Preistoria del Sud
di Gherardo Mengoni
È insito nella curiosità di molti di noi il desiderio di conoscere aspetti della vita di coloro che ci hanno preceduto: i loro riti, le loro usanze quotidiane.
Chi si dichiara indifferente a questo genere di curiosità o non dice il vero, oppure respinge quei tasselli di conoscenza che tentano di delineare la Storia dell’uomo sulla Terra. Orbene, indagare andando a ritroso nel tempo è cosa abbastanza agevole se si pensa di “scalare” una decina di generazioni (all’incirca trecento Anni). Già cominciano, invece, a manifestarsi gravi dubbi, lacune ed imprecisioni se ci portiamo all’anno Mille (33 generazioni fa). Ma tutto davvero si annebbia, con solo flebili segni sul mistero delle origini e delle tradizioni, quando cerchiamo di accostarci in maniera ideale ai nostri più antichi “nonni”, a quegli Italici che, tra i 14.000 ed i 1000 anni a.C., popolarono le terre del Sud d’Italia. Chi erano e da dove venivano; dove si stabilirono in prevalenza?
Oggi, per scoperte relativamente recenti, alcune delle idee sono più chiare, ma molte sono le vicende che restano nel mistero. Non sono scomparse, infatti, vaste ombre relative alle modalità ed ai tempi delle migrazioni; alle lotte fratricide ed alle calamità che i popoli Italici dovettero affrontare nei tanti secoli, anzi nei millenni, che li videro progressivamente avanzare e prendere possesso dei territori del Meridione d’Italia. Alcuni rivoluzionari metodi di indagine e l’adozione di tecnologie sofisticate hanno, tuttavia, conferito connotazioni “moderne” alla ricerca archeologica di settore, producendo un forte impulso alla conoscenza sistematica di questo mondo lontano che pure, in certe sottili sfumature, appare a noi “familiare”.
Esaminiamo, in sintesi, quello che gli studi recenti indicano:
Circa 15. 000 anni fa ebbe inizio il lento, progressivo insediamento sulle coste italiane di popolazioni indoeuropee provenienti dall’Illiria (ex costa Jugoslava). Il processo di spostamento delle popolazioni ebbe, dunque, origine nella fase secondaria della Glaciazione Wurmiana, che ha termine 9000 anni a.C. Per opera della Glaciazione predetta tutto l’attuale Alto Adriatico, fino alle prime coste pugliesi, costituiva un enorme ponte ghiacciato che consentiva la migrazione di popoli, spinti dal desiderio di raggiungere terre a clima temperato.
Queste masse, originarie dell’Est Europeo, organizzate in tribù; raggiunta la terra ferma, si suddivisero e dettero origine a nuclei distinti: i Dauni, gli Enotri, ed i Messapi si distribuirono sul territorio dell’odierna Puglia (Apulia – Japigia). Gli Ausoni occuparono il basso Lazio e la Campania fino al fiume Sele . Gli Ausoni inoltre, essendo, come probabile, anche buoni marinai, raggiunsero per mare la costa calabra insediandosi nella zona di Reggio, come attestano recenti ritrovamenti ed i riferimenti classici di Dionigi di Alicarnasso. Bisogna attendere fino a 1300 anni a.C. per raccogliere testimonianze sul progressivo insediamento nell’odierna Sicilia dei Siculi, altra popolazione italica con caratteristiche paragonabili a quelle degli Enotri e dei Messapi.
L’attendibilità della ripartizione, così come appena riportata, dei territori del Meridione d’Italia fra le distinte entità etniche Italiche, derivanti dallo stesso ceppo originario indoeuropeo, presenta, ovviamente, vistose lacune, labilità ed incognite. Si tratta di tanto tempo fa!
Non dimentichiamo che stiamo parlando del periodo terminale del Paleolitico Superiore, nel quale l’Homo sapiens sta appena modificandosi in Homo religiosus. Il pensiero primordiale di questi nostri antenati comincia a soffermarsi sul perché della morte, sui fenomeni naturali come il tuono; la pioggia ed il calore del Sole. Nasce la sensazione panica di voler conoscere “ciò che c’è al di là della vita”. Con essa si profila una prima intuizione del trascendente; del divino, al quale bisogna dare, - come vedremo - una connotazione antropomorfa, non essendo ancora evoluto il pensiero degli uomini del Paleolitico Superiore, al punto da elaborare il concetto di divino in astratto.
Da questa considerazione nasce, forse, il filo conduttore che giustifica l’affermazione sull’unicità del ceppo di provenienza delle popolazioni italiche. Si tratta, peraltro, di una connotazione estremamente significativa, che si ritrova, puntualmente, in tempi successivi, anche in popolazioni come quella degli Osci, che vengono considerate “derivate” dagli Ausoni e che fino al V secolo a.C. occupano la Campania.
Il fil rouge è dunque di natura religiosa. Ha origine dal culto dei morti che, pur presentando modalità e rituali differenti, attesta, che nell’immaginario collettivo esiste il concetto di una vita ultraterrena. Ma il punto essenziale è costituito dalla forma monoteistica di religione primordiale che accomuna le popolazioni italiche e le loro ascendenze indoeuropee.
Si tratta della identificazione del potere divino nella “Madre Terra”, unica padrona della vita e della morte; origine di ogni cosa; protettrice della salute e della fertilità degli uomini e della bontà dei raccolti.
Ed ecco che la rappresentazione antropomorfica della Madre-feconda, non può che essere quella di una “Venere primordiale”, nella quale confluiscano, in forma essenziale, le componenti esoteriche dell’idolo e l’emblematica attribuzione dei segni della fertilità. Dunque una Venere, rappresentata in forma naturalistica di donna nuda, i cui attributi sessuali vengono esaltati nelle forme, per dare giusto risalto alle funzioni magiche della fecondità e della fertilità.
La scoperta casuale in Austria, nel 1908 di una statuina femminile, subito battezzata Venere di Willendorf e risalente a circa 23.000 anni a.C., dette l’avvio alle ricerche sull’esistenza del culto della Madre-feconda tra le antiche popolazioni europee dalla quali sarebbero stati generati gli Illiri e poi gli Italici. La Venere di Willendorf sarà la prima di una serie di statuine ritrovate in Europa con caratteristiche analoghe, che verranno classificate come Veneri steatopigiche, per la caratteristica comune dei larghi fianchi (Es. la Venere di Lespungue in Francia).
La certezza del trasferimento alle popolazioni italiche di una ritualità magica, simbolicamente immutata e rappresentativa della Madre-feconda, si ebbe con la eccezionale scoperta, nel 1966, in una cavità, sita presso Parabita nel Salento, di due statuine femminili di osso, di piccole dimensioni, che vennero denominate Veneri di Parabita. Si tratta di due oggetti rituali, databili intorno a 15.000 anni a.C. che rientrano nel novero delle cosiddette Veneri del Paleolitico Superiore, e che stanno a testimoniare la diffusione nei territori meridionali del culto della Madre-feconda o Dea-madre, origine dell’umanità e regolatrice della vita sulla Terra.
Il tempo passa. Dal Paleolitico Superiore si giunge a 5000 anni a.C. e nei popolosi aggregati umani dell’Italia Meridionale, ormai ben identificabili come popolazioni italiche, si perpetua invariato il culto monoteistico della Dea – madre, sviluppando e sottolineando, in taluni casi, altri aspetti magici connessi alla divinità.
Così la credenza che alla Dea-madre si dovesse attribuire, fra gli altri, il potere di guarire le malattie degli uomini e degli animali con acque medicamentose e quello, drammatico, di poter togliere di colpo la vita, fa sorgere il rapporto fra magico e fenomeni naturali inconsueti, come quelli di natura vulcanica.
Le acque termali sono un toccasana per l’uomo e, quindi, sono considerate manifestazioni della Dea-madre. Se poi, accanto alle acque termali si individuano emanazioni di gas venefici che possono uccidere, si conferma ancor più la potenza della unica Dea-madre alla quale, in tal caso, viene attribuito il nome di Mefite.
Ed ecco che sorgono nella Valle dell’Ansanto presso Rocca S.Felice in Irpinia; in un impenetrabile bosco di Eraclea; ai Bagni di Contursi ed in altri siti analoghi, luoghi di culto dedicati alla Dea Mefite. Questa non è che una diversa rappresentazione della Venere steatopigica, in forma più materna e consolatoria, perché allevia le malattie con le acque magiche, ma, come dicevamo innanzi, anche in veste di severa dispensatrice di morte con i gas venefici. Le statuine di terracotta della Dea Mefite che si ritrovano presso i luoghi votivi sono figure di donne, avvolte in ampi mantelli.
Più tardi, quella fede in una entità unica; quel culto monoteistico, immutato per millenni, con l’arrivo dei Greci e poi dei Romani, dovrà fare i conti con la chiassosa e variegata compagine degli Dei dell’Olimpo.
Tra Giove, impenitente donnaiolo, Apollo effeminato e vanesio e un caleidoscopio di tante divinità femminili, non c’è posto per un’unica Dea-madre onnipotente. Tutto viene travolto dalle novità imposte dai conquistatori. Le Veneri steatopigiche scompaiono. Resta, tuttavia, a lungo nella memoria degli Irpini, discendenti degli Osci, e finanche nello stesso Virgilio (Eneide VII 562 sgg) il timore reverenziale per la Mefite. Ad Essa, dell’intero Mito greco - romano, si possono avvicinare solo le figure Demetra e della di lei figlia Persefone, ciascuna delle quali raccoglie parte dei poteri ancestrali, conferiti alla Venere primordiale dall’immaginario dei nostri progenitori italici.
Gherardo Mengoni
aprile 2008
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