martedì 30 giugno 2009

L'AZIONE - L'invasione e la fine delle Due Sicilie

La defezione della flotta fu determinante per la caduta delle Due Sicilie
Testo di Giuseppe Ressa
Editing e immagini a cura di Alfonso Grasso

I rivoluzionari unitari soffiavano sul fuoco del malcontento siciliano; il 27 novembre 1859 il capo della polizia siciliana, Salvatore Maniscalco, fu pugnalato sugli scalini della cattedrale di Palermo mentre stava entrando in chiesa con moglie e figli per assistere alla messa, rimase gravemente ferito (il sicario fu ricompensato, mesi dopo, da Garibaldi con una pensione).

Il 2 marzo 1860 Mazzini incitava alla ribellione i siciliani, mettendo da parte le sue convinzioni repubblicane che venivano sacrificate all’ideale unitario sotto lo scettro della monarchia sabauda.Il 25 marzo l’ambasciatore inglese a Torino, Sir James Hudson, scriveva al suo ministro degli Esteri Lord Russell “… dobbiamo desiderare ardentemente lo scontro tra l’Italia del Nord e quella del Sud. Il risultato non può essere dubbio. Il Papa e il Re di Napoli saranno battuti, la Sicilia si dichiarerà per i suoi diritti costituzionali e per l’annessione. Napoli sarà alla mercè di tutti…Cavour per le molte necessità della sua posizione è ora più che mai gettato nelle vostre mani se la vostra politica nell’Italia meridionale è vigorosa ed armata….Per parte mia io sono per la costruzione di un’Italia forte e per il raddoppiamento della nostra forza navale nel Mediterraneo: quando tratteremo con Luigi Napoleone sulla Questione Orientale dovremo volere l’Italia per noi”[1]

“Rosalino Pilo, di nobile famiglia palermitana esule a Genova, ai primi di marzo del 1860 si rivolse a Garibaldi per avere aiuti onde suscitare un moto rivoluzionario a Palermo, e domandò armi da portare in Sicilia. ….Alla Sicilia e Napoli Garibaldi pensava già quando nel settembre 1859 lanciava il grido “un milione di fucili, un milione di uomini” e voleva che questi fucili e questi uomini si raccogliessero “sotto il vessillo unificatore del Re Vittorio Emanuele…..il 15 marzo rispose al Pilo con questa lettera:”…..Io non ripugno da qualunque impresa per azzardata che sia, ove si tratti di combattere i nemici del nostro paese…però nel momento presente non credo opportuno moto rivoluzionario in nessuna parte d’Italia, a meno che non fosse con non poca probabilità di successo”. Rosalino Pilo rispose “…Io penso di partire per la mia isola natia, per assicurarmi io stesso delle cose, prepararvi tutto ciò che ancora manca al fine di venire all’azione.[2]

“Il 25 marzo ...Giovanni Corrao e Rosalino Pilo, su suggerimento di Giuseppe La Masa, capo indiscusso dei siciliani rivoltosi, si recarono in Sicilia con la paranza “Madonna del soccorso” per ottenere il sostegno dei baroni alla prossima spedizione dei Mille; sbarcati nei pressi di Messina contattarono gli esponenti delle famiglie più importanti”[3]; con essi fu concordato che appena sbarcato Garibaldi, i “picciotti”, appartenenti alla malavita locale e alle bande al soldo dei latifondisti, accorressero “spontaneamente” in suo aiuto.

Nel frattempo, il 10 marzo, il Contrammiraglio Carlo Pellion di Persano alza l’insegna di Comandante di una divisione di sei fregate piemontesi in azione nel Mar Tirreno. È fondamentale rimarcare il ruolo che ebbe questo “uomo di fiducia” di Cavour nell’appoggio fattivo alla spedizione dei Mille ed è veramente curioso che qualche storico si ostini ancora a negare che il primo ministro piemontese, nonchè Ministro della Marina, la osteggiasse. Basterebbe leggersi il Diario dello stesso Contrammiraglio che riporta in maniera quasi maniacale il carteggio tra lui e Cavour[4] e che riporteremo durante la narrazione degli eventi.

Il 4 aprile 1860 il comitato rivoluzionario di Palermo, coordinato da Genova da Francesco Crispi, accese la miccia della rivolta, nel convento della Gancia, la quale aveva due principali riferimenti: il barone Riso che capitanava l’anima aristocratica, formata da uomini molto simili al Tancredi del romanzo il “Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa[5], e un suo omonimo, Francesco Riso, di mestiere idraulico, che guidava i popolani; la reazione borbonica, guidata dal capo della polizia Salvatore Maniscalco fu pronta, il 14 aprile tredici rivoluzionari furono fucilati a Palermo ma le sommosse continuarono nelle campagne di tutta la Sicilia fino alla fine del mese quando cessarono; il Re diede disposizioni affinché nessun altra condanna a morte fosse eseguita senza il suo esplicito consenso.

Il 7 aprile un’assemblea degli esiliati napoletani a Torino aveva approvato una deliberazione in cui tutti, salvo quattro, auspicavano l’unione delle Due Sicilie al Piemonte[6].

Il 18 aprile, Cavour, nelle sue vesti di ministro della Marina invia due navi da guerra, Governolo e Authion, in Sicilia, ufficialmente per proteggere i sudditi piemontesi presenti nell’isola ma in realtà ”per giudicare con perfetta conoscenza di causa delle forze che si trovano nell’isola così dalla parte degli insorti come da quella delle truppe reali”[7], poco dopo lo stesso primo ministro chiede all’ambasciatore piemontese a Napoli, anche a nome del ministro della Guerra Fanti, l’invio di carte topografiche del regno delle Due Sicilie che giungono nel regno sabaudo con la nave Lombardo, utilizzata nove giorni dopo da Garibaldi per la spedizione dei Mille.




Francesco Crispi

A fine aprile lo stesso Cavour si reca a Genova, dove rimane due giorni per controllare i preparativi dei garibaldini, il 3 maggio fu stipulato un accordo a Modena (presenti l’avvocato Ferdinando Riccardi e il generale Negri di Saint Front, appartenenti ai servizi segreti piemontesi che avevano avuto l’incarico dall’Ufficio dell’Alta Sorveglianza politica e del Servizio Informazioni del presidente del Consiglio); esso venne regolarmente formalizzato con rogito del notaio Gioacchino Vincenzo Baldioli in data 4 maggio 1860; con esso si stabiliva la vendita temporanea di due navi al regno di Sardegna e si precisava che il beneficiario era Giuseppe Garibaldi, rappresentato nello studio del professionista, sito in via Po a Torino, dal suo uomo di fiducia: Giacomo Medici; garanti del debito il re sabaudo e il suo primo ministro.[8]

“Il giorno 28 aprile a Garibaldi, che viveva a Quarto……arrivò un telegramma che tradotto….diceva che la rivoluzione in Sicilia era fallita. La disperazione dei volontari intimi di Garibaldi fu enorme e Garibaldi decise di non partire più. Ma il 29 aprile giunse un nuovo telegramma, che poi si disse inventato da Crispi, e in tale messaggio si diceva [falsamente]che l’insurrezione vinta a Palermo, seguitava nelle province. E i Mille partirono.”[9] Partiti da Quarto il 6 maggio, i vapori Lombardo e Piemonte (che quindi non erano stati rubati dai garibaldini, come recita la storiografia ufficiale), dopo una sosta in Toscana a Telamone, giungevano la mattina dell’11 presso le isole Egadi, a bordo i famosi Mille: “Tutti generalmente di origine pessima e per lo più ladra; e tranne poche eccezioni, con radici genealogiche nel letamaio della violenza e del delitto“ come affermò lo stesso Garibaldi il 5 dicembre 1861 in un discorso nel Parlamento di Torino.

La ricerca storica non può più permettersi di accreditare la versione romantica di questa “impresa”: i “Mille” non erano un gruppo di goliardi ed improvvisati rivoluzionari ma, per la gran parte, veterani delle campagne del 1848-49 e del 1859, folta la rappresentanza straniera di inglesi, ungheresi, polacchi, turchi e tedeschi; inoltre furono indispensabili: l’appoggio del Piemonte, degli ufficiali borbonici “convertiti” alla causa, dei latifondisti siciliani e quello inglese; del resto questo è ovvio in quanto tutti comprendono che nulla avrebbero potuto 1000 uomini contro i 25 mila soldati perfettamente equipaggiati dell’esercito meridionale stanziati in Sicilia, senza considerare gli altri 75 mila presenti nel Sud continentale. Lo stesso Garibaldi, che nessuno accredita di una intelligenza superiore, si rese conto del problema ed esitò a lungo nell’accettare il comando della spedizione perchè temeva di far la fine dei fratelli Bandiera e di Carlo Pisacane che avevano tentato in passato (rispettivamente nel 1844 e nel 1857) delle sortite simili fallite miseramente e pagate col loro sangue; a fine aprile stava per rientrare a Caprera e si convinse, quando Cavour stava per affidarla al generale Ribotti (che rifiutò) perché “i capi militari della spedizione, Garibaldi, Bixio, Cosenz , Medici, sapevano di poter soprattutto contare sul supporto logistico del governo sardo, una volta effettuato il primo sbarco“ [10].

“Due milioni di franchi oro erano stati raccolti dal Cavour per le occorrenze della spedizione dei Mille … e altri tre milioni dalle logge massoniche inglesi, americane e canadesi, trasformati da governo sabaudo in un milione di piastre oro turche perchè quella era la moneta più accettata nei porti mediterranei”.[11] [valore stimabile intorno ai 50 miliardi di lire dei giorni nostri, cioè 25 milioni di euro]. L’appoggio economico piemontese fu addirittura computato nel bilancio del neostato italiano tanto che quando nel 1864 il ministro delle Finanze Quintino Sella lasciò il dicastero a Marco Minghetti, nel passargli le consegne “preparò uno specchietto riassuntivo dei debiti…fra le voci: 7.905.607 lire attribuite a “spese per la spedizione di Garibaldi” [circa 60 miliardi di lire, 30 milioni di euro] “.[12]

Tre pirofregate sarde erano già state inviate in Sardegna il 3 maggio al comando di Carlo Pellion conte di Persano “ricevevo istruzioni di partire quanto prima”, egli approdava il giorno 8 nel porto di Cagliari, ricevendo da parte del governatore della città le disposizioni di Cavour, il Comandante annotava sul suo diario[13] il giorno 9 “Volgo per la Maddalena….devo arrestare i volontari, partiti da Genova per la Sicilia….ove tocchino a qualche porto della Sardegna…ma devo lasciarli procedere nel loro cammino, incrociandoli per mare…mi fermo a Tortoli tanto quanto basta ad impostarvi una lettera riservata a S.E. il conte di Cavour, dettatami dall’ambiguità dell’ordine ricevuto. Gli dico che la spedizione, che ho il mandato di arrestare, non avendo potuto effettuarsi all’insaputa del governo…..io chiedeva di telegrafarmi “Cagliari”, quando realmente si volesse l’arresto, e “Malta”, nel caso contrario” e aggiungeva il giorno 11 :“S.E. il conte di Cavour mi telegrafa:” Il Ministero ha deciso per “Cagliari”. Questo specificarmi che la decisione era stata presa dal Ministero, mi fa comprendere che egli, Cavour, opinava diversamente…e risolvo di lasciar procedere l’ardito condottiero al suo destino” e poi il giorno 16 “Ricevo lettera autografa di S.E. il conte di Cavour, in data 14 corrente….e m’invita a trasmettergli, in via privata e confidenziale, il mio parere sul da farsi in caso di una dichiarazione di guerra da parte del re di Napoli”.

Contemporaneamente il vicecomandante della Mediterranean Fleet inglese, contrammiraglio Mundy, aveva ricevuto ordini di pattugliare il Tirreno, il canale di Sicilia e soprattutto di fare frequenti scali nei porti delle Due Sicilie a scopo intimidatorio.

L’arrivo dei Mille era ben noto al governo meridionale, se ne parlava oramai da mesi e comunque ci fu una comunicazione del console meridionale di Genova, Garrou, al ministro plenipotenziario delle Due Sicilie a Torino, egli telegrafo’ ripetutamente il 6 maggio a Napoli avvertendo che Garibaldi era partito, “ogni volta che facevo chiedere alla stazione se la linea era libera, si rispondeva sempre ironicamente che andavano sì i miei telegrammi, ma lentamente”[14]. Si sapeva anche che sarebbero sbarcati nella parte occidentale dell’isola, per cui in quelle acque erano state allertate alcune navi da guerra: la pirocorvetta Stromboli con 6 cannoni, comandata da Guglielmo Acton, futuro ammiraglio, senatore e Ministro della nuova Marina Italiana; il brigantino Valoroso con 12 cannoni, comandata da Carlo Longo; la fregata a vela Partenope con 60 cannoni, con al comando Francesco Cossovich ed il vapore armato Capri con due cannoni, al comando di Marino Caracciolo [che successivamente si mise agli ordini dell’ammiraglio piemontese Persano e inalberando la bandiera sabauda, dopo l’arrivo di Garibaldi a Napoli, andò ad intimare la resa al comandante del forte di Baia ricevendone come risposta “A chiunque altro sì, a voi no”]; queste navi non avevano truppe da sbarco perchè l’ordine era di intercettare i nemici in mare e ”colarli a fondo salvando le apparenze”[15].

Giuseppe Garibaldi

I due vapori piemontesi, per eluderne la sorveglianza, non seguirono la rotta normale ma si spinsero fino quasi fin alla Tunisia, poi tornarono indietro e stavano per puntare sulla costa meridionale della Sicilia, a Sciacca, quando la mattina del giorno 11 incrociarono un veliero inglese da cui giunse ai Mille l’informazione che a Marsala non c’erano navi nemiche; a quel puntò la rotta fu posta verso quel porto nei pressi del quale un pescatore, di nome Antonio Strazzera, avvicinato in mare, li informò che le navi meridionali di pattuglia avevano lasciato la città siciliana, che la città era sprovvista di guarnigione armata dato che il 10 maggio era stata insensatamente richiamata a Palermo dopo aver sedato un’insurrezione (ordine assurdo visto che era noto l’arrivo dei “filibustieri” che si prevedeva avvenire tra Mazzara e Marsala) e che i due pennoni che si vedevano a distanza non erano di navi meridionali ma appartenevano a due cannoniere inglesi: l'Argus e l'Intrepid.

Queste ultime erano partite da Messina pochi giorni prima, avevano fatto scalo a Palermo il 9 maggio e in quell’occasione, a bordo dell’Argus, c’era stata una piccola festa per celebrare l’arrivo oramai imminente di Garibaldi che era di dominio pubblico; il giorno dopo (10 maggio) ricevettero l’ordine di salpare per Marsala, ufficialmente per "proteggere le proprietà dei sudditi inglesi", i ricchissimi commercianti del vino marsala: Woodhouse, Ingham, Whitaker, padroni di una fortuna immensa. Essi erano stati obbligati a consegnare le loro armi personali al generale borbonico Letizia, il quale aveva represso un focolaio di rivolta marsalese, iniziato nell’aprile e definitivamente domato il 6 maggio; i commercianti britannici comunicarono, così, di sentirsi indifesi contro “le numerose bande di briganti di zona”. Alcuni storici, alla luce del successivo appoggio inglese all’azione garibaldina, non credono a questa versione ufficiale dei fatti e si chiedono come mai le navi britanniche arrivassero proprio in quei giorni, a rivolta spenta, e non all’inizio di aprile quando era iniziata l’insurrezione di Marsala, altri, viceversa, la ritengono plausibile; comunque sia, le navi inglesi giunsero alle ore dieci del giorno 11 maggio, proprio la data dello sbarco dei Mille [16].

“Era una bellissima giornata, il sole splendeva e il mare era liscio come l’olio…due vapori a ruota [il Piemonte e il Lombardo], che erano stati visti incrociare al largo durante gran parte della mattinata, alle ore tredici mossero rapidamente verso la spiaggia e, giunti nei pressi di questa, inalberarono i colori sardi”[17]. Il Piemonte riesce ad ancorare in porto, il Lombardo si incaglia all’imboccatura, vicino al faro e gli occupanti sono trasportati velocemente con le scialuppe a terra, lo sbarco delle “camicie rosse” procedette con rapidità ed efficienza, esse avevano l’ordine di non indugiare nel porto ma di entrare subito nella città. Il telegrafista di Marsala prontamente mandò al comandante supremo dell’isola, principe di Castelcicala, un messaggio:”Due battelli a vapore con bandiera sarda sono entrati nel porto e stanno sbarcando gente armata”, dopo dieci minuti dalla ricezione la notizia era già trasmessa a Napoli; da Palermo si chiesero a Marsala notizie sulla consistenza numerica dell’invasore, la risposta fu “Mi ero ingannato. Si tratta di mercantili nostri che vengono a caricare zolfo”; “Imbecille” fu la risposta da Palermo, ma subito dopo si cominciò a dubitare del contenuto di questa smentita perchè il modo di trasmissione del secondo messaggio era palesemente di mano diversa rispetto al primo, e si era nel giusto perchè era stato inviato dal garibaldino Pentasuglia, che aveva puntato la pistola contro il telegrafista meridionale. Nel frattempo lo sbarco era già quasi completamente compiuto quando arrivarono le navi meridionali che avevano ricevuto notizia dello sbarco dai semafori di Favignana; per prima, verso le quattordici, arrivò la pirocorvetta a vapore Stromboli, poi la Partenope e il Capri.

A questo punto della narrazione ci viene naturale interrogarci su una circostanza fondamentale: come è potuto accadere che in una giornata con visibilità perfetta e mare calmo i due vapori piemontesi “che erano stati visti incrociare al largo durante gran parte della mattinata” potessero, indisturbati, avvicinarsi al porto alle ore 13, senza che nelle ore precedenti la loro presenza fosse segnalata dai posti di avvistamento a terra o rilevata direttamente dalle navi di pattuglia ? Questo quesito non puo’ essere eluso facilmente, dato che era ben noto che i Mille erano partiti cinque giorni prima e che dovevano orami essere in prossimità della Sicilia.




Paolo Ruffo di Castelcicala

Comunque sia, lo Stromboli, arrivato all’imboccatura del porto, dopo qualche colpevole esitazione dovuta “ufficialmente” al riconoscimento delle caratteristiche degli uomini sbarcati (non ci voleva pero’ molto a dedurre che erano gli attesi garibaldini) comincia a cannoneggiare il molo per colpire quelli già sbarcati, il tiro, pero’, era fiacco; a quel punto il comandante dell’Argus, Winnington Ingram, insieme a Marryat, comandante dell’Intrepid e al console inglese Cossins che erano tutti a terra, si imbarcarono su una scialuppa dell’Argus e salirono a bordo dello Stromboli. Il primo disse al comandante Guglielmo Acton che lo avrebbe ritenuto personalmente responsabile se qualche colpo di cannone avesse danneggiato le proprietà vinicole britanniche, si perse altro tempo per dare le rassicurazioni richieste “i suoi cannoni erano puntati esclusivamente sul molo, lungo il quale si vedevano le camicie rosse dirigersi verso la città”[18]; gli inglesi si reimbarcarono sulla lancia proprio mentre sopraggiungeva la Partenope i cui colpi avevavo tiro “troppo corto”, giunse per ultimo il Capri che aprì il fuoco anche se “non riuscivamo a capire contro che cosa fossero diretti i suoi colpi”, un suo ufficiale sale a bordo dell’Argus per chiedere che una delle scialuppe si avvicinasse ai vapori piemontesi, intimando la resa; ricevuto un diniego, la nave inglese sposto’ l’ancoraggio “avvicinandosi vieppiù ai magazzini vinicoli”.

Nella Protesta al corpo diplomatico estero del governo meridionale si dà una versione diversa: le navi nemiche “si accingevano ad effettuare lo sbarco delle bande che avevano a bordo, allorchè i due regi legni della prossima crociera aprirono contro gli aggressori il fuoco dell’artiglieria; dovette pero’ il fuoco essere sospeso per dare il tempo a due legni inglesi, colà giunti poche ore prima, di prendere a bordo dei loro uffiziali che si trovano in terra e che imbarcati, i stessi vapori, ripresero il largo, ed allora soltanto potè il loro fuoco incominciare su quei pirati senza poterne più impedire lo sbarco in Marsala”[19], ci furono degli scambi di note diplomatiche tra Napoli e Londra con accuse di connivenza da una parte e manifestazione di estraneità ai fatti dall’altra.

La versione governativa napoletana è contraddetta sia dai diari degli ufficiali inglesi presenti allo sbarco, sia dal diario del comandante dello Stromboli, Guglielmo Acton, sia da quello del garibaldino Cesare Abba “Le fregate che ci inseguivano arrivarono a tiro che noi eravamo quasi tutti sul molo”[20]; non ha, poi, conferma un’altra versione secondo la quale le navi inglesi erano sulla linea di fuoco di quelle meridionali e che, per questo motivo, il cannoneggiamento fu iniziato tardi, fino a che esse non si furono spostate. Garibaldi scrisse nelle sue memorie “la presenza dei due legni da guerra inglesi influì alquanto sulla determinazione dei comandanti dè legni nemici, naturalmente impazienti di fulminarci, e ciò diede tempo ad ultimare lo sbarco nostro…e io, beniamino di codesti Signori degli Oceani, fui per la centesima volta il loro protetto”[21] . “Quasi tutti a Palermo erano convinti che l’Argus si fosse recata a Marsala con il preciso scopo di aiutare Garibaldi, quando Winnington-Ingram [il comandante inglese dell’Argus] e i suoi si mostrarono per le strade, furono accolti da grida “Viva Arguse”[22].

Comunque siano andate le cose, il cannoneggiamento fu fiacco, come testimonieranno anche alcuni garibaldini (ad esempio, nei suoi scritti, Alberto Mario, che semmai poteva avere interesse ad affermare il contrario), tanto che ci furono solo due feriti, la bandiera della nave Lombardo fu regalata da Garibaldi al console inglese di Marsala, Cossins. I comandanti Acton e Cossovich furono sottoposti a Consiglio di Guerra ma furono prosciolti perchè fu ritenuta valida l’attenuante di non aver voluto causare complicazioni diplomatiche con l’Inghilterra.

I garibaldini, contrariamente a quanto si narra nelle agiografie risorgimentali, furono accolti dalla popolazione con tale diffidenza che il garibaldino Giuseppe Bandi ebbe, poi, a scrivere in una sua cronistoria: “Fummo accolti dai marsalesi come cani in chiesa"[23]; per questi motivi si rifugiarono nelle proprietà del ricchissimo commerciante di vino marsala Benjamin Ingham. La notizia dello sbarco suscitò, invece, un vivo entusiasmo in Piemonte e a Londra, si aprirono subito sottoscrizioni pubbliche in favore dei garibaldini: nelle liste del Morning Post la prima ad aderire fu la viscontessa Palmerston e si costituirono in tutte le città comitati pro Italia, frotte di volontari corsero ad arruolarsi. Il giorno successivo il governo borbonico, per voce del ministro degli Esteri Carafa, protestò contro quell’atto di pirateria sostenuto dal Piemonte ma Cavour dichiarò che il governo era estraneo alle gesta dei “filibustieri garibaldini”.

Francesco II strigliò il suo Luogotenente in Sicilia: ”Se la crociera fosse stata bene eseguita, non sarebbe certo accaduto lo scandaloso avvenimento che, a ciel sereno, in pieno pomeriggio, con mare tranquillo e con una lunga giornata, ha avuto luogo…dico essere urgente affrontare distruggere quest’orda discesa, e ciò subito…se da questo scontro si otterranno felici risultamenti…la rivoluzione siciliana sarà sedata, e più non se ne parlerà. Se per contrario, le conseguenze saranno le più tristi e più lacrimevoli”[24], parole lucidissime, queste del Re.

Commentava Massimo d’Azeglio:”Quel che non capirò mai (salvo aiuto inglese, o tradimento dei comandanti napoletani) è come il Re, con ventiquattro fregate a vapore, non abbia potuto guardare tre quattrocento miglia di costa. Una fregata ogni venticinque miglia, faceva dalle dodici alle sedici fregate, e mai più bella occasione di servir bene” [25] . In realtà “la sorveglianza non venne effettuata da sole unità a vapore di tipo omogeneo, più celeri e più adatte, bensì furono impiegate anche navi a vela, di non facile manovrabilità e più lente, come i vapori mercantili armati. La sorveglianza delle coste inoltre venne effettuata in modo discontinuo, nelle sole ore diurne e da unità dislocate a gruppi, in modo che restavano scoperti larghi tratti di mare”[26]

In appoggio a Garibaldi si cominciarono a muovere, per primi, come era già stato concordato, i baroni latifondisti, già ribattezzatisi “liberali ed unitari“, i quali avevano come interesse primario quello di abbattere i Borbone e di spostare il centro del potere in una capitale lontanissima come Torino, in questo modo avrebbero accresciuto la loro influenza sul territorio conservando i loro latifondi senza la fastidiosa intrusione dei vari intendenti mandati da Napoli che cercavano di opporsi alle usurpazioni dei beni demaniali per restituirli agli usi civici dei contadini.

Questo atteggiamento “liberale e unitario” fu successivamente adottato anche dai proprietari terrieri della parte continentale del Regno delle Due Sicilie, il loro appoggio fu ricompensato dal nuovo governo “italiano” con la vendita sottocosto dei beni demaniali ed ecclesiastici, fu un grosso affare per loro e l’ennesimo raggiro per la classe dei contadini; i baroni, d’accordo con quanto deciso in aprile con gli emissari di Garibaldi, avevano reclutatato numerosi «picciotti» che furono inquadrati agli ordini di “Calibbardo“[27].

“La Masa nei suoi scritti sostenne di aver arruolato “da solo” oltre 6 mila uomini, per la sola prima fase dell’operazione dei Mille, attraverso i contatti presi nell’aprile. Fu lo stesso La Masa ad ammettere…che noti “galantuomini” come i capibanda Scordato e Miceli (prima e dopo i Mille conosciuti da tutti per la loro ferocia) furono determinanti per il successo dei Mille in Sicilia, e –com’è ovvio- i capibanda non si muovevano senza l’impulso dei Baroni”[28].

Messina, il porto

Il baronaggio mafioso e l’epopea garibaldina

“I Mille, infatti, non avrebbero fatto molta strada nell’isola, dopo lo sbarco di Marsala, se non avessero beneficiato dell’aiuto dei baroni e del loro seguito di borghesi e di mafiosi. Quali premure, quali motivi indussero gente di tal fatta, non solo ad un appoggio generico alla spedizione garibaldina, ma a scendere direttamente in campo organizzando le squadre armate dei “picciotti”? La risposta resterebbe problematica se non potessimo disporre delle dichiarazioni rese dal duca Gabriele Colonna di Cesarò a una Commissione d’inchiesta di cui parleremo più avanti (trattasi della “prima” Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia, costituita con legge del 3 luglio 1875, e presieduta dall’onorevole Borsani n.d.r.).

Il suddetto duca rivelò appieno la “patriottica” strategia di classe del baronaggio siciliano con un giudizio assimilabile ad una vera e propria confessione: “Io credo che la maffia sia un’eredità del liberalismo siciliano, perché, quando cadde il feudalesimo o, dirò meglio, quando il feudalesimo rinunziò da se stesso al suo potere (nel 1812), i Borboni contemporaneamente ruppero la fede giurata alla Sicilia e da allora cominciò una lotta continua, implacabile tra la Sicilia e i Borboni. E dico la Sicilia perché tutte le classi siciliane erano d’accordo in questa lotta, anzi l’aristocrazia siciliana trae il vanto di essere stata sempre d’accordo col popolo. Così è appunto che l’aristocrazia siciliana ha sempre avuta pronta e efficace la cooperazione del popolo in tutto ciò che si riferiva alla lotta contro i re di Napoli, come d’altra parte il popolo ha avuto sempre l’aiuto, la cooperazione e la direzione dell’aristocrazia. (…) Tutti i baroni, tutti i proprietari, tanto delle città come dell’interno, hanno sempre avuto una forza che stava attorno a loro e della quale essi si sono serviti per farsi giustizia da sé senza ricorrere al governo e della quale forza si sono serviti ogni qualvolta si è dato il segnale della rivoluzione. (…) Era poi naturale che quando si doveva fare una rivoluzione non si badasse tanto pel sottile alle fedi di coloro cui si ricorreva (…); per qualunque oggetto per cui in altre occasioni si sarebbe dovuto ricorrere alle autorità si ricorreva a questa gente, e per me qui sta l’origine della mafia”.

Il documento, come meglio non sarebbe stato possibile, chiarisce con quali intenzioni l’aristocrazia siciliana, avvalendosi della “pronta ed efficace cooperazione del popolo”, offrì il suo appoggio a Garibaldi: l’occasione fu subito utilizzata per infliggere un colpo mortale ai Borbone, con lo spirito antico di una classe abituata a “farsi giustizia da sé senza ricorrere al governo”. L’ingiustizia alla quale si intese reagire consisteva nella drastica liquidazione, da parte del Borbone, del Parlamento siciliano e, più ancora, nella politica antifeudale avviata dallo Stato napoletano che, alla fine degli anni Trenta, fece persino balenare l’eventualità di una riforma agraria.

Per l’antico ordine dei privilegi siciliani, la salvezza sembrò venire da Garibaldi, con quella strategia del “cambiare tutto per non cambiare niente” nella quale Tomasi di Lampedusa, acuto interprete delle tradizioni della sua classe, fa consistere il senso profondo della partecipazione siciliana al Risorgimento. La previsione era che, una volta liquidato l’arrogante Stato di Napoli, da Torino potessero venire tutt’al più dei fastidi, superabili nell’ambito di un nuovo patto tra i potentati siciliani e quel lontano re piemontese.

Con questa prospettiva, i baroni si prepararono ad una nuova trattativa e intanto fecero il loro ingresso sulla scena della “rivoluzione” nazionale e la alimentarono con l’apporto decisivo della mafia, capace di controllare il popolo e di farne un ubbidiente e fedele strumento per la salvaguardia dei cosiddetti interessi e diritti siciliani, sotto la “direzione dell’aristocrazia”. Fu così che personaggi mafiosi del tipo di Giuseppe Coppola, Santo Mele e Salvatore Miceli divennero “patrioti” e garibaldini, insieme a decine di altri capi delle squadre dei “picciotti”, spesso costituite da ribaldi d’ogni genere, tra i quali numerosi erano i delinquenti comuni evasi dalle galere. Garibaldi, a sua volta, non andò troppo per il sottile nel vaglio delle qualità morali e dei precedenti penali di quello che fu definito lo stupendo popolo siciliano impegnatosi nella “rivoluzione nazionale”.

Si potrebbe dire, forzando solo un poco i termini della realtà storica, che lo Stato unitario, almeno per quanto riguarda il comportamento della gran parte della classe politica, nacque in Sicilia nell’ambito di una strategia politica di tipo mafioso. Se si fa eccezione per i pochi autentici liberali dell’isola e per i patrioti formati dal mazzinianesimo, la maggioranza dell’ establishment dell’isola dalla svolta unitaria nazionale attendeva una “libertà” equivalente alla possibilità di gestire in proprio, con minori intromissioni dall’esterno, gli affari siciliani. Ma anche gli autentici liberali e l’intero movimento garibaldino, per avere successo, dovettero tenere conto del senso e dei caratteri particolari di quell’attesa. E soprattutto dovettero accettare le speciali forze “popolari” dalle quali essa era sostenuta e alimentata.”[29]

Giuseppe Ressa


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[1] riportata da Umberto Pontone in “Due Sicilie” anno VI num.5

[2] Cesare Bertoletti, Il risorgimento visto dall’altra sponda, Berisio, 1967, pagg.196-197

[3] tratto da Lorenzo del Boca, Maledetti Savoia, Piemme, 2003, modif.

[4] Carlo Pellion di Persano, La presa di Ancona, Diario privato politico –militare, Edizioni Studio Tesi, 1990

[5] “dava continui balli al primo piano del suo splendido palazzo di via Toledo, perchè le feste servivano da copertura per le riunioni che si tenevano al piano superiore, e gli uomini in abito da sera che sgattaiolavano su per le scale tra un allegro valzer e una controdanza, davano una mano a preparare bombe per la prossima rivoluzione”; Trevelyan, op. cit.

[6] Harold Acton, “Gli ultimi Borboni di Napoli”, Giunti,1997

[7] raccomandazioni di Cavour al marchese D’Aste (capo della spedizione) in “ La liberazione del Mezzogiorno” Appendice, riportato da Martucci in “ L’invenzione dell’Italia unita “, Sansoni, 1999, pag.151

[8] Antonio Pagano nel periodico Due Sicilie 2\2004

[9] C. Bertoletti, op. cit., pag.200

[10] Roberto Martucci, “ L’invenzione dell’italia unita “, Sansoni, 1999

[11] questo fatto è stato ufficializzato dalla relazione di Giulio Di Vita dell’Università di Edimburgo titolata “Finanziamenti della spedizione dei Mille” agli Atti del Convegno di Torino del 24/26 settembre 1988 sulla “Liberazione dell’Italia a opera della massoneria” edito a cura di A.Mola, Foggia, 1990; riportato da Aldo Servidio, L’imbroglio nazionale, Guida editore, 2002, pagg.37-38, modif. Nella notte tra il 4 e 5 marzo 1861, il poeta Ippolito Nievo, capo dell’intendenza di Garibaldi e quindi responsabile di tutti i fondi, viaggiava sul piroscafo Ercole da Palermo a Napoli, ci fu una esplosione delle caldaie e tutti gli ottanta passeggeri annegarono; nell’occasione ci furono la misteriosa perdita di contatto con la nave che lo precedeva ed il ritardo nei soccorsi, si parlò subito di sabotaggio e comunque fu l’unico battello ad affondare tra tutti quelli, ed erano numerosi, che avevano solcato il Tirreno per i ripetuti sbarchi in Sicilia.

[12] Lorenzo Del Boca, Maledetti Savoia, Piemme, 2001

[13] Carlo Pellion di Persano, La presa di Ancona, edizioni Studio Tesi , 1990, pagg. 9 e segg.

[14] Zazo, op. cit., pag. 279

[15] Giuseppe Cesare Abba, Da Quarto al Volturno, Oscar Mondadori, 1980, pag. 105

[16] i particolari degli avvenimenti sono tratti dal diario del comandante inglese dell’Argus, Winnington-Ingram, riportati da Raleigh Trevelyan, “Principi sotto il vulcano”, BUR, 2001, pag.160

[17] ibidem

[18] Trevelyan, op.cit., pag.162

[19] Afredo Zazo, La politica estera del regno delle Due Sicilie, Miccoli, 1940, pag.297-8

[20] “Da Quarto al Volturno, Noterelle di uno dei Mille, Oscar Mondadori, 1980, pag.40

[21] Le memorie di Garibaldi nella loro redazione definitiva del 1872, pag. 423; citato da Francesco Pappalardo, Il mito di Garibaldi, Piemme, 2002, pag. 155

[22] Trevelyan, op.cit., pag.164

[23] “ I Mille da Genova a Capua “, Milano, Rizzoli, 1960

[24] Michele Topa, Così finirono i Borbone di Napoli, Fiorentino, 1990, pag. 445

[25] lettera a Persano del 2 giugno, riportata in Carlo Pellion di Persano, op.cit. pag.13

[26] Lamberto Radogna, Storia della Marina militare delle Due Sicilie, Mursia, pag.145

[27] “Garibaldi” in dialetto

[28] Aldo Servidio, L’imbroglio nazionale, Guida, 2002, pag. 105

[29] Dalla “Storia della Mafia” di Giuseppe Carlo Marino, Newton Edizioni 1997, pagg. 16 e 17.

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