontento siciliano; il 27 novembre 1859 il capo della polizia siciliana, Salvatore Maniscalco, fu pugnalato sugli scalini della cattedrale di Palermo mentre stava entrando in chiesa con moglie e figli per assistere alla messa, rimase gravemente ferito (il sicario fu ricompensato, mesi dopo, da Garibaldi con una pensione).

Il 2 marzo 1860 Mazzini incitava alla ribellione i siciliani, mettendo da parte le sue convinzioni repubblicane che venivano sacrificate all’ideale unitario sotto lo scettro della monarchia sabauda.

Il 25 marzo l’ambasciatore inglese a Torino, Sir James Hudson, scriveva al suo ministro degli Esteri Lord Russell "… dobbiamo desiderare ardentemente lo scontro tra l’Italia del Nord e quella del Sud. Il risultato non può essere dubbio. Il Papa e il Re di Napoli saranno battuti, la Sicilia si dichiarerà per i suoi diritti costituzionali e per l’annessione. Napoli sarà alla mercè di tutti…Cavour per le molte necessità della sua posizione è ora più che mai gettato nelle vostre mani se la vostra politica nell’Italia meridionale è vigorosa ed armata….Per parte mia io sono per la costruzione di un’Italia forte e per il raddoppiamento della nostra forza navale nel Mediterraneo: quando tratteremo con Luigi Napoleone sulla Questione Orientale dovremo volere l’Italia per noi”[157] .

"Rosalino Pilo, di nobile famiglia palermitana esule a Genova, ai primi di marzo del 1860 si rivolse a Garibaldi per avere aiuti onde suscitare un moto rivoluzionario a Palermo, e domandò armi da portare in Sicilia. ….Alla Sicilia e Napoli Garibaldi pensava già quando nel settembre 1859 lanciava il grido "un milione di fucili, un milione di uomini” e voleva che questi fucili e questi uomini si raccogliessero "sotto il vessillo unificatore del Re Vittorio Emanuele…..il 15 marzo rispose al Pilo con questa lettera:”…..Io non ripugno da qualunque impresa per azzardata che sia, ove si tratti di combattere i nemici del nostro paese…però nel momento presente non credo opportuno moto rivoluzionario in nessuna parte d’Italia, a meno che non fosse con non poca probabilità di successo”. Rosalino Pilo rispose "…Io penso di partire per la mia isola natia, per assicurarmi io stesso delle cose, prepararvi tutto ciò che ancora manca al fine di venire all’azione[158]

"Il 25 marzo…………..Giovanni Corrao e Rosalino Pilo, su suggerimento di Giuseppe La Masa, capo indiscusso dei siciliani rivoltosi, si recarono in Sicilia con la paranza "Madonna del soccorso” per ottenere il sostegno dei baroni alla prossima spedizione dei Mille; sbarcati nei pressi di Messina contattarono gli esponenti delle famiglie più importanti”[159]; con essi fu concordato che appena sbarcato Garibaldi, i "picciotti”, appartenenti alla malavita locale e alle bande al soldo dei latifondisti, accorressero "spontaneamente” in suo aiuto.

Il 4 aprile 1860 il comitato rivoluzionario di Palermo, coordinato da Genova da Francesco Crispi, accese la miccia della rivolta, nel convento della Gancia, la quale aveva due principali riferimenti: il barone Riso che capitanava l’anima aristocratica, formata da uomini molto simili al Tancredi del romanzo il "Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa[160], e un suo omonimo, Francesco Riso, di mestiere idraulico, che guidava i popolani; la reazione borbonica, guidata dal capo della polizia Salvatore Maniscalco fu pronta, il 14 aprile tredici rivoluzionari furono fucilati a Palermo ma le sommosse continuarono nelle campagne di tutta la Sicilia fino alla fine del mese quando cessarono; il Re diede disposizioni affinché nessun altra condanna a morte fosse eseguita senza il suo esplicito consenso. Il 7 aprile un’assemblea degli esiliati napoletani a Torino aveva approvato una deliberazione in cui tutti, salvo quattro, auspicavano l’unione delle Due Sicilie al Piemonte[161].

Il 18 aprile, Cavour, nelle sue vesti di ministro della Marina invia due navi da guerra, Governolo e Authion, in Sicilia, ufficialmente per proteggere i sudditi piemontesi presenti nell’isola ma in realtà ”per giudicare con perfetta conoscenza di causa delle forze che si trovano nell’isola così dalla parte degli insorti come da quella delle truppe reali”[162], poco dopo lo stesso primo ministro chiede all’ambasciatore piemontese a Napoli, anche a nome del ministro della Guerra Fanti, l’invio di carte topografiche del regno delle Due Sicilie che giungono nel regno sabaudo con la nave Lombardo, utilizzata nove giorni dopo da Garibaldi per la spedizione dei Mille.

"Il giorno 28 aprile a Garibaldi, che viveva a Quarto…arrivò un telegramma che tradotto….diceva che la rivoluzione in Sicilia era fallita. La disperazione dei volontari intimi di Garibaldi fu enorme e Garibaldi decise di non partire più. Ma il 29 aprile giunse un nuovo telegramma, che poi si disse inventato da Crispi, e in tale messaggio si diceva [falsamente]che l’insurrezione vinta a Palermo, seguitava nelle province. E i Mille partirono.”[163]

A fine aprile lo stesso Cavour si reca a Genova, dove rimane due giorni per controllare i preparativi dei garibaldini, il 3 maggio fu stipulato un accordo, a Modena, tra Vittorio Emanuele II, Cavour e l’armatore Rubattino (presenti l’avvocato Ferdinando Riccardi e il generale Negri di Saint Front, appartenenti ai servizi segreti piemontesi che avevano avuto l’incarico dall’Ufficio dell’Alta Sorveglianza politica e del Servizio Informazioni del presidente del Consiglio); esso venne regolarmente formalizzato con rogito del notaio Gioacchino Vincenzo Baldioli in data 4 maggio 1860; con esso si stabiliva la vendita temporanea di due navi al regno di Sardegna e si precisava che il beneficiario era Giuseppe Garibaldi, rappresentato nello studio del professionista, sito in via Po a Torino, dal suo uomo di fiducia: Giacomo Medici; garanti del debito il re sabaudo e il suo primo ministro.[164]

Partiti da Quarto il 6 maggio, i vapori Lombardo e Piemonte (che quindi non erano stati rubati dai garibaldini, come recita la storiografia ufficiale) giungevano la mattina dell’11 presso le isole Egadi, a bordo i famosi Mille: "Tutti generalmente di origine pessima e per lo più ladra; e tranne poche eccezioni, con radici genealogiche nel letamaio della violenza e del delitto" come affermò lo stesso Garibaldi il 5 dicembre 1861 in un discorso nel Parlamento di Torino. La ricerca storica non può più permettersi di accreditare la versione romantica di questa "impresa”: i "Mille” non erano un gruppo di goliardi ed improvvisati rivoluzionari ma, per la gran parte, veterani delle campagne del 1848-49 e del 1859, folta la rappresentanza straniera di inglesi, ungheresi, polacchi, turchi e tedeschi; inoltre furono indispensabili: l’appoggio del Piemonte, degli ufficiali borbonici "convertiti” alla causa, dei latifondisti siciliani e quello inglese; del resto questo è ovvio in quanto tutti comprendono che nulla avrebbero potuto 1000 uomini contro i 25 mila soldati perfettamente equipaggiati dell’esercito meridionale stanziati in Sicilia, senza considerare gli altri 75 mila presenti nel Sud continentale.

Lo stesso Garibaldi, che nessuno accredita di una intelligenza superiore, si rese conto del problema ed esitò a lungo nell’accettare il comando della spedizione perchè temeva di far la fine dei fratelli Bandiera e di Carlo Pisacane che avevano tentato in passato (rispettivamente nel 1844 e nel 1857) delle sortite simili fallite miseramente e pagate col loro sangue; a fine aprile stava per rientrare a Caprera e si convinse, quando Cavour stava per affidarla al generale Ribotti (che rifiutò) perché "i capi militari della spedizione, Garibaldi, Bixio, Cosenz , Medici, sapevano di poter soprattutto contare sul supporto logistico del governo sardo, una volta effettuato il primo sbarco" [165].

"Due milioni di franchi oro erano stati raccolti dal Cavour per le occorrenze della spedizione dei Mille … e altri tre milioni dalle logge massoniche inglesi, americane e canadesi, trasformati da governo sabaudo in un milione di piastre oro turche perchè quella era la moneta più accettata nei porti mediterranei”.[166] [valore stimabile intorno ai 50 miliardi di lire dei giorni nostri, cioè 25 milioni di euro]; l’appoggio economico piemontese fu addirittura computato nel bilancio del neostato italiano tanto che quando nel 1864 il ministro delle Finanze Quintino Sella lasciò il dicastero a Marco Minghetti, nel passargli le consegne "preparò uno specchietto riassuntivo dei debiti…fra le voci: 7.905.607 lire attribuite a "spese per la spedizione di Garibaldi” [circa 60 miliardi di lire, 30 milioni di euro] ".[167]

Tre pirofregate sarde erano già state inviate in Sardegna il 3 maggio al comando di Carlo Pellion conte di Persano il quale annotava sul suo diario[168] il giorno 9 "Volgo per la Maddalena….devo arrestare i volontari, partiti da Genova per la Sicilia….ove tocchino a qualche porto della Sardegna…ma devo lasciarli procedere nel loro cammino, incrociandoli per mare…mi fermo a Tortoli tanto quanto basta ad impostarvi una lettera riservata a S.E. il conte di Cavour, dettatami dall’ambiguità dell’ordine ricevuto. Gli dico che la spedizione, che ho il mandato di arrestare, non avendo potuto effettuarsi all’insaputa del governo…..io chiedeva di telegrafarmi "Cagliari”, quando realmente si volesse l’arresto, e "Malta”, nel caso contrario” e aggiungeva il giorno 11 :"S.E. il conte di Cavour mi telegrafa:” Il Ministero ha deciso per "Cagliari”. Questo specificarmi che la decisione era stata presa dal Ministero, mi fa comprendere che egli, Cavour, opinava diversamente…e risolvo di lasciar procedere l’ardito condottiero al suo destino” e poi il giorno 16 "Ricevo lettera autografa di S.E. il conte di Cavour, in data 14 corrente….e m’invita a trasmettergli, in via privata e confidenziale, il mio parere sul da farsi in caso di una dichiarazione di guerra da parte del re di Napoli”. Contemporaneamente il vicecomandante della Mediterranean Fleet inglese, contrammiraglio Mundy, aveva ricevuto ordini di pattugliare il Tirreno, il canale di Sicilia e soprattutto di fare frequenti scali nei porti delle Due Sicilie a scopo intimidatorio.

L’arrivo dei Mille era noto al governo meridionale, grazie ad una comunicazione del console meridionale di Genova, si sapeva anche che sarebbero sbarcati nella parte occidentale dell’isola, per cui in quelle acque erano state allertate alcune navi da guerra: la pirocorvetta Stromboli con 6 cannoni, comandata da Guglielmo Acton, futuro ammiraglio, senatore e Ministro della nuova Marina Italiana; il brigantino Valoroso con 12 cannoni, comandata da Carlo Longo; la fregata a vela Partenope con 60 cannoni, con al comando Francesco Cossovich ed il vapore armato Capri con due cannoni, al comando di Marino Caracciolo [che successivamente si mise agli ordini dell’ammiraglio piemontese Persano e inalberando la bandiera sabauda, dopo l’arrivo di Garibaldi a Napoli, andò ad intimare la resa al comandante del forte di Baia ricevendone come risposta "A chiunque altro sì, a voi no”]; queste navi non avevano truppe da sbarco perchè l’ordine era di intercettare i nemici in mare e ”colarli a fondo salvando le apparenze”[169]. I due vapori piemontesi, per eluderne la sorveglianza, non seguirono la rotta normale ma si spinsero fino quasi fin alla Tunisia, poi tornarono indietro e stavano per puntare sulla costa meridionale della Sicilia, a Sciacca, quando la mattina del giorno 11 incrociarono un veliero inglese da cui giunse ai Mille l’informazione che a Marsala non c’erano navi nemiche; a quel puntò la rotta fu posta verso quel porto nei pressi del quale un pescatore, di nome Antonio Strazzera, avvicinato in mare, li informò che le navi meridionali di pattuglia avevano lasciato la città siciliana, che la città era sprovvista di guarnigione armata, dato che il 10 maggio era stata insensatamente richiamata a Palermo dopo aver sedato un’insurrezione, e che i due pennoni che si vedevano a distanza appartenevano a due cannoniere inglesi: l'Argus e l'Intrepid.

Queste ultime erano partite da Messina pochi giorni prima, avevano fatto scalo a Palermo il 9 maggio e in quell’occasione, a bordo dell’Argus, c’era stata una piccola festa per celebrare l’arrivo oramai imminente di Garibaldi che era di dominio pubblico; il giorno dopo (10 maggio) ricevettero l’ordine di salpare per Marsala, ufficialmente per "proteggere le proprietà dei sudditi inglesi", i ricchissimi commercianti del vino marsala: Woodhouse, Ingham, Whitaker, padroni di una fortuna immensa. Essi erano stati obbligati a consegnare le loro armi personali al generale borbonico Letizia, il quale aveva represso un focolaio di rivolta marsalese, iniziato nell’aprile e definitivamente domato il 6 maggio; i commercianti britannici comunicarono, così, di sentirsi indifesi contro "le numerose bande di briganti di zona”; alcuni storici, alla luce del successivo appoggio inglese all’azione garibaldina, non credono a questa versione ufficiale dei fatti e si chiedono come mai le navi britanniche arrivassero proprio in quei giorni, a rivolta spenta, e non all’inizio di aprile quando era iniziata l’insurrezione di Marsala, altri, viceversa, la ritengono plausibile; comunque sia, le navi inglesi giunsero alle ore dieci del giorno 11 maggio, proprio la data dello sbarco dei Mille [170].

"Era una bellissima giornata, il sole splendeva e il mare era liscio come l’olio…due vapori a ruota [il Piemonte e il Lombardo], che erano stati visti incrociare al largo durante gran parte della mattinata, alle tredici mossero rapidamente verso la spiaggia e, giunti nei pressi di questa, inalberarono i colori sardi”[171]; lo sbarco delle "camicie rosse” ebbe inizio con l’ordine di non indugiare nel porto ma di entrare subito nella città. Il telegrafista di Marsala prontamente mandò al comandante supremo dell’isola, principe di Castelcicala, un messaggio:”Due battelli a vapore con bandiera sarda sono entrati nel porto e stanno sbarcando gente armata”, dopo dieci minuti dalla ricezione la notizia era già trasmessa a Napoli; da Palermo si chiesero a Marsala notizie sulla consistenza numerica dell’invasore, la risposta fu "Mi ero ingannato. Si tratta di mercantili nostri che vengono a caricare zolfo”; "Imbecille” fu la risposta da Palermo, ma subito dopo si cominciò a dubitare del contenuto di questa smentita e si era nel giusto perchè il messaggio era stato inviato dal garibaldino Pentasuglia, che aveva puntato la pistola contro il telegrafista meridionale.

Nel frattempo lo sbarco era già compiuto dal Piemonte e in parte anche dal Lombardo quando arrivarono le navi meridionali che avevano ricevuto notizia dello sbarco dai semafori di Favignana; per prima, verso le quattordici, arrivò la pirocorvetta Stromboli, poi la Capri e la Partenope. Le due navi inglesi si frapposero a quelle garibaldine e il comandante dell’Argus disse a quello dello Stromboli che lo avrebbe ritenuto personalmente responsabile se qualche colpo di cannone avesse danneggiato le proprietà britanniche di Marsala; per questi motivi il fuoco fu aperto solo quando le navi inglesi si fecero da parte (passarono circa trenta minuti) e peraltro fu anche inefficace perchè i colpi non raggiunsero il molo; ci furono solo due feriti, il vapore "Piemonte” fu preso e rimorchiato a Napoli come preda di guerra, il "Lombardo”, che si era arenato, fu cannoneggiato, misero risultato per le tre navi da guerra meridionali.

Lo stesso Garibaldi ammise nelle sue memorie che "la presenza dei due legni da guerra inglesi influì alquanto sulla determinazione dei comandanti dè legni nemici, naturalmente impazienti di fulminarci, e ciò diede tempo ad ultimare lo sbarco nostro…e io, beniamino di codesti Signori degli Oceani, fui per la centesima volta il loro protetto”[172] e "Quasi tutti a Palermo erano convinti che l’Argus si fosse recata a Marsala con il preciso scopo di aiutare Garibaldi, quando Winnington-Ingram [il comandante inglese dell’Argus] e i suoi si mostrarono per le strade, furono accolti da grida "Viva Arguse”[173].

I garibaldini, contrariamente a quanto si narra nelle agiografie risorgimentali, furono accolti dalla popolazione con tale diffidenza che il garibaldino Giuseppe Bandi ebbe, poi, a scrivere in una sua cronistoria: "Fummo accolti dai marsalesi come cani in chiesa"[174]; per questi motivi si rifugiarono nelle proprietà del ricchissimo commerciante di vino marsala Benjamin Ingham. La notizia dello sbarco suscitò, invece, un vivo entusiasmo in Piemonte e a Londra, si aprirono subito sottoscrizioni pubbliche in favore dei garibaldini: nelle liste del Morning Post la prima ad aderire fu la viscontessa Palmerston e si costituirono in tutte le città comitati pro Italia, frotte di volontari corsero ad arruolarsi. Il giorno successivo il governo borbonico, per voce del ministro degli Esteri Carafa, protestò contro quell’atto di pirateria sostenuto dal Piemonte ma Cavour dichiarò che il governo era estraneo alle gesta dei "filibustieri garibaldini”.

Francesco II strigliò il suo Luogotenente in Sicilia: ”Se la crociera fosse stata bene eseguita, non sarebbe certo accaduto lo scandaloso avvenimento che, a ciel sereno, in pieno pomeriggio, con mare tranquillo e con una lunga giornata, ha avuto luogo…dico essere urgente affrontare distruggere quest’orda discesa, e ciò subito…se da questo scontro si otterranno felici risultamenti…la rivoluzione siciliana sarà sedata, e più non se ne parlerà. Se per contrario, le conseguenze saranno le più tristi e più lacrimevoli”[175], parole lucidissime, queste del Re. Commentava Massimo d’Azeglio:”Quel che non capirò mai (salvo aiuto inglese, o tradimento dei comandanti napoletani) è come il Re, con ventiquattro fregate a vapore, non abbia potuto guardare tre quattrocento miglia di costa. Una fregata ogni venticinque miglia, faceva dalle dodici alle sedici fregate, e mai più bella occasione di servir bene” [176]

In appoggio a Garibaldi si cominciarono a muovere, per primi, come era già stato concordato, i baroni latifondisti, già ribattezzatisi "liberali ed unitari", i quali avevano come interesse primario quello di abbattere i Borbone e di spostare il centro del potere in una capitale lontanissima come Torino, in questo modo avrebbero accresciuto la loro influenza sul territorio conservando i loro latifondi senza la fastidiosa intrusione dei vari intendenti mandati da Napoli che cercavano di opporsi alle usurpazioni dei beni demaniali per restituirli agli usi civici dei contadini. Questo atteggiamento "liberale e unitario” fu successivamente adottato anche dai proprietari terrieri della parte continentale del Regno delle Due Sicilie, il loro appoggio fu ricompensato dal nuovo governo "italiano” con la vendita sottocosto dei beni demaniali ed ecclesiastici, fu un grosso affare per loro e l’ennesimo raggiro per la classe dei contadini; i baroni, d’accordo con quanto deciso in aprile con gli emissari di Garibaldi, avevano reclutatato numerosi «picciotti» che furono inquadrati agli ordini di "Calibbardo"[177].

"La Masa nei suoi scritti sostenne di aver arruolato "da solo” oltre 6 mila uomini, per la sola prima fase dell’operazione dei Mille, attraverso i contatti presi nell’aprile. Fu lo stesso La Masa ad ammettere…che noti "galantuomini” come i capibanda Scordato e Miceli (prima e dopo i Mille conosciuti da tutti per la loro ferocia) furono determinanti per il successo dei Mille in Sicilia, e –com’è ovvio- i capibanda non si muovevano senza l’impulso dei Baroni”[178].

I primi scontri
A fronteggiare il Nizzardo c’era un’armata forte, nella sola Sicilia, di ben 25mila uomini più altri 75 mila stanziati nella parte continentale del regno meridionale, essa fu descritta dal giornale satirico "Charivari”, in una vignetta intitolata "Voilà l’armèe du roi de Naples in Sicile!”, in questo modo: soldati con la testa di leone, ufficiali con la testa d’asino e generali senza testa; i fatti dettero subito ragione a questa caricatura.

Il 12 maggio, alle quattro del mattino, i Mille iniziarono la marcia verso l'interno dell’isola e il giorno dopo Garibaldi fu informato che i borbonici si stavano muovendo da Palermo contro di lui; il giorno 14, Garibaldi, dal paese di Salemi, dichiarò decaduta la dinastia borbonica, si autoproclamò dittatore della Sicilia, in nome re Vittorio Emanuele di Savoia; istituì una leva tra i siciliani che fallì completamente in quanto per essi valeva il detto”megghiu porcu ca surdatu” (dei 250mila previsti non si arrivò in tutta la campagna siciliana a 10mila). Si era, però, già aggregato al Nizzardo un corpo di 1200 "picciotti” reclutati dai baroni e messi al comando di La Masa e Acerbi[179], persone descritte nelle memorie del garibaldino Giuseppe Cesare Abba, in data 14 maggio, come "montanari armati fino ai denti, con certe facce sgherre e certi occhi che paiono bocche di pistole; tutta queste gente è condotta da gentiluomini, ai quali obbedisce devota [180]; Abba è l’autore del più pregevole diario tra quelli redatti dai partecipanti alla spedizione dei Mille.

Il corpo di spedizione garibaldino lasciò Salemi diretto verso Palermo; nel campo opposto il sessantanovenne Luogotenente della Sicilia Paolo Ruffo di Castelcicala aveva, il giorno 11, quello dello sbarco, informato Napoli dell’accaduto e chiesto altre truppe, infine aveva ordinato al settantaduenne generale Francesco Landi di muoversi da Palermo per affrontare Garibaldi; l’anziano ufficiale borbonico seguiva le sue truppe rimanendo sempre in carrozza e giunse ad Alcamo il 12, poi il giorno 13 a Calatafimi, cittadina posta in posizione dominante, a quel punto decise di non avanzare oltre, attendendo l’avanzata del nemico. Le truppe di rinforzo, richieste dal governatore Castelcicala, partirono da Gaeta la notte del giorno 12 e arrivarono a Palermo solo il giorno 14, rimanendo pertanto inutilizzate; il Luogotenente, non vedendole arrivare, ordinò, il giorno 13, al tenente colonnello Sforza, medaglia d’oro al valor militare per la campagna di Sicilia del 1848-49, che era in quel momento di guarnigione a Trapani, di raggiungere con i suoi uomini il generale Landi a Calatafimi, quest’ultimo si trovò così al comando di circa 3000 uomini divisi in tre battaglioni. Egli mandò in ricognizione, in tre direzioni diverse, tre colonne di soldati (in tutto circa 1500) una delle quali, di appena 600 uomini, agli ordini dello Sforza, avvistò il nemico verso mezzogiorno del 15 maggio e decise immediatamente di attaccare da sola i Mille garibaldini, il terreno era in pendio con alcune terrazze, i meridionali erano sulla sommità e i garibaldini in basso. I soldati meridionali avanzarono "Che sicurezza nei loro movimenti! Fra poco……Ma le loro trombe, che suoni lugubri!” [181] e cominciarono a sparare facendo le prime vittime, dall’altro campo si rispose al fuoco e poi si iniziò un assalto alla baionetta che impressionò l’avversario il quale, però, non perse la testa e arretrò ordinatamente, con poche perdite, mettendosi al riparo sul gradone più basso del luogo dello scontro. I garibaldini tentarono due assalti ma furono respinti "Là vidi Garibaldi a piedi, con la spada sguainata sulla spalla destra, andare innanzi lento e tenendo d’occhio tutta l’azione. Cadevano intorno a lui i nostri…..Bixio corse di galoppo, a fargli riparo col suo cavallo, e tirandoselo dietro alla groppa gli gridava:”Generale, così volete morire?”…..credei d’indovinare che al Generale paresse impossibile il vincere e cercasse di morire”[182] .

Nel frattempo erano giunte le altre colonne dei soldati meridionali e si tentarono alcuni contrattacchi che, anch’essi, fallirono; le camicie rosse tentarono un nuovo assalto e conquistarono il primo gradone per cui i meridionali arretrarono sul secondo da dove respinsero un primo attacco guidato dallo stesso Garibaldi, ma non il successivo che li fece indietreggiare sulla terza terrazza, quella in cima al pendio. Ci fu una pausa nei combattimenti "Riposate, figliuoli, riposate ancora un poco” diceva il Generale "Ancora uno sforzo e sarà finita”; alle 3 del pomeriggio il Nizzardo sferrò l’ultimo attacco ma il combattimento si stava risolvendo a favore dei meridionali: Schiaffino, il portabandiera dei garibaldini perse la vita e l’insegna, Menotti, il figlio del Nizzardo fu ferito, lo stesso Garibaldi scampò alla morte per l’eroismo del volontario Augusto Elia che fece scudo col proprio corpo ed ebbe la mascella fracassata. I garibaldini erano esausti ma, a quel punto, il generale Landi, che osservava il combattimento dal paese, invece di lanciare gli altri 1500 uomini che erano rimasti inoperosi e che gli chiedevano insistentemente di essere comandati al combattimento, prese la bandiera sottratta a Garibaldi, recatagli dai soldati meridionali che se n’erano impossessati e cominciò a gridare "Vittoria, vittoria!”, diede quindi il segnale della ritirata senza neanche avvertire lo Sforza, lasciandolo solo e senza munizioni. Uno dei Mille, Francesco Grandi, scrisse nel suo diario ”[i garibaldini] si meravigliarono, non credendo ai loro occhi e orecchie, quando si accorsero che il segnale di abbandonare la contesa non era lanciato dalla loro tromba ma da quella borbonica”[183], un'altra camicia rossa, Giuseppe Cesare Abba, aggiungeva: "Quando questi cominciarono a ritirarsi protetti dai loro cacciatori, rividi il Generale che li guardava e gioiva ……dal campo stemmo a vedere la lunga colonna salire a Calatafimi .……ci pareva miracolo aver vinto”[184]. "L’esercito napoletano [scrisse Garibaldi [185]] combatté valorosamente e non cedette la sua posizione che dopo accanite mischie corpo a corpo ...i soldati napoletani avendo esausti i loro cartucci, vibravan sassi contro di noi da disperati”; alla fine sul campo rimanevano 32 morti e 182 feriti tra i garibaldini e 36 morti (quasi tutti erano stati colpiti nel capo e non alle spalle a testimonianza del loro ardimento)[186] e 150 feriti tra i borbonici, un bilancio non drammatico, ma fu il modo in cui si concluse la partita che sfiduciò le truppe che cominciarono a dubitare fortemente sull’abilità e sulla fedeltà del loro comandante. Questo fu il motivo dominante di tutta la campagna di invasione delle Due Sicilie, nella quale, come vedremo, i soldati si batterono sempre valorosamente mentre i loro capi si dimostrarono degli inetti e, spesso, addirittura collusi coi piemontesi.

Il generale Landi, alle otto di sera lasciò Calatafimi ritornando verso Palermo, dove giunse all’alba del giorno 17, con le truppe sfiduciate ed affamate; a Partitico fu anche assalito da bande di picciotti i quali non avevano dato un grosso contributo alla battaglia di Calatafimi ma erano più adatti a fare terra bruciata ai borbonici tagliando fili del telegrafo e devastando il territorio. Gli storici si sono divisi nel giudizio sull’operato del comandante borbonico: alcuni, come Giacinto dè Sivo, affermano che nel marzo 1861 egli produsse al Banco di Napoli una fede di credito, a suo favore, di quattordicimila ducati [224mila €, 430milioni di vecchie lire][187] e che quando questa si rivelò contraffatta (valeva solo 14 ducati), il militare confessò di "averla avuta personalmente da Garibaldi”[188], dal dispiacere ne morì di colpo apoplettico; altri affermano che era solo un incapace, desideroso solo di ritornare al più presto a Palermo; i suoi 5 figli, comunque, fecero tutti carriera nell’ "esercito italiano”.

Vera o no questa circostanza è certo, però, che Cavour aveva provveduto a profondere a piene mani denaro per comprare i membri dei vertici militari delle Due Sicilie in modo da neutralizzare ogni capacità di reazione, il tramite di questa operazione fu il contrammiraglio sardo Carlo Pellion di Persano che "disponeva di un fondo spese ammontante all’enorme somma di un milione di ducati, [16 milioni di €, 31 miliardi di vecchie lire] destinati alla corruzione degli ufficiali borbonici” [189].

Cavour dichiara ufficialmente il 17 maggio 1860, con la sua proverbiale doppiezza, che "il governo disapprova la spedizione del generale Garibaldi. Non appena fu informato della partenza dei volontari, la flotta reale ha ricevuto l’ordine di inseguire i due battelli a vapore e di opporsi a uno sbarco"; con la nota del 22 maggio al ministro delle Due Sicilie a Torino, cav. Canòfari, affermava inoltre che:"Il sottoscritto per ordine di Sua Maestà, non esita a dichiarare che il governo del Re è completamente estraneo a ogni atto del generale Garibaldi, che il titolo da lui assunto [la dittatura] è una vera usurpazione, e che il governo del Re non può non disapprovarlo "[190].

Gli uomini agli ordini di Garibaldi erano diventati, nel frattempo, circa 3500 grazie ai contributi di: 350 uomini del Barone di Sant’Anna, dei 250 del fratello Giovanni, dei 750 del cavaliere Coppola di Erice, dei 600 di Calogero Amari Cusi di Castelvetrano, tutti questi "picciotti” si erano messi agli ordini di Giovanni Corrao e Giuseppe La Masa, in seguito promossi generali da Garibaldi. I garibaldini, da Calatafimi, si mossero in direzione di Palermo e, strada facendo, trovarono i miseri resti di alcuni soldati borbonici della colonna in ritirata del generale Landi, erano stati assaliti dai picciotti ed orrendamente mutilati.

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