venerdì 10 luglio 2009
I 70 ANNI DELLA CARTA DEL LAVORO
Manlio Sargenti
Il 21 aprile 1927, in una lunga seduta notturna, il Gran Consiglio del Fascismo approvava la Carta del Lavoro. Sono trascorsi settant'anni. Le vicende economiche, sociali e politiche hanno profondamente mutato l'assetto della società italiana. Ma quel documento costituisce ancora, checché ne abbiano detto e possano dirne una propaganda faziosa ed una storiografia solo apparentemente obiettiva, un punto di riferimento di fondamentale importanza per comprendere il significato storico dell'ideologia e della prassi fascista e non privo, malgrado il tempo trascorso e le mutate situazioni, di un valore attuale. Giustamente, la Carta del Lavoro fu paragonata al suo apparire a quella Dichiarazione dei diritti del cittadino che aveva segnato alla fine del secolo XVIII, la nascita dello stato moderno; ma altrettanto giustamente fu detto che essa la superava, proclamando per la prima volta l'uguaglianza dei lavoratori rispetto ai datori di lavoro e facendo del lavoro un soggetto dei rapporti economico-sociali e, almeno implicitamente, politici. In effetti, considerando il cittadino non più nella sua astratta posizione di soggetto, di diritti, ma nella sua concreta realtà di lavoratore e di produttore, affermandone la dignità e la parità come tale, la Carta conteneva "in nuce" il principio che faceva dei diritti civili e politici un'espressione ed un attributo del lavoro. Ma oltre alla carica rivoluzionaria di questo fondamentale suo principio informatore, la Carta del Lavoro presentava aspetti indiscutibilmente innovatori anche nelle sue singole proposizioni, aspetti innovatori di cui si può valutare appieno il significato e l'importanza riportandosi all'ambiente ed al momento storico in cui venivano prospettati, quando molti degli istituti che a noi appaiono oggi naturali e scontati costituivano ancora reali conquiste del mondo del lavoro, ma molti dei quali non sono privi di una scottante attualità. Si pensi al rilievo che aveva in quel lontano 1927 la concezione di un sindacato non più semplice associazione di fatto, che affidava alla sua sola forza materiale, numerica, ed all'arma dell’agitazione e dello sciopero la tutela degli interessi dei lavoratori, ma organismo di diritto pubblico, riconosciuto come tale dallo Stato e munito del potere di stipulare contratti collettivi vincolanti per un'intera categoria. Si disse allora dagli oppositori, in Italia ed all'estero, che questa disciplina pubblicistica del sindacato distruggeva la libertà sindacale; e fra i primi atti del risorto regime democratico si volle il ritorno a quella selvaggia forma di libertà. Ma, a prescindere dal fatto che la dichiarazione terza della Carta si apriva proprio con le parole “L’organizzazione sindacale o professionale é libera", che in linea di principio, quindi, qualsiasi sindacato poteva liberamente costituirsi, anche se uno solo poteva, poi, essere riconosciuto come rappresentante della categoria, molto più importante dell'astratta libertà di costituzione di sindacati plurimi era il ruolo che al sindacato riconosciuto veniva attribuito con il potere di rappresentare e difendere concretamente gli interessi dei lavoratori non con l’arma dell'agitazione, dello sciopero, della pressione politica, ma con lo strumento giuridico della contrattazione collettiva. E si pensi al valore innovativo dell'introduzione di questo strumento giuridico della contrattazione collettiva in un sistema che conosceva fino a quel momento solo un contratto di diritto privato, che i datori di lavoro potevano impunemente ignorare e di fatto molto spesso ignoravano, che diveniva, invece, obbligatorio per tutti gli appartenenti ad una categoria, fossero o non fossero iscritti ai rispettivi sindacati. Si pensi al significato della creazione di una magistratura del lavoro, chiamata non solo a giudicare con la partecipazione di esperti le controversie individuali, ma a dirimere, ove ce ne fosse bisogno, le controversie collettive, sostituendosi alle parti in conflitto con il potere di dettare norme obbligatorie per la disciplina dei rapporti di lavoro. E si pensi, poi, all'importanza dell'affermazione di princìpi ancora oggi attuali, come quello della necessaria corrispondenza del salario "alle esigenze normali della vita, alle possibilità della produzione ed al rendimento del lavoro", che sono oggi di normale applicazione, ma erano nuovi e audaci settant'anni fa, come quello della retribuzione superiore del lavoro notturno, delle ferie retribuite, dell'indennità di liquidazione proporzionata agli anni di servizio, dell'estensione delle nonne sul lavoro ai lavoratori a domicilio, della disciplina delle tariffe di cottimo, della fruizione della previdenza come "alta manifestazione del principio di collaborazione" e dell'impegno a perfezionare, migliorare ed estendere l'assicurazione infortuni, di maternità, delle malattie professionali, contro la disoccupazione. Era, insomma, tutta una nuova concezione della funzione del sindacato, della struttura dei rapporti economico-sociali, dell'intervento regolatore dello Stato nella disciplina di questi rapporti e del processo produttivo nel suo complesso, una concezione che attribuiva al sindacato non solo la tutela degli interessi degli associati, ma il compito, non puramente di parte, di "promuovere in tutti i modi l'aumento, il perfezionamento della produzione e la riduzione dei costi", una concezione che, pur riconoscendo il valore dell'iniziativa privata, ne subordinava l'esercizio agli interessi superiori della Nazione e che, perciò, coerentemente considerava "l'organizzazione dell'impresa responsabile dell'indirizzo della produzione di fronte allo Stato" e prevedeva la possibilità non solo del controllo e dell'incoraggiamento dell'attività produttiva da parte dello Stato, ma anche quella sua gestione diretta. Ed in conformità a questa visione nuova dei rapporti sociali ed economici all’interno e sotto il controllo dello Stato la Carta del Lavoro preannunciava gli sviluppi futuri, che avrebbero dovuto realizzarsi, ed in effetti si realizzarono sul piano normativo negli anni successivi, dal 1930 al 1934: la creazione, cioè, dell'ordinamento corporativo, di quelle Corporazioni che dovevano costituire "l'organizzazione unitaria delle forze della produzione" e rappresentarne integralmente gli interessi. Si profilava, così, un modo nuovo ed originale di concepire la disciplina del processo economico, una forma di economia programmata che, mentre si proponeva di sottrarre tale disciplina all’arbitrio dei singoli produttori e dei loro interessi di classe, secondo i princìpi del liberalismo capitalistico, non intendeva, però, trasformarla in una disciplina imposta da organismi burocratici, sul modello dell’economia sovietica, ma voleva affidarla ad organi rappresentativi espressi dalle stesse forze economiche, che venivano, così, ad autodisciplinarsi, inserendosi in un sistema in cui, é bene sottolinearlo, l'espressione del mondo del lavoro doveva essere presente alla stessa stregua e con gli stessi poteri di quella del capitale. Il che, poi, costituiva la premessa per realizzare una rappresentanza non solo di interessi economici, ma di forze politiche, una rappresentanza genuinamente politica e, mi si consenta il bisticcio, autenticamente rappresentativa, che superasse le illusorie forme della democrazia elettoralistica per realizzare una vera democrazia del lavoro.
Da questi principi e da queste realizzazioni avrebbe poi preso le mosse il programma più decisamente rivoluzionario della Repubblica Sociale Italiana, nel quale confluivano e si esprimevano i fermenti che erano andati coagulandosi negli anni precedenti come reazione ai compromessi ed alle incompiute attuazioni dei principi enunciati nella Carta del Lavoro e posti a base dell'ordinamento corporativo. Fu il momento del Manifesto di Verona, fu il momento della Legge sulla Socializzazione delle imprese, fu il momento della delineazione di una nuova struttura sindacale e corporativa che superasse le deficienze manifestatesi nell'esperienza precedente. Questo programma muoveva da una fondamentale premessa: che per rendere effettivamente il lavoro soggetto dell’economia, per creare una struttura statale veramente fondata sulle forze del lavoro e della produzione, per realizzare la partecipazione del cittadino lavoratore a tutti i momenti ed a tutte le fasi del processo decisionale, così sul terreno economico come su quello politico, si doveva partire dalla base, dalla cellula del processo produttivo, dall'impresa; che per distruggere l'onnipotenza del capitalismo e fare dello Stato un autentico Stato del lavoro si doveva sottrarre all'imprenditore capitalista l'assoluto dominio dell'impresa, fare di questa un organismo in cui avesse parte anche il lavoro attraverso i rappresentanti eletti da tutti i lavoratori. Ma questi postulati erano impliciti nello Carta del lavoro, la quale aveva già proclamato che il prestatore d'opera “è un collaboratore attivo dell'impresa economica” come d’altra parte, aveva affermato che "l'organizzazione dell'impresa è responsabile dell'indirizzo della produzione di fronte allo Stato", non più, dunque, arbitro incontrollato dei destini dell'impresa come l’imprenditore capitalista; formule e concetti che saranno ripresi e sviluppati nella legge sulla socializzazione del 1944. Come saranno riprese le idee della funzione, nazionale e sociale del processo produttivo, della necessità del suo finalizzarsi al benessere dei singoli ed allo sviluppo della potenza nazionale, della conseguente necessità del suo controllo da parte dello Stato e della sostituzione dello Stato all'iniziativa privata quando siano in gioco gli interessi della collettività.
E' bene che tutto questo sia detto e sia ricordato, non solo per una sterile rievocazione del passato, ma per affermare che quei principi e quell'esperienza possono e devono avere ancora, per noi e per tutti gli italiani, un significato ed un valore attuali. Le trasformazioni economiche, sociali e politiche che hanno caratterizzato la società italiana, e non solo italiana, nell'ultimo cinquantennio non hanno fatto che esasperare i problemi che l'esperienza del ventennio precedente si era trovata ad affrontare ed aveva tentato di risolvere. Il ritorno, sul terreno politico-istituzionale, ad un regime che si qualifica democratico, ma non è se non un'oligarchia di partiti sorretta e governata, in realtà, da forze e centri di potere occulti: il sempre più accentuato predominio, sul terreno economico, di un capitalismo selvaggio, legato e dominato a sua volta da potenti interessi sovranazionali; lo smantellamento, che si va realizzando, con la corsa alle privatizzazioni, di ogni forma di controllo pubblico e di programmazione del processo produttivo e di distribuzione; il sacrificio, che ne consegue, delle categorie più deboli dei cittadini, vanamente ed illusoriamente contrastato da organismi sindacali, a loro volta gestiti oligarchicamente, e da miriadi di associazioni protese a realizzare una sorta di corporativismo selvaggio, imponendo o tentando di imporre a volta a volta gli interessi limitati ed egoistici di gruppi ristretti ed antagonisti; tutti questi fenomeni che caratterizzano in forme sempre più accentuate e perverse la nostra società, insieme alla distruzione dei valori etici nello spirito dei singoli e del significato etico dello Stato rendono più che mai necessaria la riaffermazione dei principi cui si ispira la Carta del Lavoro, alla cui realizzazione tendevano il conferimento ai sindacati di una funzione e di una dignità istituzionale, la creazione di un ordinamento giuridico che consentisse la reale partecipazione dei cittadino alla formazione della volontà politica, l'ordinata e non selvaggia espressione delle esigenze e degli interessi delle singole componenti del corpo sociale, il controllo da parte dello Stato, di uno Stato così organizzato, degli egoismi dei singoli e dei gruppi per armonizzarli e comporli nel quadro degli interessi della collettività nazionale.
In una società organizzata come noi lo concepivamo e lo concepiamo, in una società in cui il cittadino lavoratore fosse partecipe, sin dallo base, sin dalla cellula dell'impresa, ed in ogni sua fase successiva, del processo decisionale sul terreno economico, amministrativo, politico e lo fosse non attraverso l'illusoria, episodica espressione di un voto che lo aliena, in quel momento stesso, da ogni effettiva possibilità di decidere, rendendolo in effetti suddito di un potere oligarchico, in una società siffatta non sarebbero possibili, o per lo meno facili a verificarsi, le aberrazioni e le perversioni, i fenomeni di corruzioni, di malgoverno, di sperpero delle risorse collettive che hanno caratterizzato nell'ultimo cinquantennio ed ancora caratterizzano la vita di una società che si pretende democratica ed orientata socialmente. In una società, quale noi la concepiamo non sarebbe possibile il prevalere selvaggio e incontrollato degli interessi individuali e di classe, perché questi sarebbero organizzati ed ordinati in una superiore unità nella quale esprimersi in forme istituzionali; non sarebbe possibile al grande capitale finanziario disporre arbitrariamente del destino dell'impresa, incurante degli interessi della collettività e della sorte dei lavoratori, perché i rappresentanti di quei lavoratori sarebbero presenti anch'essi intorno ai tavoli dei consigli di amministrazione, partecipi dall'interno del processo decisionale, e perché l'imprenditore, non più irresponsabile imprenditore capitalista teso solo alla realizzazione del profitto, ma capo dell'impresa, responsabile della sua condotta di fronte allo Stato, dovrebbe muoversi nel quadro di un programma economico disegnato dagli stessi fattori del processo produttivo organicamente rappresentati nella struttura dello Stato. Se tutto ciò non è pura fantasia ed utopia, se noi crediamo che costituisca invece, un disegno politico realizzabile nella società del Duemila, che costituisca, anzi, l'unica soluzione possibile dei problemi della società e dello Stato, nonché della comunità intenzionale a livello europeo, di fronte al fallimento catastrofico dell'esperimento comunista ed alle contraddizioni ed ingiustizie sempre più evidenti della trionfante democrazia capitalistica, dobbiamo portare queste nostre idee in mezzo al popolo di lavoratori e nutrirne le giovani generazioni perchè reagiscano all'imperante materialismo, edonismo, consumismo voluti, imposti, dalla logica del capitalismo selvaggio, perché reagiscano alla società della droga, dell'esaltazione del sesso, dell'omosessualità elevata a modello di vita, perché tornino a credere e a lottare per i valori dello spirito, ma anche per la costituzione di una società più giusta, fondata sulla partecipazione di tutte le forze che la compongono, sull'uguaglianza effettiva dei cittadini lavoratori, su quei principi che la Carta del Lavoro proclamava e che sono stati traditi e dimenticati da una falsa democrazia, da una repubblica che falsamente si proclama fondata sul lavoro.
LINEA N. 6-7-8, Giugno-Luglio-Agosto 1997.
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