martedì 30 giugno 2009

Opere pubbliche -- Il Regno delle Due Sicilie prima dell’Unità

Testo di Giuseppe Ressa
Editing e immagini a cura di Alfonso Grasso

Nelle Due Sicilie si assisteva ad un curioso fenomeno per cui alcune opere pubbliche erano all’avanguardia come innovazione e furono realizzate per prime in Italia e tra le prime in Europa; quelle “ordinarie”, al contrario, non erano tenute in conto sullo stesso piano.

Ricordiamo:

il ponte Ferdinandeo sul fiume Garigliano del 1832: è stato il primo ponte ad impalcato sospeso in ferro d'Italia (tra i primi del mondo), costruito in 4 anni con 68.857 chilogrammi di ferro [1] e collaudato dallo stesso Ferdinando II che ci fece passare sopra due squadroni di lancieri a cavallo e sedici carri pesanti di artiglieria; orgoglio delle Due Sicilie, resistette fino al 1943 quando i tedeschi, dopo averci fatto transitare il 60 % della propria armata in ritirata, compresi carri e panzer, lo distrussero; fu seguito dalla costruzione di un ponte simile sul fiume Calore, inaugurato nel 1835.

Il primo telegrafo elettrico d’Italia, inaugurato in pompa magna il 31 luglio 1852, che collegava Napoli, Caserta, Capua e Gaeta; nel 1858 veniva inaugurato il telegrafo sottomarino tra Reggio e Messina, altre linee con cavi marini collegarono le Due Sicilie a Malta, nel 1859 fu collegata Otranto con Valona e da lì partiva la linea aerea per Costantinopoli e Vienna.

La prima rete di Fari con sistema lenticolare d’Europa (1841) utilissima per al sicurezza della navigazione.

La prima ferrovia e prima stazione d’Italia Napoli Portici (1839): lungo questa prima linea si sviluppano nuovi agglomerati urbani che costituiscono la struttura del nascente polo industriale attorno alla Capitale; l’anno dopo fu inaugurata dagli Asburgo la Milano-Monza, nel 1845 la prima ferrovia veneta (Padova-Vicenza) e addirittura bisognerà aspettare nove anni per vedere la prima piemontese (Torino-Moncalieri) e la prima toscana (Firenze-Prato). L’ingenerosa critica storica ha fatto prevalere la tesi della costruzione ferroviaria borbonica per esclusiva vanità della corte di collegare la capitale alle residenze reali di Caserta e di Portici, altri ancora sostennero che la ferrovia fu realizzata per spostare più velocemente le truppe della guarnigione di Capua, in caso di disordini a Napoli; è certamente vero che tutte le ferrovie dei diversi stati nacquero anche con finalità strategiche e militari[2] ma in realtà gli scopi principali erano ben diversi. Ferdinando II, nel discorso pronunciato nell’ottobre 1839, all’inaugurazione della Napoli-Portici, ebbe a dire: “Questo cammino ferrato gioverà senza dubbio al commercio e considerando che tale nuova strada debba riuscire di utilità al mio popolo, assai più godo nel mio pensiero che, terminati i lavori fino a Nocera e Castellammare, io possa vederli tosto proseguiti per Avellino fino al lido del Mare Adriatico” [3] e infatti la ferrovia raggiunse nel 1840 Torre del Greco, Castellammare di Stabia nel 1842, Nocera nel 1844, contemporaneamente un altro tronco puntava a nord raggiungendo Caserta nel 1843 e Capua nel 1844; in questo stesso anno sulla Napoli-Castellammare transitarono ben 1.117.713 viaggiatori, in gran parte “pendolari“ che quotidianamente si recavano nella capitale per lavoro, le tariffe erano basse sia per il trasporto dei passeggeri (diviso in tre classi) che delle merci.

Dalla cronaca del “Giornale delle Due Sicilie“ dell’epoca si legge[4]: “Ad un segnale dato dall’alto della Tenda Reale parte dalla stazione di Napoli il primo convoglio composto di vetture sulle quali ordinatamente andavano gli invitati, gli ufficiali, i soldati e i marinai … S.M. con la Real Famiglia prese posto nella Real Vettura“…”le popolazioni di Napoli e delle terre vicine - si leggeva sulla cronaca di altri giornali - accorrevano in grandissimo numero come ad uno spettacolo nuovo, tutte le deliziose ville attraversate dalla strada si andavano riempiendo di gentiluomini e di dame vestite in giorno di festa…con tanto entusiasmo traesse d’ogni parte sulla nuova strada e giunto colà facesse allegrezza grande come per faustissimo avvenimento”; erano 7411 metri che furono percorsi in quindici minuti (velocità 20 km \ ora) dal convoglio guidato dalla locomotiva “Vesuvio”, negli anni successivi si toccarono anche punte di 60-80 chilometri all’ora. Dobbiamo ricordare il progetto borbonico di una rete ferroviaria diretta a collegare il Tirreno all’Adriatico con due arterie principali a doppio binario: la Napoli-Brindisi e la Napoli-Pescara; le relative concessioni furono stipulate il 16 aprile del 1855, con un particolareggiatissimo protocollo che prevedeva tempi e modi di realizzazione; in questa maniera si sarebbero accorciati notevolmente i tempi di collegamento (previsti in quattro ore al posto dei giorni di navigazione necessari via mare); la prima linea tagliava in due parti quasi esatte il regno, erano previste nuove arterie stradali comunicanti con le varie stazioni ferroviarie in modo da favorire il trasporto sia dei passeggeri che soprattutto delle merci e del bestiame, come pure delle diramazioni per collegare le nuove linee ferrate a quelle dello Stato della Chiesa e di conseguenza a quelle degli altri stati italiani preunitari e del resto d’Europa; erano anche progettate due litoranee: una da Napoli alla Calabria meridionale con diramazione a Taranto e l’altra da Brindisi ad Ancona (e da lì comunicante con Bologna e Venezia); previste 60 locomotive, 750 carrozze e circa 1000 carri per il trasporto merci. Malgrado questi progetti, al momento dell’unità, le Due Sicilie avevano solo 128 km di linee in esercizio ma l’ultimo re, Francesco II, diede un’ accelerazione alla costruzione delle strade ferrate, come prevedeva un suo decreto del 28 aprile 1860, per un totale di altri 1400 km presumibili [5], non ebbe, però, il tempo di completarle per lo sviluppo successivo degli avvenimenti storici; nello stesso momento il Piemonte aveva già approntato 866 km di ferrovie, il Lombardo Veneto 240 km, la Toscana 324 km, i ducati emiliani 180 km; ma, se è vero che la lunghezza complessiva delle ferrovie meridionali, al momento dell’unità, era inferiore a quella di altri stati italiani preunitari, anche per le caratteristiche del territorio prevalentemente montuoso che in nulla assomigliava alle pianure del Nord, e che non ne facilitava la costruzione, è comunque accettato da tutti che come qualità tecnico-costruttiva fossero le migliori.

Per ciò che concerne le strade, esse erano, senza dubbio, del tutto insufficienti e molto al di sotto, come lunghezza, dal resto dell’Italia, il sistema viario era funzionale alle esigenze della Capitale dalla quale partivano 4 assi principali: uno per lo Stato Pontificio, uno per gli Abruzzi, uno per la Puglia e uno per la Calabria, la viabilità provinciale era incentrata in molte zone su cammini naturali o su tratturi [6]. Ma anche in questo campo le Due Sicilie pagavano lo scotto della conformazione del Paese, prevalentemente montuoso, che rendeva più rapido ed economico lo sviluppo delle vie marittime; comunque il governo borbonico si era seriamente impegnato nella costruzione di nuovi tracciati progettati da ingegneri che erano alle dirette dipendenze dello Stato, tra di essi ricordiamo Carlo Afan de Rivera e Ferdinando Rocco. Alcune arterie sono dei veri e propri capolavori come la Civita Farnese (tra Arce e Itri) che, pur correndo quasi completamente in territorio montano, in nessun tratto superava la pendenza del 5% il che permetteva l’agevole trasporto di merci su carri e la Pescara-Sulmona-Napoli dove ancora oggi si possono osservare le pietre miliari che indicano la distanza dalla antica capitale; la meravigliosa Costiera Amalfitana, considerata tra i 10 posti più belli del mondo, fu dotata della strada panoramica nel 1854; l’ossatura di alcune strade viene ancora oggi sfruttata per il passaggio di veicoli molto pesanti come i TIR a testimonianza della validità dei loro progetti.

Altre interessanti realizzazioni furono: l’illuminazione a gas di Napoli, prima in Italia (1840) e terza in Europa (dopo Londra e Parigi) (Napoli fu anche la prima città d’Italia ad organizzare nel 1852 un esperimento d’illuminazione elettrica); la bonifica e conseguente sistemazione idrogeologica delle paludi Sipontine (Manfredonia), di quelle di Brindisi, del bacino inferiore del Volturno e della Terra di Lavoro (Regi Lagni): in quest’ultimo territorio furono restituite al lavoro agricolo 53 miglia quadrate di paludi, realizzati 100 miglia di canali di bonifica, muniti d’argini e controfossi, lungo i quali furono posti a dimora 150.000 alberi; costruite 70 miglia di strade, decorate da "ponti in fabbrica" e da altri 120.000 alberi che attraversavano la campagna in tutti i sensi; fu iniziato il prosciugamento del lago del Fucino in Abruzzo.

Menzioniamo l’istituzione: dei Monti di Pegno e Frumentari in tutto il Regno, veri e propri crediti agrari che prestavano denaro ad interessi bassissimi, del primo Corpo dei vigili del fuoco italiano, l’Istituzione di Collegi Militari come la “Nunziatella”, creato da Ferdinando IV nel 1786 come “Real Accademia Militare” ben prima della più celebrata Modena.

Ricordiamo inoltre la realizzazione del confine terrestre: col trattato firmato a Roma il 27 Settembre 1840 e ratificato il 15 Aprile 1852 fu stabilita la linea di separazione con l’unico stato confinante, quello pontificio, Papa Gregorio XVI e re Ferdinando II decisero di posizionare nel terreno ben 686 cippi che partivano da Gaeta sul Tirreno e giungevano fino a Porto d’Ascoli sull’Adriatico. Erano piccole colonne cilindriche in pietra con incisa sulla sommità la direzione del confine, sul lato dello Stato Pontificio due chiavi incrociate e l’anno di apposizione (1846 o 1847) e verso il regno borbonico un giglio stilizzato ed il numero progressivo della colonnina, crescente verso il nord. Alti un metro, del diametro di quaranta centimetri e del peso di 700/800 chili furono realizzati da ambedue i confinanti; sotto ogni cippo era stata sotterrata una medaglia di lega metallica recante lo stemma dei due Stati. Questa semplice, ma allo stesso tempo elegante e civile demarcazione fu abbattuta all’arrivo dei piemontesi, ma alcuni di essi sono stati di recente restaurati e riposizionati grazie all’opera di un gruppo di ricercatori coordinati da Argentino D’Arpino.

Giuseppe Ressa


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[1] Michele Vocino, “Primati del regno di Napoli”, Mele editore

[2] Basti pensare agli 866 km realizzati dal rissoso Piemonte fino al 1860, la cui costruzione contribuí non poco alla bancarotta di quello Stato.

[3] Tratto dagli “Annali Civili del Regno delle Due Sicilie“, vol. XX,fasc.XLI, pag.37

[4] riportato da Michele Vocino, Primati del regno di Napoli, Mele editore, pag. 149

[5] A. Mangone, L’industria del Regno di Napoli 1859-1860, Fiorentino, 1976, pag.54

[6] A.Spagnoletti, Storia del Regno delle Due Sicilie, Il Mulino, Bologna, 1998, pag.137


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