giovedì 16 luglio 2009

Gli editti di Garibaldi e la caduta di Palermo


Il secondo partito che appoggiò Garibaldi, per motivi diametralmente opposti a quelli dei baroni, era quello dei contadini i quali guardavano con fiducia e speranza il Nizzardo il quale "fece intravedere la possibilità di un ordine nuovo in cui i contadini avrebbero avuto la terra e sarebbero stati riconosciuti i diritti di libertà: tutti o quasi furono con lui ”[191]. Col decreto del 17 maggio erano stati aboliti i dazi per il granone, i cereali, le patate ed i legumi, soppressa la tassa sul macinato; il 2 giugno 1860, da Palermo:

GIUSEPPE GARIBALDI, Comandante in Capo le forze nazionali in Sicilia DECRETA:

art. 1 - Sopra le terre dei demani comunali da dividersi, giusta la legge, fra i cittadini del proprio comune, avrà una quota certa senza sorteggio chiunque si sarà battuto per la patria. In caso di morte del milite, questo diritto apparterrà al suo erede.

art. 2 - La quota di cui è parola all'articolo precedente sarà uguale a quella che sarà stabilita per tutti i capi di famiglia poveri non possidenti e le cui quote saranno sorteggiate. Tuttavia se le terre di un comune siano tanto estese da sorpassare il bisogno della popolazione, i militi o i loro eredi otterranno una quota doppia a quella degli altri condividenti.

art. 3 Qualora i comuni non abbiano demanio proprio vi sarà supplito con le terre appartenenti al demanio dello Stato o della Corona.

È da notare con attenzione che si parla di terre "demaniali ", non di quelle di proprietà dei baroni; inoltre il decreto rimase, subito dopo, inosservato e cancellato.



A Napoli, già il 14 maggio, il giorno precedente alla battaglia di Calatafimi, si era riunito, alla presenza del Re, il Consiglio di Stato a cui fu invitato l’ex primo ministro Carlo Filangieri il quale fu pregato da tutti di prendere in mano la situazione della Sicilia, come aveva fatto dodici anni prima. Egli, dopo qualche esitazione, e pregato anche dalla regina Sofia, accettò ponendo alcune condizioni: al comando delle truppe siciliane doveva esserci di persona il Re, lui avrebbe assunto l’incarico di Capo di Stato Maggiore, bisognava inoltre proclamare subito la Costituzione. I ministri si opposero alla partenza del Re perchè temevano (o dicevano strumentalmente di temere, perchè già tramavano contro di lui, essendo collusi con i piemontesi) lo scoppio di una rivolta nella Capitale e Francesco II approvò questa deliberazione, malgrado le continue insistenze di Maria Sofia che lo incitava a montare a cavallo e farsi vedere dai fedelissimi soldati che senza dubbio sarebbero stati galvanizzati dalla presenza dell’amatissimo sovrano; fu l’errore fatale che decise il destino del regno delle Due Sicilie.

Il comandante della polizia siciliana, il temutissimo e risoluto Salvatore Maniscalco, mandava il giorno 15 maggio un memorandum a Napoli, accusando il luogotenente del re in Sicilia, Paolo Ruffo di Castelcicala, di "inanizione”; quest’ultimo fu rimosso e re Francesco propose il comando ai due migliori generali dell’esercito meridionale: Francesco Pinto y Mendoza, principe di Ischitella, e Alessandro Nunziante entrambi uomini di grande valore (il primo era stato addirittura aiutante di campo di Murat) ma, inaspettatamente, entrambi ricusarono con conseguente grosso avvilimento del sovrano. A quel punto, pare su nefasto consiglio di Filangieri, fu scelto l’inetto generale Ferdinando Lanza, di settantatré anni, completamente inadatto a fronteggiare la situazione, al quale fu conferito il titolo di "Commissario straordinario in Sicilia con i poteri di alter ego”, con la potestà, quindi, di prendere da solo le decisioni che le circostanze richiedevano.

Giunto in Sicilia il 17 maggio, ebbe subito la notizia della sconfitta di Calatafimi e mandò immediatamente un primo rapporto a Napoli nel quale descriveva la situazione della seconda capitale del regno in termini molto foschi, con una popolazione pronta all’insurrezione; paralizzato dalla situazione ambientale, entrò subito in conflitto con il comandante della piazza e gli altri generali alle sue dipendenze a causa della sua mancanza di iniziativa.

Nel frattempo, l’ammiraglio inglese Mundy, vicecapo della Mediterranean Fleet, era giunto il 19 maggio a Palermo al comando del vascello ad elica Hannibal di 90 cannoni e ricevette a bordo, il giorno 22, la visita del Lanza il quale gli fece delle proposte su una mediazione inglese per un armistizio con Garibaldi e per il ripristino della Costituzione del 1812 che a suo dire avrebbe placato la rivolta siciliana; questo atteggiamento "forniva ampia prova della sua ineguatezza per il posto che occupava in una crisi del genere. Un pugno di avventurieri [i garibaldini] era alle porte della capitale, e un esercito ben equipaggiato di 25mila uomini era pronto a dar loro addosso”[192] . Lanza pensava all’armistizio prima ancora di combattere malgrado lui stesso, in un rapporto ufficiale del 23 maggio sullo stato della guarnigione di Palermo, dichiarasse di avere ai suoi comandi "571 ufficiali, 20.291 soldati, 681 cavalli, 175 muli e 36 cannoni; forze molto più cospicue di quelle che nel ’49 erano riuscite a riconquistare la certamente più fortificata ed indipendente Sicilia”[193]

Nei pressi di Palermo ci fu qualche scaramuccia con alcune compagnie borboniche nelle quali i garibaldini ebbero quasi sempre la peggio: morì il giovane Rosolino Pilo, lo stesso Garibaldi, il 25 maggio, sfuggì per un pelo all’accerchiamento rifugiandosi su un’altura che lasciò nottetempo per scampare alla cattura. A quel punto, dopo una riunione con i suoi principali aiutanti, divise i suoi uomini in due gruppi: uno, sotto la sua guida, rimase nei pressi di Palermo, l’altro, agli ordini di Orsini, si diresse verso l’interno con una manovra diversiva atta a far credere che tutti i garibaldini si stessero dirigendo al centro dell’Isola.

Il 26 maggio, a fornirgli preziosissime informazioni sui dispositivi di difesa della seconda capitale del regno giunse Ferdinand Eber, accreditato come corrispondente inglese del Times a Palermo, in realtà un rivoluzionario che aveva già prestato i suoi servigi in Ungheria contro l'Austria, il Nizzardo lo nominò colonnello del suo esercito. Anche ufficiali delle navi inglesi e americane, ancorate nel porto, portarono mappe della città "cò segni dove sono barricate i posti di regi [cioè dei borbonici]” [194]; in più, emissari del comitato rivoluzionario cittadino assicurarono che Palermo sarebbe insorta all’entrata di Garibaldi in città.

Il nuovo comandante borbonico era venuto a conoscenza, nel pomeriggio del giorno 26, che Garibaldi era alle porte della città e che si stava preparando anche la rivolta dei palermitani, non prese nessun provvedimento malgrado i suoi sottoposti lo pregassero di far uscire le truppe in campo per andare incontro al "Dittatore” e impedire il suo attacco, egli rispondeva a tutte le sollecitazioni con un rifiuto e con l’affermazione: "Bombarderò !”. In questo modo, lasciò solo 260 reclute a protezione delle porte S.Antonino e Termini, e proprio da queste, nella notte tra il 26 e 27 maggio, alle quattro di mattina, entrarono 4000 garibaldini mentre rimanevano più di sedicimila uomini chiusi ed inoperosi nei forti della città; le poche truppe meridionali, presenti nel punto dell’attacco, si opposero valorosamente e poi ripiegarono per le vie di Palermo in direzione del palazzo reale. Garibaldi si acquartierò, col suo stato maggiore, nel Palazzo Pretorio da dove fece un discorso per incitare il popolo alla rivolta; i comitati rivoluzionari palermitani, dopo una prima esitazione, si attivarono: fecero suonare le campane a stormo, cominciarono ad erigere moltissime barricate e a sparare, dai tetti delle case, sui borbonici.

Questi ultimi furono blandamente rinforzati da pochissime compagnie lanciate nella contesa dal Lanza il quale, verso le tre del pomeriggio, non trovò di meglio da fare che bombardare la città con i cannoni del forte di Castellammare e delle navi alla fonda nel porto (continuò anche il giorno 28 e 29 facendo, secondo alcuni, circa 600 vittime civili ma non modificando il corso degli avvenimenti bellici a terra). Ci si batteva accanitamente anche in sanguinosi corpo a corpo e la sera del 27 tutta la parte bassa della città era in mano ai garibaldini eccettuati il palazzo delle Finanze, il forte di Castellammare e il palazzo reale; Lanza interrogò l’ammiraglio inglese Mundy sulla possibilità che facesse da intermediario tra due suoi sottoposti e la controparte per ottenere un’armistizio, gli fu risposto positivamente con l’unica condizione che si trattasse direttamente con Garibaldi, la proposta fu rifiutata.

All’alba del giorno 28 giunsero nel porto due battaglioni inviati da Napoli, richiesti dallo stesso comandante Lanza, il quale però li fece sbarcare solo il giorno successivo rinserrandole nel palazzo reale, malgrado il loro comandante, il maggiore Migy, assicurasse essere desiderosissimi di combattere. L’esito degli scontri dei giorni 28 e del 29 maggio volgeva a favore delle camicie rosse ma nel primo pomeriggio del 29, dal forte di Castellammare, furono avvistate le truppe al comando di Von Meckel e di Bosco che avevano sconfitto i garibaldini direttisi all’interno dell’isola e che tornavano in città, l’ufficiale Agostino di Palma ne diede notizia al comandante supremo Lanza che non prese nessun provvedimento. Garibaldi, invece, una volta saputolo, mandò un messaggio scritto a tutti i suoi capoposto "In caso di attacco di forze soverchianti, ritiratevi al Palazzo Pretorio”[195].

Le nuove truppe, arrivate nella serata del giorno 29, all’alba del 30 cominciarono il contrattacco, sfondarono con i cannoni Porta di Termini ed eliminando via via tutte le barricate che incontravano si avvicinarono al palazzo Pretorio dove Garibaldi aveva il suo quartiere generale. La situazione per le camicie rosse era disperata perché avevano praticamente esaurito le munizioni ma a quel punto arrivarono sul campo i capitani di Stato Maggiore Bellucci e Nicoletti con l’ordine del comandante supremo Lanza di sospendere i combattimenti perché egli aveva chiesto e ottenuto da Garibaldi, nella prima mattinata, una tregua di 24 ore. "Laggiù, in fondo alla via…si vedeva il colonnello Bosco aggirarsi furioso, come uno scorpione nel cerchio di fuoco. Oh s’egli avesse potuto giungere mezz’ora prima! Entrava di filato, e se ne veniva al Palazzo Pretorio quasi di sorpresa, con tutta quella gente, che aveva la rabbia in corpo della marcia a Corleone, fatta dietro le nostre ombre……vedemmo non so quante migliaia di soldati accampati sulla piazza del palazzo Reale ……ci guardavano da ammazzarci cogli occhi ”[196]. A Garibaldi, viceversa, non parve vero di uscire da una situazione oramai compromessa, vedendo i suoi uomini fuggire davanti ai borbonici si preparava ad imbarcarsi sulle navi inglesi presenti nel porto e temette che Lanza lo avesse ingannato chiedendo un falso armistizio, si convinse solo quando il comandante borbonico mandò i suoi sottoposti ad ordinare la fine dei combattimenti.

Alcuni affermano che fu cosa strana che Lanza chiedesse un tregua quando era a conoscenza della vittoriosa controffensiva delle sue truppe, altri negano la veridicità di questa circostanza. La cessazione del fuoco fu formalizzata, alle ore quattordici, sulla nave Hannibal dell’ammiraglio inglese Mundy, nelle qualità di mediatore; Garibaldi si presentò con divisa da generale piemontese "Non fu certo una riunione cordiale…i napoletani non sapevano se e in quale misura Garibaldi stesse bluffando e ignoravano che scarseggiava gravemente di munizioni. Winnington-Ingram [comandante dell’Argus] anch’egli a bordo dell’Hannibal , vide Garibaldi, uscito dalla cabina dell’ammiraglio Mundy, prendere da parte il capitano Palmer [comandante della nave americana Iroquois, alla fonda nel porto di Palermo] ”e tra loro ebbe luogo una seria conversazione”. Risultò poi che Garibaldi aveva chiesto che nottetempo dall’Iroquois fossero sbarcate munizioni , ma che Palmer aveva "invocato la propria neutralità”. Certo è però che, alcune settimane più tardi, Henry Elliot [ambasciatore inglese a Napoli] ebbe a notare essere "una curiosa coincidenza che la nave americana, trovatasi a Palermo durante l’assedio, al suo arrivo a Napoli era a tal punto a corto di polvere, da non poter neppure eseguire una salva di saluto”[197]

Fu concesso un armistizio fino alle 12 del giorno successivo con lo scopo di seppellire i cadaveri e di curare i feriti; il giorno successivo (31 maggio) Lanza avrebbe potuto riprendere le ostilità dando il colpo di grazia a Garibaldi che già stava pensando di ritirarsi nelle campagne ma, invece, inopinatamente, chiese una ulteriore proroga di 3 giorni, la rabbia dei soldati borbonici fu tale che si registrarono episodi di disobbedienza, sull’altro campo si commentava così: ”Solenne questo mezzodì! ma l’armistizio fu prolungato. Fino all’alba del tre giugno potremo riposare, lavorare, prepararci”[198].

Garibaldi la concesse, ma pretese gli fosse consegnato il denaro del Banco delle Due Sicilie di Palermo, oltre cinque milioni di ducati in oro e argento, una cifra enorme corrispondente a circa 80 milioni di € [150 miliardi di vecchie lire] equivalenti a circa 21 milioni di lire sarde ovvero quasi la metà delle spese per la guerra franco piemontese contro l’Austria dell’anno precedente. Essa era costituita in gran parte da depositi di privati cittadini che si videro perciò privare dei loro risparmi che furono distribuiti ai garibaldini, a collaboratori del posto e per la "conversione" alla causa "unitaria” di altri ufficiali meridionali; Garibaldi "lasciò un pezzo di carta con scritto "per ricevute di spese di guerra” e la promessa che il nuovo stato avrebbe restituito tutto e rimesso i conti in ordine. Questo foglietto restò negli archivi dell’istituto: prima in quello contabile e poi in quello storico. La promessa si perse fra le migliaia di assicurazioni di quel tempo”[199]

Re Francesco II, dopo aver convocato due consigli di Stato per deliberare, diede il consenso a firmare il 6 giugno la vergognosa capitolazione di Palermo, anche perchè l’ipotetica ripresa della città era stata definita dagli inviati del comandante Lanza "immensamente sanguinolenta”, il sovrano era inoltre fiducioso che la città di Messina avrebbe resistito (come aveva fatto dodici anni prima, nell’insurrezione siciliana del 1848) consentendo una futura riconquista. Il giorno 8 giugno le truppe meridionali lasciano la seconda capitale del regno per imbarcarsi sulle navi: sono 24 mila uomini perfettamente equipaggiati, la cui rabbia, provata da molte rotture di sciabole e alcune diserzioni, è ben interpretata da un soldato dell’8° di linea il quale, al passaggio a cavallo del Lanza, uscì dalle file e gli disse: "Eccellè, òvii quante simme. E ce n’avimma ì accussì?", l’ineffabile comandante gli rispose: "Va via, ubriaco!”. "Gli abbiamo visti partire. Sfilarono dinanzi a noi alla marina per imbarcarsi, una colonna che non finiva mai, fanti, cavalli, carri. A noi pare sogno, ma a loro!”[200]. Fu una ritirata umiliante che disgustò persino il comandante inglese Mundy, al passaggio dei borbonici i garibaldini presentarono sprezzantemente le armi. Lo stesso comandante si imbarcò, il 20 giugno, con tutto lo Stato Maggiore alla volta di Napoli, ma per ordine di Francesco II fu fatto fermare ad Ischia dove lo attendeva la Corte Marziale, gli avvenimenti successivi lo salvarono da un inevitabile condanna e il 7 settembre lo ritroveremo intento ad omaggiare Garibaldi e addirittura a dirigere l’organizzazione delle luminarie per i festeggiamenti. La presa di Palermo era costata ai meridionali la perdita di 200 uomini (di cui solo 4 ufficiali) e più di 500 feriti (33 tra gli ufficiali); ai garibaldini 30 morti e 60 feriti. Essendo oramai la città priva di truppe meridionali cominciarono le vendette contro i poliziotti borbonici, dispregiativamente soprannominati "sorci”, e le loro famiglie; il 16 giugno fu la giornata peggiore e nessuno ostacolò questi assassini, torture e stupri.

Precedentemente, il 31 maggio, anche Catania era stata attaccata dai garibaldini ma in sette ore fu liberata dal tenente colonnello Ruiz con il prezzo di 180 morti più i feriti tra i soldati meridionali; il giorno successivo il generale Clary ricevette l’ordine, dal brigadiere Afan de Rivera, appena arrivato in Sicilia, di sgomberare la città ritirando le truppe a Messina; nelle casse comunali c’erano 16.300 once d’oro, una vera fortuna che cadde in mano degli uomini di Garibaldi; rimasero così nelle mani dei borbonici, oltre a Messina solo Siracusa, Agusta e Milazzo.

"Nel frattempo cominciarono a sbarcare in Sicilia numerose navi provenienti da Genova e da Livorno cariche di armi e "volontari” che erano in realtà soldati piemontesi ufficialmente fatti congedare o disertare come si rileva nella circolare n. 40 del Giornale Militare del Piemonte del 12.8.1861 (per i "volontari”) e dalla Nota n.159 del 5.9.1861 (per i "disertori”) le quali prescrivevano per loro l’iscrizione a matricola della "campagna dell’Italia meridionale 1860 in Sicilia e nel Napoletano, i disertori vennero in seguito opportunamente amnistiati con decreto reale del 29.11.1860 "[201]; a causa di questi rinforzi, ad agosto, si era passati dai Mille ai 21.000 "volontari”. Tutte le ventuno spedizioni marittime furono effettuate senza che la marina meridionale effettuasse serie manovre di intercettazione.

Ricordiamo che l’"Armata di Mare” meridionale era la più potente flotta da guerra del Mediterraneo, era nata col primo re Carlo che istituì anche il collegio nautico e fu sviluppata da Ferdinando I e dai suoi successori, comprendeva più di 100 unità tra cui : 2 vascelli con 84 e 86 cannoni, 18 fregate (di cui 14 a vapore, tra cui la "Borbone” con propulsione ad elica e artiglieria "rigata”, varata proprio nel 1860), 2 corvette, 5 brigantini, 11 avvisi e molte altre unità minori. [la Marina Italiana adottò da quella meridionale le uniformi, il sistema delle segnalazioni e delle manovre, le ordinanze e parte del gergo]. L’ammiraglio piemontese Persano, fornito da Cavour di appositi fondi di denaro che elargiva a piene mani, in una lettera al suo primo ministro del 6 agosto 1860[202] comunicava che: "Gli Stati Maggiori di questa marina si possono dire tutti nostri, pochissime essendo le eccezioni " ma già il 1 giugno Cavour comunicava all’Ammiraglio che i primi ufficiali della Marina meridionale avevano espresso "sentimenti italiani” e raccomandava per essi di "assicurare gradi e promozioni vantaggiose….ove Ella dovesse spendere qualche somma di denaro, potrà farlo dandomene immediato avviso col telegrafo”[203]. Il 20 giugno Garibaldi sale sulla nave di Persano "gli ho detto come il governo del Re fosse pronto alle più ardite imprese pel compimento dell’indipendenza italiana, così valorosamente da lui sostenuta in Sicilia”.[204]

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