Uccio de Santis
La nascita dell’industria navale in Campania la possiamo ascrivere a merito
della regina di Napoli Maria Carolina, moglie di Ferdinando IV (che regnò
dal 1759 al 1825) la quale, su suggerimento del fratello, Giuseppe II
imperatore d’Austria, impose al Re un totale rinnovamento della marina da
guerra del regno.
La Regina chiese al fratello Leopoldo, Granduca di Toscana, di inviargli un
ufficiale che potesse fare ciò.
Giunse così a Napoli nel 1778 John Francis Edward Acton, francese di nascita
ma di origine irlandese, che, dopo aver prestato servizio nella marina francese,
era al servizio del Granduca e si era distinto nella spedizione spagnola-toscana
contro Algeri del 1775.
Nominato Direttore della Real Segreteria di Marina approntò un ambizioso
programma di costruzioni navali (7 vascelli da 74 cannoni, 4 fregate da 32
cannoni, 4 sciabecchi oltre a vario naviglio sottile) che avrebbe posto il Regno
tra le potenze marittime del Mediterraneo.
Il programma fu approvato da Ferdinando, anche se poi non fu del tutto
realizzato, ma come conseguenza, pensando che l’Arsenale di Napoli fosse
insufficiente e che ci fosse bisogno di un nuovo grande cantiere, l’Acton
identificò in Castellammare il luogo dove questo doveva sorgere, per i
seguenti motivi :
- i boschi di proprietà demaniale di Quisisana garantivano il legname,
- le acque minerali permettevano il trattamento dei legni,
- la distanza da Napoli era solo di tre ore di carrozza.
I lavori per approntare il cantiere iniziarono nel 1784 e già nel 1786 fu varato
il primo vascello: il Partenope da 58 cannoni e 680 uomini di equipaggio.
Il cantiere all’epoca impiegava 430 unità.
Fino al 1795 furono costruiti altri 5 vascelli e sei corvette.
Sei fregate classe Minerva furono invece realizzate nell’Arsenale di Napoli.
Tutte queste unità utilizzavano manufatti prodotti dalla Real Fabbrica d’Armi
di Torre Annunziata.
Alla fine del ‘700 la Marina Napoletana costituiva una realtà di tutto rispetto
operando in alleanza con gli inglesi.
Le sorti della guerra portata in Italia dai Francesi ebbero come conseguenza a
Napoli la costituzione dell’effimera Repubblica Partenopea (dal 23 gennaio al
13 giugno del 1799), ma per la Marina la perdita di gran parte della flotta,
incendiata nella notte dell’8 gennaio 1799 per evitarne la cattura da parte dei
francesi.
Bruciarono 4 vascelli, una fregata, una corvetta e un’ottantina di unità minori,
mentre a Castellammare veniva affondato il Partenope.
Nel successivo decennio francese (1806-1815) ci fu un ulteriore
potenziamento del cantiere.
Alla restaurazione la Marina andò momentaneamente in ombra, per quanto
una nave di 150 ton., varata in un cantiere a Vigliena il 24 giugno 1818, la
“Ferdinando I” con una macchina inglese da 50 CV, fu la prima nave a vapore
del Mediterraneo.
Fu solo nel 1830, con l’avvento al trono di Ferdinando II, che il Regno delle
due Sicilie, sia pure in ritardo rispetto ad altri stati europei, cominciò a dotarsi
di un apparato industriale.Il cantiere di Castellammare di Stabia nella seconda metà del XIX secolo
Nel campo della cantieristica Castellammare e l’Arsenale di Napoli erano i
due unici opifici in grado di costruire navi, mentre Palermo e Messina
svolgevano solo lavori di raddobbo.
A Napoli al Castel Nuovo era la Real Fonderia dei cannoni e a Torre
Annunziata la Real Fabbrica d’armi.
Fuori della Campania c’era un solo stabilimento: la “Fonderia della
Mongiana” che sfruttava alcune miniere di ferro in Calabria.
Per dotare il regno di una grande industria metalmeccanica, Ferdinando II fece
impiantare dal 1840 a Pietrarsa nel comune di Portici un opificio che ebbe un
grande sviluppo eguagliando come importanza le Officine Ansaldo di
Sanpierdarena.
Altri stabilimenti privati sorsero nel Regno Borbonico: la Zino & Herry e la
Guppy fondata da due industriali inglesi, Thomas Guppy di Bristol e John
Pattison di Newcastle upon Tyne.
Parallelamente alla costruzione delle navi a vapore (che dapprima montavano
macchine inglesi e poi, a partire dalla pirofregata a ruote “Fieramosca”, furono
equipaggiate con motori prodotti a Pietrarsa), continuavano ad essere varate
navi a vela.
La realizzazione più importante fu il grande vascello da 80 cannoni
“Monarca”. Progettato dal Brigadiere Sabatelli, fu il più grande veliero mai
costruito in Italia. Stazzava 3.669 ton., aveva tre alberi a vele quadre e un
equipaggio di 976 uomini. Ribattezzato nel 1860 “Re Galantuomo” ricevette
un motore di 1.351 hp.
Fu radiato del 1875 dopo aver anche partecipato alla battaglia di Lissa.
Sessant’anni dopo il Cantiere di Castellammare mise sugli scali due unità
estremamente simili nell’aspetto al “Monarca”, anche se con lo scafo in ferro:
il Colombo e l’Amerigo Vespucci.
Il Monarca fu protagonista di una episodio emblematico, nel clima di
generale sfascio che caratterizzò la fine della marina del Regno di Napoli.
Ad agosto del 1860 Garibaldi, oramai padrone della Sicilia, era entrato in
possesso, per tradimento del suo comandante barone Anguissola, della nave
Borbonica “Veloce” (una pirofregata a ruote di 972 ton.). Quindi progettò
un’azione corsara: inviare la nave, ribattezzata “Tukery”, a Castellammare
di Stabia per impadronirsi del vascello Monarca, che era lì in allestimento e
il cui comandante Vacca, tramite l’ammiraglio inglese (sempre loro!), aveva
fatto sapere che avrebbe consegnato la nave senza opporre resistenza.
Il Tukery partì da Messina con a bordo due compagnie di bersaglieri e a
mezzanotte del 13 agosto a luci spente affiancò il Monarca. Ma il traditore
Vacca prudentemente non era a bordo e il suo secondo Tenente di Vascello
Guglielmo Acton (nipote del fondatore della marina borbonica), nulla
sapendo delle trame del suo superiore, aveva fatto spostare la nave, che ora
era ben difficile da prendere a rimorchio.
Inoltre le sentinelle diedero l’allarme. I marinai respinsero il maldestro
tentativo di arrembaggio dei bersaglieri, i cannoni del Forte cominciarono a
sparare. Il Tukery riuscì a stento a fuggire e subì 7 morti e 11 feriti.
Anche l’Acton fu ferito e per la sua azione risoluta fu ricevuto dal Re
Francesco che lo promosse Capitano di Vascello e lo insignì della Croce di
Cavaliere dell’Ordine Militare di San Ferdinando.
Tutto questo non impedì dopo poche settimane, il 9 settembre, a Guglielmo
Acton di giurare fedeltà a Vittorio Emanuele a bordo della pirofregata sarda
Maria Adelaide nel porto di Napoli.
Partecipò all’assedio di Gaeta e di Messina e fece una luminosa carriera.
Ministro della Marina nel Gabinetto Lanza del 1871, fu nel 1979 anche Capo
di Stato Maggiore della Marina…
Alla fine del Regno nel 1860 Napoli aveva sul suo territorio un complesso di
industrie navali che senz’altro erano all’avanguardia in Italia.
Al momento dell’unità a Castellammare lavoravano 1.800 operai, all’Arsenale
di Napoli 1.600, a Genova 1.200, a Livorno 390, ad Ancona 60.
L’abolizione delle varie tariffe doganali fu devastante per l’industria
meridionale.
Il Governo rivolse le sue cure agli stabilimenti di Genova e di Livorno, ma
nonostante tutto nel 1869 fu fondato un cantiere a Pozzuoli , nel 1870 uno a
Baia e nel 1875 uno a Procida.
Lo Stabilimento di Pietrarsa fu dismesso dallo Stato e dato in fitto per 20 anni
alla Società Mecry, Henry & C., che però dopo qualche anno abbandonò la
produzione di motori marini e si dedicò alle costruzioni ferroviarie.
Rimasero attivi anche lo stabilimento della Guppy con 600 addetti e i cantieri
navali Pattison.
Anche in penisola sorrentina, dove vi era una antica tradizione marinara, negli
anni tra il 1860 e il 1870 furono costruite diverse piccole unità ad Alimuri,
Meta, Cassano ed Equa.
Ma già nel 1880 erano rimasti attivi solo Castellammare e Cassano (Piano di
Sorrento).
Comunque nettamente preminente fu il Regio Cantiere di Castellammare che,
trasformando la sua produzione dal legno al ferro, continuò malgrado tutto la
sua attività per la costruzione di navi.
Nel 1861 fu varata la fregata Italia e poi le corvette Etna (1862) e Caracciolo
(1869), la fregata ad elica Gaeta (1863), la pirofregata corazzata Messina
(1864) e i piroscafi Ischia, Marittimo, Gorgonia, Tremiti, Tino (1867).
La sconfitta di Lissa del 1866 indusse il Governo a potenziare la flotta militare
ed ad assegnare commesse di nuove unità.
Nel 1872 fu varata un’altra pirofregata corazzata, la Principe Amedeo, che, per
la prima volta dall’unità, montò un apparato motore costruito dall’industria
nazionale, per la precisione dalle Industrie Meccaniche Napoletane di
Pietrarsa.
Nel 1873 venne impostata a Castellammare la corazzata Duilio, che insieme
alla gemella Dandolo, costruita nell’Arsenale di La Spezia, fu una nave
estremamente innovativa per l’epoca.
Il progetto, dovuto al Direttore del Genio Navale Benedetto Brin (che fu poi
Ministro della Marina e Ministro degli Esteri), prevedeva un possente
armamento: 4 cannoni da 450 mm a torri e con un ridotto centrale, una
corazzatura in acciaio e non più in ferro ed una notevole velocità per l’epoca
(15 nodi).
Le due navi ebbero una costruzione lenta per le continue modifiche, ma alla
fine, quando nel 1880 entrarono in servizio, furono unanimemente
riconosciute come le più potenti unità dell’epoca ed aprirono una nuova era.
L’Inghilterra ne fu allarmata e subito impostò le unità della classe Inflexible,
molto simili alla Duilio.
Oramai il cantiere di Castellammare si era specializzato nella costruzione di
grosse unità.
Nel 1876 si vide commissionare la corazzata Italia (varata nel 1880), nel 1881
la Ruggiero di Lauria (varata nel 1884), nel 1884 la corazzata Re Umberto
(varata nel 1888), nel 1888 l’incrociatore Partenope (varato nel 1889), nel
1889 gli incrociatori Euridice e Iride (varati nel 1890 e 1891), nel 1890 gli
arieti corazzati Marco Polo e Elba (varati nel 1892 e nel 1893), nel 1892
l’incrociatore corazzato Vettor Pisani (varato nel 1895), nel 1893 la corazzata
Emanuele Filiberto (varata nel 1897), nel 1899 la corazzata Benedetto Brin
(varata nel 1901), che segnò l’inizio di un rinnovamento della flotta e quindi
di nuove commesse. Nel 1904 fu varata la corazzata Vittorio Emanuele, nel
1905 la corazzata Napoli, nel 1905 gli incrociatori corazzati San Giorgio e San
Marco, nel 1910 la corazzata Dante Alighieri, nel 1911 l’esploratore Bixio, nel
1912 l’esploratore Marsala. Nel 1912 fu impostata la Duilio che forse, con la
gemella Andrea Doria, fu una nelle navi che ha servito per più tempo nella
nostra marina.
La corazzata Duilio da 22.964 ton.ed armata con 13 cannoni da 305, varata
nel 1913, entrò in servizio nel 1915 in tempo per partecipare alla prima
guerra mondiale. Nel 1937 fu sottoposta ad imponenti lavori di
rimodernamento rientrando in servizio solo il 1° giugno del 1940 .
Nel corso della seconda guerra mondiale ebbe un’intensa attività operativa
con 41 missioni e 13mila miglia percorse.
Fu colpita nell’attacco a Taranto del 1940 restando inattiva per 5 mesi.
Il trattato di pace che decimò la nostra Flotta, lasciò all’Italia la Duilio e la
Doria che rimasero in servizio fino al 1956.
Poi nel 1914 il Cantiere costruì due incrociatori leggeri per servizi coloniali: il
Campania e il Basilicata e la grande corazzata Caracciolo.
La prima guerra mondiale portò numerose forniture statali all’Amstrong di
Pozzuoli, all’ILVA di Bagnoli ed alla Bacini e Scali.
I Cantieri Pattison costruirono 17 unità durante il periodo bellico.
Il cantiere Mainelli di San Giovanni a Teduccio varò tre Mas, il Cantiere
Amendola di Napoli due, il cantiere Bonifacio di Castellammare quattro, il
cantiere Casamatti di Napoli tre, il cantiere Donnarumma di Castellammare
due.
Il Regio Cantiere di Castellammare non ebbe commesse di grandi unità, ma
lavorò a pieni ritmo per la costruzione e l’allestimento di unità minori,
riuscendo comunque a mantenere i suoi 5.000 operai.
La fine della guerra provocò gravi conseguenze sull’industria cantieristica
nazionale. Innanzitutto si interruppero bruscamente le commesse di unità
militari, poi ci fu la caduta dei noli marittimi che ebbe riflessi anche sulle
commesse della marina mercantile.
Enormi furono anche i problemi che vennero per il ricongiungimento all’Italia
della Venezia Giulia.
L’Impero Austriaco aveva effettuato grossi investimenti sui sei grandi cantieri
a Monfalcone, Trieste, Pola e Fiume, che avevano 14.000 dipendenti e un
potenziale di 310mila tonnellate annue, quando tutti gli altri cantieri italiani
potevano produrre 500mila tonnellate.
Inoltre il cantiere di Monfalcone era il più moderno del Mediterraneo.
Un ulteriore danno alla cantieristica venne dal Trattato di Washington del
1922, che stabilì dei limiti alla consistenza della flotte militari per evitare una
nuova corsa agli armamenti.
Fu stabilito che le Marine militari di Stati Uniti e Gran Bretagna non
oltrepassassero le 525mila ton., quella del Giappone le 315mila ton., quelle di
Italia e Francia le 175mila ton.
La prima vittima di questo trattato fu proprio il cantiere di Castellammare, che
il 12 maggio 1920 aveva finalmente varato, dopo quasi sei anni, la corazzata
“Caracciolo” (da 34.000 ton, 8 cannoni da 381 e un apparato motore da 93.000
hp), capoclasse di 4 unità.
Le altre tre navi, tutte impostate nel 1915, erano la Colombo nei cantieri
Ansaldo di Genova, la Marcantonio Colonna nel cantiere Odero di Genova e
la Morosini nel Cantiere Orlando di Livorno .
Mentre per queste ultime tre la costruzione fu annullata mentre i lavori erano
ancora allo stato iniziale, per la Caracciolo furono sospesi nel marzo 1916, ma
ripresi nell’ottobre 1919.
Al varo la Caracciolo era la più grande nave da battaglia italiana, ma le
difficoltà finanziarie e le clausole, di cui si stava già discutendo a
Washington, ne decretarono la fine prematura.
Lo scafo fu rimorchiato subito a La Spezia.
Si pensava di trasformarla in portaerei ma poi lo stesso progettista, il
generale Ferrati, approntò uno studio per la sua trasformazione in nave
mercantile.
La Società di navigazione Italia acquistò lo scafo il 25 ottobre del 1920, ma
anche questo progetto non venne realizzato e la “Caracciolo” fu mestamente
avviata alla demolizione.
Il Cantiere di Castellammare era intanto agitato negli anni tra il 1918 e il 1921,
più di altri stabilimenti, da scioperi ed occupazioni.
Nel 1919 il ministro Sechi progettò di cedere all’industria privata sia il
Cantiere di Castellammare che l’Arsenale di Napoli.
L’avvento del Fascismo portò un po’ d’ordine nel disastrato panorama della
cantieristica .
L’Italia aveva perduto per cause belliche 900.000 ton.di navi a propulsione
meccanica e 100.000 di naviglio a vela, ma, dopo aver rimpiazzare le perdite,
le prospettive erano nerissime per il crollo verticale dei noli.
Il governo intervenne con una legge del 1926 che concedeva mutui agevolati
per le nuove costruzioni e poi, malgrado la terribile crisi economica
internazionale del ’29, la costituzione nel 1930 dell’Istituto per il Credito
Navale consentì una graduale ripresa del settore.
Nel frattempo nel 1924 si chiudeva un’altra vicenda che si era aperta subito
dopo l’annessione di Napoli al Regno d’Italia: quella dell’Arsenale di Napoli.
Era stato Murat che per primo aveva fatto eseguire degli studi sulle
potenzialità di Taranto come base navale e sede di Arsenale al posto di
Napoli, troppo decentrato rispetto alle rotte del Mediterraneo e non
agevolmente difendibile in quanto incastonato in un’area densamente
popolata.
Fu proprio un napoletano, il Vice Ammiraglio barone Ferdinando Acton
(nipote di John Acton fondatore della marina borbonica), che diede il via nel
1881 alla proposta di costruire un nuovo arsenale a Taranto, che avrebbe
dovuto sostituire nel tempo sia l’arsenale di Napoli che il cantiere di
Castellammare e che sarebbe dovuto diventare anche sede del dipartimento
marittimo.
Portata in parlamento, tale proposta suscitò un vespaio di proteste da parte dei
deputati napoletani che contestavano la validità di tali scelte.
Alla fine si giunse nel 1882 ad una legge che, pur istituendo un nuovo
Arsenale a Taranto, salvava per il momento sia quello di Napoli che il
Cantiere di Castellammare.
Per accontentare tutti, i dipartimenti marittimi passarono provvisoriamente da
tre (La Spezia, Napoli e Venezia) a quattro, aggiungendo Taranto, e tali sono
rimasti fino al 1° febbraio 1999, quando dopo più di cento anni quello di
Napoli è stato abolito.
Tra l’altro, sulla difendibilità della base di Taranto ci sarebbe, con il senno di
poi, molto da ridire visto che proprio all’inizio dell’ultima guerra, nella notte
tra l’11 e il 12 novembre 1940, gli inglesi violarono la base di Taranto
mettendo fuori combattimento definitivamente la corazzata Cavour e
togliendo di scena per tre mesi altre due corazzate Duilio e Vittorio Veneto.
In seguito al rovinoso attacco la squadra navale fu spostata a Napoli…
L’Arsenale di Napoli, che - giova ricordare - era stato fondato nel 1577 dal
viceré spagnolo Don Giovanni Zunica, aveva impiegato a fine settecento 1340
operai più 350 forzati (allora si usava far lavorare i detenuti) e a fine ottocento
dava lavoro a ben 2.300 operai.
Con Legge del 24 giugno 1923 fu chiuso l’Arsenale di Napoli.
Fu una decisione dolorosa ma inevitabile anche perché l’area era in pieno
centro urbano, a ridosso del Palazzo Reale, senza nessuna possibilità di
espansione.
Il Governo fece prevalere l’interesse della nazione che esigeva una
razionalizzazione degli opifici miliari .
D’altro canto la politica di grandi opere pubbliche, anche a Napoli, e le
prospettive che venivano ad aprirsi per la città con il progettato sviluppo della
politica industriale e coloniale, permise il riassorbimento di quella parte delle
forze di lavoro che non rimase in servizio nella Base Navale.
Fu così liberata una grossa area che in parte rimase, con la darsena, al porto
militare, che fu anzi potenziato con la costruzione tra il 1925 e il 1932 della
cosiddetta “Casermetta dei Sommergibili” che ospitava non solo uffici e
camerate, ma anche locali per la manutenzione e l’armamento delle unità
subacquee.
Riguardo ai siluri si ricorda che a Baia si era installata sin dal 1914 la fabbrica
di siluri “Società Anonima Italiana Whitehead”, in seguito rilevata dal
“Silurificio Italiano”.
Presso la Base Navale di Napoli era pure previsto che si potessero effettuare
lavori diversi, come la trasformazione del naviglio mercantile requisito,
l’allestimento di Navi Ospedale, di trasporto truppe, ecc., e nel secondo
conflitto mondiale essa dimostrò in pieno tali capacità, svolgendo un lavoro di
enorme importanza sia come sostegno logistico che come capolinea dei
convogli per il teatro di guerra libico.
Al momento della sua abolizione l’Arsenale Napoletano ricopriva un’area di
circa 200mila mq e le banchine si sviluppavano per oltre 1.000 metri.
Anche alcuni locali sotto la via Cesario Console e sotto il Palazzo Reale erano
in uso alla struttura.
Un’altra parte dell’area dimessa fu data alla città con una convenzione tra il
Comune di Napoli, il Demanio e la Regia Marina. Si poteva così porre in
esecuzione un progetto comunale che prevedeva la destinazione di una parte
dell’area a giardini pubblici (gli attuali giardinetti del Molosiglio).
Era prevista anche una nuova strada, che fu intitolata all’ammiraglio
Ferdinando Acton (fratello minore di Guglielmo Acton), destinando a tale
scopo una striscia di 15 metri, ottenuta anche con interramento di una parte
dello specchio d’acqua della Darsena.
Iniziò nel 1927 la demolizione degli antichi capannoni seicenteschi, mentre
contemporaneamente alla costruzione della strada fu realizzata a tempo di
record, dal 1927 al 1929, dall’Alto Commissario per Napoli la Galleria
Vittoria, che mise finalmente in comunicazione la parte est con quella ovest
della città .
Nella lungimirante e concreta politica urbanistica attuata in quegli anni ci fu
anche, in conseguenza, la sistemazione delle aree adiacenti e soprattutto quella
del Maschio Angioino.
La più bella reggia quattrocentesca d’Europa era assediata da un informe
agglomerato di edifici e di tettoie in cui erano stati via via ospitati: l’ Arsenale
di Artiglieria, le fonderie, la sala d’armi e persino un panificio, al punto che si
era progettato di togliere e rimontare in un altro luogo della città il magnifico
arco trionfale di Alfonso d’Aragona. Liberato da tutte le costruzioni che lo
soffocavano, ripristinato il fossato e la merlatura, il Castello fu riportato alla
sua forma migliore affacciandosi sulla grandissima piazza.
Ritornando al settore della cantieristica in Campania intorno al 1930, il quadro
era così definito:
- a Castellammare operavano il Regio Cantiere con 2300 operai ed i
cantieri minori Bixio, Bonifacio e Pozzano.
- a Napoli oramai anche i cantieri Pattison erano entrati in crisi, confluendo
nel 1931, insieme alla Bacini & Scali Napoletani, nella Società Officine
& Cantieri Partenopei gestita dal gruppo Ansaldo.
La cantieristica, malgrado le provvidenze governative, continuava ad avere
una vita difficile sempre perseguitata dall’eccesso di offerta rispetto alla
domanda. I cantieri giuliani, più efficienti, facevano la parte del leone,
aggiudicandosi le maggiori commesse e ponendo quindi in difficoltà gli altri.
Preoccupato per i risvolti sociali sulla occupazione e per il deperimento di un
settore considerato strategico, lo Stato fascista intervenne e, tramite l’IRI -
Istituto della Ricostruzione Industriale, prese sotto il suo ombrello protettivo
l’industria cantieristica.
Comunque in quegli anni la marineria Italiana collezionava delle prestigiose
affermazioni.
Il grande Transatlantico REX, varato nel 1931, conquistò l’11 agosto 1933
l’ambito “ nastro azzurro”, viaggiando da Gibilterra a New York in 4 giorni,
13 ore e 58 minuti alla media di 29 nodi.
Altre navi prestigiose furono varate in quegli anni: il Conte di Savoia, la
Vittoria, la Nettunia.
Napoli fu in quegli anni un grande porto e, quando si avviò prima la
colonizzazione della Libia e poi l’impresa etiopica, fu il naturale capolinea dei
traffici che ne derivavano.
A Napoli venne fondata la Navalmeccanica S.p.A., società del gruppo IRI che
incorporò le Officine & Cantieri Partenopei, il Cantiere di Vigliena, le
Officine Meccaniche e Fonderie (ex Hawthon e Guppy) e il cantiere navale di
Castellammare.
Il Cantiere comunque per tutti gli anni ’30, anche se non lavorò a pieno ritmo,
costruì, oltre alla cisterna Tarvisio (1927), l’incrociatore Giovanni dalle Bande
Nere da 5.334 t, che con i suoi 95mila hp sviluppò alle prove la velocità di 42
nodi, straordinaria per un incrociatore.
L’incrociatore Giovanni dalle
Bande Nere, della classe Alberto da
Giussano, composta da quattro
unità, partecipò attivamente al
secondo conflitto mondiale. Andò
perduto il 1 aprile 1942 al largo di
Stromboli, silurato dal sottomarino
britannico Urge.
Le costruzioni che diedero più fama
al Cantiere e lo rendono anche oggi
conosciuto ed ammirato in tutto il
mondo furono quelle delle due navi
scuola: Cristoforo Colombo (varata nel 1930) e Amerigo Vespucci (varata nel
1931).
La Colombo, centesima costruzione dell’allora Regio Cantiere, fu impostata il
15 aprile del 1926 con il nome Patria, fu varata il 4 aprile 1928 ed entrò in
servizio il successivo 1° luglio. Fu progettata dal tenente colonnello del genio
navale Francesco Rotondi, che prese a modello l’ultimo vascello costruito in
Italia, quel Monarca impostato proprio a Castellammare nel 1846 e varato nel
1850.
Le somiglianze tra le due unità sono molte. Il dislocamento del Monarca era
di 3.669 t contro 3.513 t del Colombo; pressoché identica la larghezza (15,5
m). L’altezza era di 6,7 m nel vascello borbonico contro 7 m della più
moderna unità. La lunghezza dello scafo al netto del bompresso era di 58 m
per il Monarca e di 70 m per il Colombo, differenza dovuta ai diversi materiali
utilizzati per lo scafo (in legno con carena ramata per il Monarca e acciaio per
il Colombo). Identica l’attrezzatura velica con tre alberi (maestra, trinchetto e
mezzana) ed un bompresso.
L’armamento originale per il vascello borbonico era costituito da 50 cannoni
da 30 libbre, 28 obici Paixhans da 30 libbre e 6 cannoni da 60 libbre.
Varo dell'incrociatore Giovanni dalle Bande
Nere (27 aprile 1930)
La Colombo svolse la sua attività come nave scuola fino al 1943, effettuando
9 campagne addestrative in Mediterraneo, Atlantico e Nord Europa.
Purtroppo, con il trattato di pace nel 1949 fu ceduta all’Unione Sovietica
come risarcimento per danni di guerra insieme alla corazzata Cavour,
all’incrociatore Duca d’Aosta ed altre unità minori.
La bella unità, a cui fu posta la sigla Z 18, fu consegnata ad Odessa il 3
marzo 1949. Fu ribattezzata Dunaj (Danubio in russo) ed utilizzata come
nave scuola ad Odessa. Nel 1960 la Marina Russa la cedette all’Istituto
nautico di Odessa, ma in attesa di lavori di manutenzione che non vennero
mai effettuati, fu adibita al trasporto di legna. Nel 1963 fu vittima di un grave
incendio e restò abbandonata e semidistrutta fino al 1971, quando fu demolita
nel Cantiere Glavvtorcement delle isole Tutukhannye presso Leningrado
(l’attuale San Pietroburgo).
La nave Vespucci fu invece impostata nel 1930 e varata il 22 febbraio del
1931, nel giorno anniversario della morte del navigatore (22 febbraio 1522),
alla presenza delle autorità militari e di cento marinaretti dell’Opera Nazionale
Balilla giunti da Napoli sulla
nave Brenta.
È stata sin dall’inizio destinata
all’istruzione degli Ufficiali della
Marina e nel corso delle sue
Campagne addestrative ha
toccato i porti di mezzo mondo. È
attualmente la nave più anziana
tra quelle in servizio nella Marina
Militare, che nel giugno 2006 ha
voluto festeggiare proprio a
Castellammare il 75° compleanno
della unità, giustamente definita
“ la nave più bella del mondo”.
Vogliamo anche ricordare che
poco prima della guerra, il 3 aprile 1939, fu impostato a Castellammare
l’incrociatore leggero Giulio Germanico da 5.334 t che fu varato il 12 gennaio
Varo nave Amerigo Vespucci (22 febbraio 1931)
1941. Lo scafo ancora incompleto fu affondato nel settembre 1943 durante
l’occupazione del Cantiere da parte delle Forze Armate Tedesche.
L’incrociatore Giulio Germanico faceva parte della classe Capitani Romani,
che doveva comprendere 12 unità di cui però solo 3 unità furono completate
(l’Attilio Regolo, lo Scipione Africano e il Pompeo Magno).
Al momento dell’armistizio altre 4 unità (Germanico, Silla, Augusto e Caio
Mario) furono catturate incomplete dai tedeschi.
Il Traiano fu affondato durante l’allestimento, mentre Druso, Tiberio, Paolo
Emilio e Agrippa furono smantellati prima del completamento.
Il Silla fornì il suo apparto motore da 110.000 hp alla portaerei Aquila.
Dopo la guerra il Regolo e lo Scipione furono ceduti alla Francia, che, con il
nome di Chateaurenault e Guichen, li tenne in servizio fino agli anni 70.
Il Pompeo Magno e il Giulio Germanico, recuperati dal Cantiere di
Castellammare, furono ricostruiti nel 1950-1956 come caccia conduttori e
con il nome di San Giorgio e San Marco prestarono servizio nella Marina
rispettivamente fino al 1980 e
1971.
Nel dopoguerra il Cantiere,
ricostruito dopo le devastazioni
subite, riprese la costruzioni di
navi con la Salernum (1953).
Sempre nel 1953 ci fu il
prestigioso incarico di
assemblare ed assistere nelle
prove in mare il batiscafo
Trieste per lo scienziato
Auguste Piccard, che tuttora detiene con 10.900 metri il record mondiale di
immersione, conquistato il 23 gennaio 1960 nella Fossa delle Marianne.
Nel 1962 fu varato l’incrociatore Caio Duilio e nel 1967 l’incrociatore Vittorio
Veneto. Il cacciatorpediniere Ardito fu l’ultima nave militare varata nel 1971 a
Castellammare.
Dopo di allora il Cantiere si è specializzato nella costruzione di traghetti.
Attualmente fa parte della Fincantieri S.p.A. ed occupa (nel 2006) circa 600
persone.
Il presidente Gronchi in visita al cantiere nel 1956
(Da sinistra: l’on.Silvio Gava, il pres. Giovanni Gronchi, l’avv.
Giorgio Tupini, presidente della Navalmeccanica. Ultimo a destra
il direttore generale della Navalmeccanica, ing. Manlio Perrotta)
Tratto da.
ISTITUTO DI STUDI STORICI
ECONOMICI E SOCIALI
Atti del Convegno di Studi Storici
tenutosi a Napoli il 28 febbraio 2008
NAPOLI
TRA LE DUE
GUERRE
della regina di Napoli Maria Carolina, moglie di Ferdinando IV (che regnò
dal 1759 al 1825) la quale, su suggerimento del fratello, Giuseppe II
imperatore d’Austria, impose al Re un totale rinnovamento della marina da
guerra del regno.
La Regina chiese al fratello Leopoldo, Granduca di Toscana, di inviargli un
ufficiale che potesse fare ciò.
Giunse così a Napoli nel 1778 John Francis Edward Acton, francese di nascita
ma di origine irlandese, che, dopo aver prestato servizio nella marina francese,
era al servizio del Granduca e si era distinto nella spedizione spagnola-toscana
contro Algeri del 1775.
Nominato Direttore della Real Segreteria di Marina approntò un ambizioso
programma di costruzioni navali (7 vascelli da 74 cannoni, 4 fregate da 32
cannoni, 4 sciabecchi oltre a vario naviglio sottile) che avrebbe posto il Regno
tra le potenze marittime del Mediterraneo.
Il programma fu approvato da Ferdinando, anche se poi non fu del tutto
realizzato, ma come conseguenza, pensando che l’Arsenale di Napoli fosse
insufficiente e che ci fosse bisogno di un nuovo grande cantiere, l’Acton
identificò in Castellammare il luogo dove questo doveva sorgere, per i
seguenti motivi :
- i boschi di proprietà demaniale di Quisisana garantivano il legname,
- le acque minerali permettevano il trattamento dei legni,
- la distanza da Napoli era solo di tre ore di carrozza.
I lavori per approntare il cantiere iniziarono nel 1784 e già nel 1786 fu varato
il primo vascello: il Partenope da 58 cannoni e 680 uomini di equipaggio.
Il cantiere all’epoca impiegava 430 unità.
Fino al 1795 furono costruiti altri 5 vascelli e sei corvette.
Sei fregate classe Minerva furono invece realizzate nell’Arsenale di Napoli.
Tutte queste unità utilizzavano manufatti prodotti dalla Real Fabbrica d’Armi
di Torre Annunziata.
Alla fine del ‘700 la Marina Napoletana costituiva una realtà di tutto rispetto
operando in alleanza con gli inglesi.
Le sorti della guerra portata in Italia dai Francesi ebbero come conseguenza a
Napoli la costituzione dell’effimera Repubblica Partenopea (dal 23 gennaio al
13 giugno del 1799), ma per la Marina la perdita di gran parte della flotta,
incendiata nella notte dell’8 gennaio 1799 per evitarne la cattura da parte dei
francesi.
Bruciarono 4 vascelli, una fregata, una corvetta e un’ottantina di unità minori,
mentre a Castellammare veniva affondato il Partenope.
Nel successivo decennio francese (1806-1815) ci fu un ulteriore
potenziamento del cantiere.
Alla restaurazione la Marina andò momentaneamente in ombra, per quanto
una nave di 150 ton., varata in un cantiere a Vigliena il 24 giugno 1818, la
“Ferdinando I” con una macchina inglese da 50 CV, fu la prima nave a vapore
del Mediterraneo.
Fu solo nel 1830, con l’avvento al trono di Ferdinando II, che il Regno delle
due Sicilie, sia pure in ritardo rispetto ad altri stati europei, cominciò a dotarsi
di un apparato industriale.Il cantiere di Castellammare di Stabia nella seconda metà del XIX secolo
Nel campo della cantieristica Castellammare e l’Arsenale di Napoli erano i
due unici opifici in grado di costruire navi, mentre Palermo e Messina
svolgevano solo lavori di raddobbo.
A Napoli al Castel Nuovo era la Real Fonderia dei cannoni e a Torre
Annunziata la Real Fabbrica d’armi.
Fuori della Campania c’era un solo stabilimento: la “Fonderia della
Mongiana” che sfruttava alcune miniere di ferro in Calabria.
Per dotare il regno di una grande industria metalmeccanica, Ferdinando II fece
impiantare dal 1840 a Pietrarsa nel comune di Portici un opificio che ebbe un
grande sviluppo eguagliando come importanza le Officine Ansaldo di
Sanpierdarena.
Altri stabilimenti privati sorsero nel Regno Borbonico: la Zino & Herry e la
Guppy fondata da due industriali inglesi, Thomas Guppy di Bristol e John
Pattison di Newcastle upon Tyne.
Parallelamente alla costruzione delle navi a vapore (che dapprima montavano
macchine inglesi e poi, a partire dalla pirofregata a ruote “Fieramosca”, furono
equipaggiate con motori prodotti a Pietrarsa), continuavano ad essere varate
navi a vela.
La realizzazione più importante fu il grande vascello da 80 cannoni
“Monarca”. Progettato dal Brigadiere Sabatelli, fu il più grande veliero mai
costruito in Italia. Stazzava 3.669 ton., aveva tre alberi a vele quadre e un
equipaggio di 976 uomini. Ribattezzato nel 1860 “Re Galantuomo” ricevette
un motore di 1.351 hp.
Fu radiato del 1875 dopo aver anche partecipato alla battaglia di Lissa.
Sessant’anni dopo il Cantiere di Castellammare mise sugli scali due unità
estremamente simili nell’aspetto al “Monarca”, anche se con lo scafo in ferro:
il Colombo e l’Amerigo Vespucci.
Il Monarca fu protagonista di una episodio emblematico, nel clima di
generale sfascio che caratterizzò la fine della marina del Regno di Napoli.
Ad agosto del 1860 Garibaldi, oramai padrone della Sicilia, era entrato in
possesso, per tradimento del suo comandante barone Anguissola, della nave
Borbonica “Veloce” (una pirofregata a ruote di 972 ton.). Quindi progettò
un’azione corsara: inviare la nave, ribattezzata “Tukery”, a Castellammare
di Stabia per impadronirsi del vascello Monarca, che era lì in allestimento e
il cui comandante Vacca, tramite l’ammiraglio inglese (sempre loro!), aveva
fatto sapere che avrebbe consegnato la nave senza opporre resistenza.
Il Tukery partì da Messina con a bordo due compagnie di bersaglieri e a
mezzanotte del 13 agosto a luci spente affiancò il Monarca. Ma il traditore
Vacca prudentemente non era a bordo e il suo secondo Tenente di Vascello
Guglielmo Acton (nipote del fondatore della marina borbonica), nulla
sapendo delle trame del suo superiore, aveva fatto spostare la nave, che ora
era ben difficile da prendere a rimorchio.
Inoltre le sentinelle diedero l’allarme. I marinai respinsero il maldestro
tentativo di arrembaggio dei bersaglieri, i cannoni del Forte cominciarono a
sparare. Il Tukery riuscì a stento a fuggire e subì 7 morti e 11 feriti.
Anche l’Acton fu ferito e per la sua azione risoluta fu ricevuto dal Re
Francesco che lo promosse Capitano di Vascello e lo insignì della Croce di
Cavaliere dell’Ordine Militare di San Ferdinando.
Tutto questo non impedì dopo poche settimane, il 9 settembre, a Guglielmo
Acton di giurare fedeltà a Vittorio Emanuele a bordo della pirofregata sarda
Maria Adelaide nel porto di Napoli.
Partecipò all’assedio di Gaeta e di Messina e fece una luminosa carriera.
Ministro della Marina nel Gabinetto Lanza del 1871, fu nel 1979 anche Capo
di Stato Maggiore della Marina…
Alla fine del Regno nel 1860 Napoli aveva sul suo territorio un complesso di
industrie navali che senz’altro erano all’avanguardia in Italia.
Al momento dell’unità a Castellammare lavoravano 1.800 operai, all’Arsenale
di Napoli 1.600, a Genova 1.200, a Livorno 390, ad Ancona 60.
L’abolizione delle varie tariffe doganali fu devastante per l’industria
meridionale.
Il Governo rivolse le sue cure agli stabilimenti di Genova e di Livorno, ma
nonostante tutto nel 1869 fu fondato un cantiere a Pozzuoli , nel 1870 uno a
Baia e nel 1875 uno a Procida.
Lo Stabilimento di Pietrarsa fu dismesso dallo Stato e dato in fitto per 20 anni
alla Società Mecry, Henry & C., che però dopo qualche anno abbandonò la
produzione di motori marini e si dedicò alle costruzioni ferroviarie.
Rimasero attivi anche lo stabilimento della Guppy con 600 addetti e i cantieri
navali Pattison.
Anche in penisola sorrentina, dove vi era una antica tradizione marinara, negli
anni tra il 1860 e il 1870 furono costruite diverse piccole unità ad Alimuri,
Meta, Cassano ed Equa.
Ma già nel 1880 erano rimasti attivi solo Castellammare e Cassano (Piano di
Sorrento).
Comunque nettamente preminente fu il Regio Cantiere di Castellammare che,
trasformando la sua produzione dal legno al ferro, continuò malgrado tutto la
sua attività per la costruzione di navi.
Nel 1861 fu varata la fregata Italia e poi le corvette Etna (1862) e Caracciolo
(1869), la fregata ad elica Gaeta (1863), la pirofregata corazzata Messina
(1864) e i piroscafi Ischia, Marittimo, Gorgonia, Tremiti, Tino (1867).
La sconfitta di Lissa del 1866 indusse il Governo a potenziare la flotta militare
ed ad assegnare commesse di nuove unità.
Nel 1872 fu varata un’altra pirofregata corazzata, la Principe Amedeo, che, per
la prima volta dall’unità, montò un apparato motore costruito dall’industria
nazionale, per la precisione dalle Industrie Meccaniche Napoletane di
Pietrarsa.
Nel 1873 venne impostata a Castellammare la corazzata Duilio, che insieme
alla gemella Dandolo, costruita nell’Arsenale di La Spezia, fu una nave
estremamente innovativa per l’epoca.
Il progetto, dovuto al Direttore del Genio Navale Benedetto Brin (che fu poi
Ministro della Marina e Ministro degli Esteri), prevedeva un possente
armamento: 4 cannoni da 450 mm a torri e con un ridotto centrale, una
corazzatura in acciaio e non più in ferro ed una notevole velocità per l’epoca
(15 nodi).
Le due navi ebbero una costruzione lenta per le continue modifiche, ma alla
fine, quando nel 1880 entrarono in servizio, furono unanimemente
riconosciute come le più potenti unità dell’epoca ed aprirono una nuova era.
L’Inghilterra ne fu allarmata e subito impostò le unità della classe Inflexible,
molto simili alla Duilio.
Oramai il cantiere di Castellammare si era specializzato nella costruzione di
grosse unità.
Nel 1876 si vide commissionare la corazzata Italia (varata nel 1880), nel 1881
la Ruggiero di Lauria (varata nel 1884), nel 1884 la corazzata Re Umberto
(varata nel 1888), nel 1888 l’incrociatore Partenope (varato nel 1889), nel
1889 gli incrociatori Euridice e Iride (varati nel 1890 e 1891), nel 1890 gli
arieti corazzati Marco Polo e Elba (varati nel 1892 e nel 1893), nel 1892
l’incrociatore corazzato Vettor Pisani (varato nel 1895), nel 1893 la corazzata
Emanuele Filiberto (varata nel 1897), nel 1899 la corazzata Benedetto Brin
(varata nel 1901), che segnò l’inizio di un rinnovamento della flotta e quindi
di nuove commesse. Nel 1904 fu varata la corazzata Vittorio Emanuele, nel
1905 la corazzata Napoli, nel 1905 gli incrociatori corazzati San Giorgio e San
Marco, nel 1910 la corazzata Dante Alighieri, nel 1911 l’esploratore Bixio, nel
1912 l’esploratore Marsala. Nel 1912 fu impostata la Duilio che forse, con la
gemella Andrea Doria, fu una nelle navi che ha servito per più tempo nella
nostra marina.
La corazzata Duilio da 22.964 ton.ed armata con 13 cannoni da 305, varata
nel 1913, entrò in servizio nel 1915 in tempo per partecipare alla prima
guerra mondiale. Nel 1937 fu sottoposta ad imponenti lavori di
rimodernamento rientrando in servizio solo il 1° giugno del 1940 .
Nel corso della seconda guerra mondiale ebbe un’intensa attività operativa
con 41 missioni e 13mila miglia percorse.
Fu colpita nell’attacco a Taranto del 1940 restando inattiva per 5 mesi.
Il trattato di pace che decimò la nostra Flotta, lasciò all’Italia la Duilio e la
Doria che rimasero in servizio fino al 1956.
Poi nel 1914 il Cantiere costruì due incrociatori leggeri per servizi coloniali: il
Campania e il Basilicata e la grande corazzata Caracciolo.
La prima guerra mondiale portò numerose forniture statali all’Amstrong di
Pozzuoli, all’ILVA di Bagnoli ed alla Bacini e Scali.
I Cantieri Pattison costruirono 17 unità durante il periodo bellico.
Il cantiere Mainelli di San Giovanni a Teduccio varò tre Mas, il Cantiere
Amendola di Napoli due, il cantiere Bonifacio di Castellammare quattro, il
cantiere Casamatti di Napoli tre, il cantiere Donnarumma di Castellammare
due.
Il Regio Cantiere di Castellammare non ebbe commesse di grandi unità, ma
lavorò a pieni ritmo per la costruzione e l’allestimento di unità minori,
riuscendo comunque a mantenere i suoi 5.000 operai.
La fine della guerra provocò gravi conseguenze sull’industria cantieristica
nazionale. Innanzitutto si interruppero bruscamente le commesse di unità
militari, poi ci fu la caduta dei noli marittimi che ebbe riflessi anche sulle
commesse della marina mercantile.
Enormi furono anche i problemi che vennero per il ricongiungimento all’Italia
della Venezia Giulia.
L’Impero Austriaco aveva effettuato grossi investimenti sui sei grandi cantieri
a Monfalcone, Trieste, Pola e Fiume, che avevano 14.000 dipendenti e un
potenziale di 310mila tonnellate annue, quando tutti gli altri cantieri italiani
potevano produrre 500mila tonnellate.
Inoltre il cantiere di Monfalcone era il più moderno del Mediterraneo.
Un ulteriore danno alla cantieristica venne dal Trattato di Washington del
1922, che stabilì dei limiti alla consistenza della flotte militari per evitare una
nuova corsa agli armamenti.
Fu stabilito che le Marine militari di Stati Uniti e Gran Bretagna non
oltrepassassero le 525mila ton., quella del Giappone le 315mila ton., quelle di
Italia e Francia le 175mila ton.
La prima vittima di questo trattato fu proprio il cantiere di Castellammare, che
il 12 maggio 1920 aveva finalmente varato, dopo quasi sei anni, la corazzata
“Caracciolo” (da 34.000 ton, 8 cannoni da 381 e un apparato motore da 93.000
hp), capoclasse di 4 unità.
Le altre tre navi, tutte impostate nel 1915, erano la Colombo nei cantieri
Ansaldo di Genova, la Marcantonio Colonna nel cantiere Odero di Genova e
la Morosini nel Cantiere Orlando di Livorno .
Mentre per queste ultime tre la costruzione fu annullata mentre i lavori erano
ancora allo stato iniziale, per la Caracciolo furono sospesi nel marzo 1916, ma
ripresi nell’ottobre 1919.
Al varo la Caracciolo era la più grande nave da battaglia italiana, ma le
difficoltà finanziarie e le clausole, di cui si stava già discutendo a
Washington, ne decretarono la fine prematura.
Lo scafo fu rimorchiato subito a La Spezia.
Si pensava di trasformarla in portaerei ma poi lo stesso progettista, il
generale Ferrati, approntò uno studio per la sua trasformazione in nave
mercantile.
La Società di navigazione Italia acquistò lo scafo il 25 ottobre del 1920, ma
anche questo progetto non venne realizzato e la “Caracciolo” fu mestamente
avviata alla demolizione.
Il Cantiere di Castellammare era intanto agitato negli anni tra il 1918 e il 1921,
più di altri stabilimenti, da scioperi ed occupazioni.
Nel 1919 il ministro Sechi progettò di cedere all’industria privata sia il
Cantiere di Castellammare che l’Arsenale di Napoli.
L’avvento del Fascismo portò un po’ d’ordine nel disastrato panorama della
cantieristica .
L’Italia aveva perduto per cause belliche 900.000 ton.di navi a propulsione
meccanica e 100.000 di naviglio a vela, ma, dopo aver rimpiazzare le perdite,
le prospettive erano nerissime per il crollo verticale dei noli.
Il governo intervenne con una legge del 1926 che concedeva mutui agevolati
per le nuove costruzioni e poi, malgrado la terribile crisi economica
internazionale del ’29, la costituzione nel 1930 dell’Istituto per il Credito
Navale consentì una graduale ripresa del settore.
Nel frattempo nel 1924 si chiudeva un’altra vicenda che si era aperta subito
dopo l’annessione di Napoli al Regno d’Italia: quella dell’Arsenale di Napoli.
Era stato Murat che per primo aveva fatto eseguire degli studi sulle
potenzialità di Taranto come base navale e sede di Arsenale al posto di
Napoli, troppo decentrato rispetto alle rotte del Mediterraneo e non
agevolmente difendibile in quanto incastonato in un’area densamente
popolata.
Fu proprio un napoletano, il Vice Ammiraglio barone Ferdinando Acton
(nipote di John Acton fondatore della marina borbonica), che diede il via nel
1881 alla proposta di costruire un nuovo arsenale a Taranto, che avrebbe
dovuto sostituire nel tempo sia l’arsenale di Napoli che il cantiere di
Castellammare e che sarebbe dovuto diventare anche sede del dipartimento
marittimo.
Portata in parlamento, tale proposta suscitò un vespaio di proteste da parte dei
deputati napoletani che contestavano la validità di tali scelte.
Alla fine si giunse nel 1882 ad una legge che, pur istituendo un nuovo
Arsenale a Taranto, salvava per il momento sia quello di Napoli che il
Cantiere di Castellammare.
Per accontentare tutti, i dipartimenti marittimi passarono provvisoriamente da
tre (La Spezia, Napoli e Venezia) a quattro, aggiungendo Taranto, e tali sono
rimasti fino al 1° febbraio 1999, quando dopo più di cento anni quello di
Napoli è stato abolito.
Tra l’altro, sulla difendibilità della base di Taranto ci sarebbe, con il senno di
poi, molto da ridire visto che proprio all’inizio dell’ultima guerra, nella notte
tra l’11 e il 12 novembre 1940, gli inglesi violarono la base di Taranto
mettendo fuori combattimento definitivamente la corazzata Cavour e
togliendo di scena per tre mesi altre due corazzate Duilio e Vittorio Veneto.
In seguito al rovinoso attacco la squadra navale fu spostata a Napoli…
L’Arsenale di Napoli, che - giova ricordare - era stato fondato nel 1577 dal
viceré spagnolo Don Giovanni Zunica, aveva impiegato a fine settecento 1340
operai più 350 forzati (allora si usava far lavorare i detenuti) e a fine ottocento
dava lavoro a ben 2.300 operai.
Con Legge del 24 giugno 1923 fu chiuso l’Arsenale di Napoli.
Fu una decisione dolorosa ma inevitabile anche perché l’area era in pieno
centro urbano, a ridosso del Palazzo Reale, senza nessuna possibilità di
espansione.
Il Governo fece prevalere l’interesse della nazione che esigeva una
razionalizzazione degli opifici miliari .
D’altro canto la politica di grandi opere pubbliche, anche a Napoli, e le
prospettive che venivano ad aprirsi per la città con il progettato sviluppo della
politica industriale e coloniale, permise il riassorbimento di quella parte delle
forze di lavoro che non rimase in servizio nella Base Navale.
Fu così liberata una grossa area che in parte rimase, con la darsena, al porto
militare, che fu anzi potenziato con la costruzione tra il 1925 e il 1932 della
cosiddetta “Casermetta dei Sommergibili” che ospitava non solo uffici e
camerate, ma anche locali per la manutenzione e l’armamento delle unità
subacquee.
Riguardo ai siluri si ricorda che a Baia si era installata sin dal 1914 la fabbrica
di siluri “Società Anonima Italiana Whitehead”, in seguito rilevata dal
“Silurificio Italiano”.
Presso la Base Navale di Napoli era pure previsto che si potessero effettuare
lavori diversi, come la trasformazione del naviglio mercantile requisito,
l’allestimento di Navi Ospedale, di trasporto truppe, ecc., e nel secondo
conflitto mondiale essa dimostrò in pieno tali capacità, svolgendo un lavoro di
enorme importanza sia come sostegno logistico che come capolinea dei
convogli per il teatro di guerra libico.
Al momento della sua abolizione l’Arsenale Napoletano ricopriva un’area di
circa 200mila mq e le banchine si sviluppavano per oltre 1.000 metri.
Anche alcuni locali sotto la via Cesario Console e sotto il Palazzo Reale erano
in uso alla struttura.
Un’altra parte dell’area dimessa fu data alla città con una convenzione tra il
Comune di Napoli, il Demanio e la Regia Marina. Si poteva così porre in
esecuzione un progetto comunale che prevedeva la destinazione di una parte
dell’area a giardini pubblici (gli attuali giardinetti del Molosiglio).
Era prevista anche una nuova strada, che fu intitolata all’ammiraglio
Ferdinando Acton (fratello minore di Guglielmo Acton), destinando a tale
scopo una striscia di 15 metri, ottenuta anche con interramento di una parte
dello specchio d’acqua della Darsena.
Iniziò nel 1927 la demolizione degli antichi capannoni seicenteschi, mentre
contemporaneamente alla costruzione della strada fu realizzata a tempo di
record, dal 1927 al 1929, dall’Alto Commissario per Napoli la Galleria
Vittoria, che mise finalmente in comunicazione la parte est con quella ovest
della città .
Nella lungimirante e concreta politica urbanistica attuata in quegli anni ci fu
anche, in conseguenza, la sistemazione delle aree adiacenti e soprattutto quella
del Maschio Angioino.
La più bella reggia quattrocentesca d’Europa era assediata da un informe
agglomerato di edifici e di tettoie in cui erano stati via via ospitati: l’ Arsenale
di Artiglieria, le fonderie, la sala d’armi e persino un panificio, al punto che si
era progettato di togliere e rimontare in un altro luogo della città il magnifico
arco trionfale di Alfonso d’Aragona. Liberato da tutte le costruzioni che lo
soffocavano, ripristinato il fossato e la merlatura, il Castello fu riportato alla
sua forma migliore affacciandosi sulla grandissima piazza.
Ritornando al settore della cantieristica in Campania intorno al 1930, il quadro
era così definito:
- a Castellammare operavano il Regio Cantiere con 2300 operai ed i
cantieri minori Bixio, Bonifacio e Pozzano.
- a Napoli oramai anche i cantieri Pattison erano entrati in crisi, confluendo
nel 1931, insieme alla Bacini & Scali Napoletani, nella Società Officine
& Cantieri Partenopei gestita dal gruppo Ansaldo.
La cantieristica, malgrado le provvidenze governative, continuava ad avere
una vita difficile sempre perseguitata dall’eccesso di offerta rispetto alla
domanda. I cantieri giuliani, più efficienti, facevano la parte del leone,
aggiudicandosi le maggiori commesse e ponendo quindi in difficoltà gli altri.
Preoccupato per i risvolti sociali sulla occupazione e per il deperimento di un
settore considerato strategico, lo Stato fascista intervenne e, tramite l’IRI -
Istituto della Ricostruzione Industriale, prese sotto il suo ombrello protettivo
l’industria cantieristica.
Comunque in quegli anni la marineria Italiana collezionava delle prestigiose
affermazioni.
Il grande Transatlantico REX, varato nel 1931, conquistò l’11 agosto 1933
l’ambito “ nastro azzurro”, viaggiando da Gibilterra a New York in 4 giorni,
13 ore e 58 minuti alla media di 29 nodi.
Altre navi prestigiose furono varate in quegli anni: il Conte di Savoia, la
Vittoria, la Nettunia.
Napoli fu in quegli anni un grande porto e, quando si avviò prima la
colonizzazione della Libia e poi l’impresa etiopica, fu il naturale capolinea dei
traffici che ne derivavano.
A Napoli venne fondata la Navalmeccanica S.p.A., società del gruppo IRI che
incorporò le Officine & Cantieri Partenopei, il Cantiere di Vigliena, le
Officine Meccaniche e Fonderie (ex Hawthon e Guppy) e il cantiere navale di
Castellammare.
Il Cantiere comunque per tutti gli anni ’30, anche se non lavorò a pieno ritmo,
costruì, oltre alla cisterna Tarvisio (1927), l’incrociatore Giovanni dalle Bande
Nere da 5.334 t, che con i suoi 95mila hp sviluppò alle prove la velocità di 42
nodi, straordinaria per un incrociatore.
L’incrociatore Giovanni dalle
Bande Nere, della classe Alberto da
Giussano, composta da quattro
unità, partecipò attivamente al
secondo conflitto mondiale. Andò
perduto il 1 aprile 1942 al largo di
Stromboli, silurato dal sottomarino
britannico Urge.
Le costruzioni che diedero più fama
al Cantiere e lo rendono anche oggi
conosciuto ed ammirato in tutto il
mondo furono quelle delle due navi
scuola: Cristoforo Colombo (varata nel 1930) e Amerigo Vespucci (varata nel
1931).
La Colombo, centesima costruzione dell’allora Regio Cantiere, fu impostata il
15 aprile del 1926 con il nome Patria, fu varata il 4 aprile 1928 ed entrò in
servizio il successivo 1° luglio. Fu progettata dal tenente colonnello del genio
navale Francesco Rotondi, che prese a modello l’ultimo vascello costruito in
Italia, quel Monarca impostato proprio a Castellammare nel 1846 e varato nel
1850.
Le somiglianze tra le due unità sono molte. Il dislocamento del Monarca era
di 3.669 t contro 3.513 t del Colombo; pressoché identica la larghezza (15,5
m). L’altezza era di 6,7 m nel vascello borbonico contro 7 m della più
moderna unità. La lunghezza dello scafo al netto del bompresso era di 58 m
per il Monarca e di 70 m per il Colombo, differenza dovuta ai diversi materiali
utilizzati per lo scafo (in legno con carena ramata per il Monarca e acciaio per
il Colombo). Identica l’attrezzatura velica con tre alberi (maestra, trinchetto e
mezzana) ed un bompresso.
L’armamento originale per il vascello borbonico era costituito da 50 cannoni
da 30 libbre, 28 obici Paixhans da 30 libbre e 6 cannoni da 60 libbre.
Varo dell'incrociatore Giovanni dalle Bande
Nere (27 aprile 1930)
La Colombo svolse la sua attività come nave scuola fino al 1943, effettuando
9 campagne addestrative in Mediterraneo, Atlantico e Nord Europa.
Purtroppo, con il trattato di pace nel 1949 fu ceduta all’Unione Sovietica
come risarcimento per danni di guerra insieme alla corazzata Cavour,
all’incrociatore Duca d’Aosta ed altre unità minori.
La bella unità, a cui fu posta la sigla Z 18, fu consegnata ad Odessa il 3
marzo 1949. Fu ribattezzata Dunaj (Danubio in russo) ed utilizzata come
nave scuola ad Odessa. Nel 1960 la Marina Russa la cedette all’Istituto
nautico di Odessa, ma in attesa di lavori di manutenzione che non vennero
mai effettuati, fu adibita al trasporto di legna. Nel 1963 fu vittima di un grave
incendio e restò abbandonata e semidistrutta fino al 1971, quando fu demolita
nel Cantiere Glavvtorcement delle isole Tutukhannye presso Leningrado
(l’attuale San Pietroburgo).
La nave Vespucci fu invece impostata nel 1930 e varata il 22 febbraio del
1931, nel giorno anniversario della morte del navigatore (22 febbraio 1522),
alla presenza delle autorità militari e di cento marinaretti dell’Opera Nazionale
Balilla giunti da Napoli sulla
nave Brenta.
È stata sin dall’inizio destinata
all’istruzione degli Ufficiali della
Marina e nel corso delle sue
Campagne addestrative ha
toccato i porti di mezzo mondo. È
attualmente la nave più anziana
tra quelle in servizio nella Marina
Militare, che nel giugno 2006 ha
voluto festeggiare proprio a
Castellammare il 75° compleanno
della unità, giustamente definita
“ la nave più bella del mondo”.
Vogliamo anche ricordare che
poco prima della guerra, il 3 aprile 1939, fu impostato a Castellammare
l’incrociatore leggero Giulio Germanico da 5.334 t che fu varato il 12 gennaio
Varo nave Amerigo Vespucci (22 febbraio 1931)
1941. Lo scafo ancora incompleto fu affondato nel settembre 1943 durante
l’occupazione del Cantiere da parte delle Forze Armate Tedesche.
L’incrociatore Giulio Germanico faceva parte della classe Capitani Romani,
che doveva comprendere 12 unità di cui però solo 3 unità furono completate
(l’Attilio Regolo, lo Scipione Africano e il Pompeo Magno).
Al momento dell’armistizio altre 4 unità (Germanico, Silla, Augusto e Caio
Mario) furono catturate incomplete dai tedeschi.
Il Traiano fu affondato durante l’allestimento, mentre Druso, Tiberio, Paolo
Emilio e Agrippa furono smantellati prima del completamento.
Il Silla fornì il suo apparto motore da 110.000 hp alla portaerei Aquila.
Dopo la guerra il Regolo e lo Scipione furono ceduti alla Francia, che, con il
nome di Chateaurenault e Guichen, li tenne in servizio fino agli anni 70.
Il Pompeo Magno e il Giulio Germanico, recuperati dal Cantiere di
Castellammare, furono ricostruiti nel 1950-1956 come caccia conduttori e
con il nome di San Giorgio e San Marco prestarono servizio nella Marina
rispettivamente fino al 1980 e
1971.
Nel dopoguerra il Cantiere,
ricostruito dopo le devastazioni
subite, riprese la costruzioni di
navi con la Salernum (1953).
Sempre nel 1953 ci fu il
prestigioso incarico di
assemblare ed assistere nelle
prove in mare il batiscafo
Trieste per lo scienziato
Auguste Piccard, che tuttora detiene con 10.900 metri il record mondiale di
immersione, conquistato il 23 gennaio 1960 nella Fossa delle Marianne.
Nel 1962 fu varato l’incrociatore Caio Duilio e nel 1967 l’incrociatore Vittorio
Veneto. Il cacciatorpediniere Ardito fu l’ultima nave militare varata nel 1971 a
Castellammare.
Dopo di allora il Cantiere si è specializzato nella costruzione di traghetti.
Attualmente fa parte della Fincantieri S.p.A. ed occupa (nel 2006) circa 600
persone.
Il presidente Gronchi in visita al cantiere nel 1956
(Da sinistra: l’on.Silvio Gava, il pres. Giovanni Gronchi, l’avv.
Giorgio Tupini, presidente della Navalmeccanica. Ultimo a destra
il direttore generale della Navalmeccanica, ing. Manlio Perrotta)
Tratto da.
ISTITUTO DI STUDI STORICI
ECONOMICI E SOCIALI
Atti del Convegno di Studi Storici
tenutosi a Napoli il 28 febbraio 2008
NAPOLI
TRA LE DUE
GUERRE
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