martedì 30 giugno 2009

L'attacco dello Stato italiano all'industria meridionale





Testo di Giuseppe Ressa
Editing e immagini a cura di Alfonso Grasso

La storiografia ufficiale sostiene che, con l’abbattimento dei dazi doganali protezionistici e l’introduzione nel Sud, il 24 settembre del 1860, della tariffa libero-scambista, fu la concorrenza dei prodotti del Nord ed esteri a mettere in ginocchio l’industria e l'agricoltura meridionali, che, secondo questa tesi, si reggevano in piedi solo per il sistema protezionistico. In realtà, questo è falso perché mentre l'industria settentrionale copriva a stento il fabbisogno del suo mercato, il Sud, al contrario, esportava manufatti (oltre ai prodotti agricoli) in tutto il mondo grazie alla sua enorme flotta mercantile.

Perché allora l'industria meridionale scomparve, malgrado fosse globalmente considerata ad un livello superiore a quella del nord? La concorrenza estera c'era sia al Nord sia al Sud, eppure il primo sopravvive e si sviluppa mentre il Sud perde terreno anche nei settori in cui, al momento dell'unità, era alla pari o ad un livello più avanzato.

I fatti, al di là delle opinioni, dicono che mentre i fiori all’occhiello dell’economia meridionale, che erano al primo posto, nei relativi settori, al momento dell’unità, come l’industria metalmeccanica di Pietrarsa, i cantieri navali (come Castellamare di Stabia), gli stabilimenti siderurgici di Mongiana o Ferdinandea, l’industria tessile e le cartiere, cadono in abbandono o sono immediatamente chiusi mentre, contemporaneamente, al Nord sorgono quasi dal nulla analoghi stabilimenti come l’arsenale di La Spezia o colossi come l’Orlando.

In realtà fu messo in opera un preciso disegno dei “vincitori sul campo” il quale fece sì che il Nord si sviluppasse a danno del Sud: l’asse Torino-Milano-Genova doveva avere il monopolio dell’industria italiana, al Sud fu assegnato un ruolo prevalentemente agricolo e di fornitore di mano d’opera per l’industria nordica. “Il dissidio tra la Lombardia…e molta altra parte d’Italia ha origini in una serie di fatti: sopra tutto il sacrificio continuo che si è fatto degli interessi meridionali“[1]. “Le industrie del già Regno delle Due Sicilie sono state sventuratamente né apprezzate né conosciute da coloro che purtroppo avevano obbligo di considerarle, e però quando i suoi più grandi interessi sono stati discussi davanti al Parlamento nazionale si è avuto dolorosamente il rammarico di vederli trattati leggermente come cosa di picciol conto”[2].

Passiamo ad esaminare i casi più eclatanti:

a) Nel 1861, l’ingegner Sebastiano Grandis, incaricato da Torino di stendere una relazione su Pietrarsa, curiosamente ne esagerò i difetti magnificando, nel contempo, i pregi della Ansaldo di Genova che aveva, in più, dalla sua, anche una “benemerenza politica” risorgimentale visto che “sostenne nascostamente la spedizione di Garibaldi [con la fornitura di armi] e lo incitò all’azione”[3]. Così “Delle 600 locomotive occorrenti alle linee ferroviarie del Sud, solo un centinaio fu appaltato a Pietrarsa”[4] che, dopo vari passaggi di proprietà, nel 1885 la fabbrica viene addirittura declassata a officina di riparazione e nel 1900 ebbe un rapido declino fino ad essere chiusa definitivamente il 20 dicembre 1975 (attualmente è sede di un Museo ferroviario stranamente chiuso). Nel 1885 l’esercizio della rete nazionale delle ferrovie fu data a tre società (Adriatica, Mediterranea e Sicula) “tutte a capitale settentrionale, ebbero i loro centri tecnici e direzionali al nord ed accentrarono commesse ed acquisti di materiali rotabili e di ogni genere all’estero ed al nord”[5]

b) Mongiana, già nel 1862, viene inclusa tra i beni demaniali da alienare, la produzione siderurgica viene più che dimezzata come pure il numero dei dipendenti che erano ben 1500; la ferriera di Atina, al momento dell’unità in costruzione con due altoforni già pronti, viene chiusa subito; contemporaneamente si registra il potenziamento di analoghi complessi nell'area ligure-piemontese come l'Ansaldo, che prima del 1860 contava soltanto 500 dipendenti e dopo due anni li raddoppia. Alla fine, il 25 giugno 1874, in "ottemperanza" alla Legge 23 Giugno 1873, Mongiana venne chiusa e fabbriche, officine, forni di fusione, boschi, segherie, terreni, miniere, alloggi e caserme, tutto il complesso diventò la "casa di campagna" di Achille Fazzari, ex garibaldino, che l’acquistò per poco più di cinquecentomila lire; una triste fine per un opificio che aveva collezionato premi nazionali ed internazionali per la bontà delle sue realizzazioni (Esposizione industriale di Firenze del 1861 e di Londra del 1862).

c) Paradigmatico, poi, è l’esempio della Marina mercantile meridionale: prima dell’unità era la quarta del mondo, dopo il 1860 il governo di Torino preferisce stanziare anticipi di capitale e sovvenzioni per le società di navigazioni genovesi e le nega a quelle meridionali che furono così costrette a ridurre e sospendere ogni attività “il trentennio dal 1860 al 1890 segnò per l’armamento a vapore napoletano un periodo di decadenza e di stasi completa”[6]; nel ventennio 1879-1898 le commesse alla cantieristica del Sud furono solo il 33% del totale nel settore pubblico e circa l’11% di quello privato. “Quando nel 1861 il governo di Torino bandì le gare per gli appalti dei servizi postali marittimi, le vecchie e prestigiose società di navigazione napoletane non ebbero neanche l’invito a concorrere alle gare…vinte dagli armatori liguri e tra essi il Ribattino che aveva avuto un ruolo importante nell’impresa garibaldina del 1860”[7]. Il governo preferì, quindi, favorire le compagnie “più vicine … e sostenute da autorevoli referenti politici”[8]

d) Per quanto riguarda la Marina Militare, Quintino Sella, nel nuovo parlamento italiano, affermò “Quale cosa più bella che togliere da quel porto [Napoli] gli stabilimenti militari per accrescere vantaggi al commercio?”, così lo stato italiano preferì costruire il nuovo arsenale di la Spezia, provocando la rovina di quello all’avanguardia dell’ex capitale del Regno delle Due Sicilie.

e) Anche il settore tessile fu danneggiato dalla mancanza di commesse, comprese quelle delle Forze Armate che prima vestivano i 100mila militari dell’esercito delle Due Sicilie, come comunicato, invano, dalla giunta provvisoria di commercio di Napoli “Oggi i fornitori dell’esercito lontani da questa parte d’Italia non hanno alcun pensiero o riguardo ai prodotti dell’industria nostrale….si rivolgono ai prodotti stranieri…si arreca danno inestimabile alla nostra industria”[9]; poco dopo l’unità il famosissimo opificio di S. Leucio vide sospendere la produzione, poi dato in appalto ad un piemontese, successivamente passò al Comune, poi in fitto ai privati e nel 1910 fu chiuso per sempre.

f) Per quanto riguarda la fiorente industria della carta lo Stato abbassa il dazio di esportazione degli stracci, materia prima per l’industria cartaria, favorendo gli esportatori di Genova e Livorno che indirizzarono i loro affari soprattutto all’estero penalizzando gli opifici meridionali; in più le commesse editoriali statali ristagnano e vengono affidate quasi tutte a tipografie torinesi, nessun libro edito al Sud fu poi adottato nelle materie di insegnamento della scuola; per tutti questi motivi la Campania perse gli antichi primati retrocedendo, a venti anni dall’unificazione, al terzo posto tra le regioni italiane mandando così sul lastrico migliaia di operai.

I dispacci, nei quali la prefettura di Napoli, fin da subito dopo l’unità, informavano delle crescenti difficoltà dell’industria meridionale nel suo complesso erano “letti distrattamente a Torino”[10]. Nel Sud, all’anno 1861, gli addetti ai vari tipi di attività industriali erano il 51% del totale degli occupati dell’industria italiani (dati censimento ufficiale), nel 1951 (dati del censimento ufficiale) il 12.8%; si era quindi attuato, in 90 anni, un vero e proprio processo di deindustrializzazione.

Ricordiamo, per inciso, che, in ogni caso, l’industria italiana nei primi novantanni postunitari rimase a livelli molto inferiori alla media europea, il paese rimase sostanzialmente agricolo tanto che fino agli anni 50 del 1900, con il cosiddetto “miracolo economico”, le maggiori entrate del bilancio dello stato erano dovute alle esportazioni di agrumi meridionali e alle rimesse degli emigranti, anch’essi in gran parte del Sud; ancora nel 1954 il 42,4% della popolazione attiva italiana era occupata nell’agricoltura contro il 31.6 % dell’industria.

Concludendo, affermiamo che gli strumenti di questa politica vessatoria per il Mezzogiorno furono: l’accresciuto prelievo fiscale fino ad un vero e proprio sfruttamento, il drenaggio dei capitali, la strozzatura del credito, gli investimenti pubblici preferenziali per il nord e la diminuzione delle commesse alle imprese del Sud. Considerato tutto questo, non fa meraviglia che la frattura economica Nord-Sud si cominciasse a delineare dopo 20 anni d’unità, e che dopo 40 era già netta, ma che l'economia meridionale abbia retto per decenni ad una simile politica di rapina sistematica: “il grosso del dislivello in termini di reddito pro capite e di struttura industriale si formò dopo l’unità, e segnatamente tra la fine degli anni Ottanta e lo scoppio della prima guerra mondiale”[11].

A causa della dissennata politica economica e fiscale del governo unitario l’incidenza del reddito del Sud su quello complessivo del regno d’Italia scende, dal 1860 al 1900, dall’iniziale 40% al 22%. Il legittimista Giacinto de Sivo commentò che per “usurpare la Monarchia [borbonica] si percosse la nazione [meridionale]”.

Giuseppe Ressa


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[1] Tratto dalla lettera di Nitti del 5 luglio 1898 a Giuseppe Colombo, direttore del Politecnico di Milano in C.G. Lacaita, Nitti e Colombo: carteggio inedito 1896-1919 in “Rivista Milanese di Economia”, n.5 ( gennaio-marzo 1983), pag. 126

[2] L. De Matteo, Noi della meridionale Italia. Imprese ed imprenditori del Mezzogiorno nella crisi dell’unificazione, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2002, pag. 12

[3] D. Mack Smith, Il risorgimento italiano, op.cit. pag. 122

[4] Gennaro de Crescenzo, Le industrie del regno di Napoli, Grimaldi, 2002, pag. 149

[5] R. M. Selvaggi, Il tempo dei Borbone, la memoria del sud, De Rosa, Napoli, 1995, pag.128

[6] L. Radogna, op. cit.

[7] ibidem, pag. 122

[8] L. De Matteo, Noi della meridionale Italia. Imprese ed imprenditori del Mezzogiorno nella crisi dell’unificazione, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2002, pag. 206

[9] A. Scirocco, Il mezzogiorno nella crisi dell’unificazione (1860-1861), Società Editrice napoletana, 1981, pag. 372

[10] A. Ghirelli, Storia di Napoli, Einaudi, Torino, 1996, pag. 273

[11] G. Pescosolido, Unità nazionale e sviluppo economico, Laterza, 1998, pag. XI


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