mercoledì 9 ottobre 2019

9 OTTOBRE 1967: L'ASSASSINIO DEL "CHE"


Maurizio Barozzi

Questo infame assassinio di un celebre prigioniero ferito è stato più che altro accollato al presidente boliviano Barrientos, ma oggi conoscendo ulteriori documentazioni possiamo dire che fu responsabilità di Barrientos e degli statunitensi.
Catturato Guevara, ferito, a La Paz la sera dell'8 ottobre si era svolta una riunione straordinaria con Barrientos, il generale Josè Torres che è capo di Stato maggiore delle FF.AA. e il colonnello Arana Serrudo capo dei Servizi militari. Sono preoccupati e consci che non si può tenere un processo a Guevara. Barrientos, cane fedele della Cia, si reca dall’ambasciatore statunitense in Bolivia, Douglas Henderson, il quale chiede istruzioni a Washington. I cablogrammi a Washington arrivano ai consiglieri del presidente Lindon Johnson e ai collaboratori della Cia. La risposta è: uccidere Guevara. L’ordine viene inviato, via radio dal generale Alfredo Ovando Candia.
Oltre che eliminare per sempre il peggior e irriducibile nemico degli USA, tutti sono consci che tenerlo prigioniero per processarlo, gli si rivolterebbe contro. Guevara da accusato diverrebbe accusatore, i crimini americani resi pubblici, la stampa internazionale divisa, e sicure grandi manifestazioni di protesta in tutte le capitali.
Mentre all’esterno si fa intendere che Guevara era morto negli scontri, a La Higuera, alle sei del mattino del 9 ottobre, la diciannovenne maestra Julia Cortez può entrare in aula e vede il “Che” con il quale scambia qualche parola. Tempo dopo dirà di essersi trovata di fronte “un uomo onesto e di grande nobiltà d’animo» che gli fa notare l’ingiustizia di tenere la scuola in quelle misere condizioni, mentre i potenti girano in Mercedes.
Intorno alle 6,30 atterra sulla piazza l’elicottero che viene da Valle Grande e porta l’agente della Cia di origine cubana Felix Rodriguez Mendigutia, che si fa chiamare Felix Ramon (è agli ordini del capo Cia a La Paz John Tilton), con il colonnello Joaquin Zenteno Anaya e il pilota, il maggiore Nino Guzman). Questo Rodriguez, di cui il padre era stato un alto funzionario di Batista, aveva già avuto una parte nel fallito tentativo di invasione alla Baia dei Porci.
Tilton ha ha anche altri agenti originari di Cuba, molti esuli anticastristi, chiamati Gusano, vermi.
Rodriguez, che in futuro, cambierà versioni più volte, farà la star in documentari televisivi, rilasciando racconti edulcorati e falsi di quei momenti (spudorato dirà anche che voleva, altre volte che aveva abbracciato il “Che”!), entra nell’aula con modi aggressivi per interrogare Guevara insultandolo.
Il “Che” lo apostrofa “verme e traditore, mercenario della Cia”.
Rodriguez lo afferra per i capelli e gli sputa in faccia. Il “Che”, anche se con le mani legate dietro la schiena, gli assesta un calcio che farà cadere il farabutto. Due soldati, tempestivamente fermano Rodriguez che vorrebbe vendicarsi sull’inerme prigioniero. Altro che abbracci!
Successivamente il Rodiguez, a dimostrazione della assoluta autorità della Cia in terra boliviana, si mette a fotografare, pagina per pagina i due diari del “Che” e altri taccuini, senza chiedere il permesso ad alcuno.
Alle 10 del mattino di quel 9 ottobre ‘67 fanno uscire il “Che” per scattargli alcune foto
Poco dopo due donne arrivano alla scuola con una zuppa. I soldati non vorrebbero farle entrare, ma queste dicono che allora non daranno la zuppa a nessuno di loro Porgeranno il poco cibo a Guevara, ma questi chiederà prima se anche i suoi compagni hanno mangiato; gli dicono di si, ma non si sa se era vero. Una delle donne dirà che non dimenticherà mai lo sguardo di gratitudine del “Che”.
Per uccidere Guevara viene scelto, non si a bene come, addirittura si disse "a sorte", un insignificante sotto-ufficiale, Mario Teràn Salazar, che accettò l’infame incarico che altri non volevano assumersi, invogliato anche da una ricompensa in denaro e aiutandosi bevendo degli alcolici.
Cosicché questo sergente Teràn, un bassotto di un metro e sessanta centimetri, che finirà alcolizzato e nascosto per anni come un topo, entrò nella stanza dove il Che, ferito, era sdraiato su una panca con le mani legate e gli sparò due raffiche con un M-2.
Cercò di non colpirlo al viso per simulare una morte in combattimento. Sembra anche che dall’emozione gli sfuggi una prima raffica che prese il “Che” alle gambe.
Sembra, ma è dubbio, che un colpo di grazia al cuore, fu poi sparato da Félix Rodríguez.
Guevara probabilmente pronunciò delle parole prima della morte, ma non è possibile dare credito ai racconti di questo farabutto di Teràn.
Sembra che questo boia, entrato per sparare ad un uomo in terra con le mani legate dietro, ebbe un attimo di esitazione e poi chiuse gli occhi e sparò, dopo che il “Che” gli direbbe: "spara vigliacco che stai per uccidere un uomo".
Teràn in futuro, celandosi come un topo, qualche volta rilascerà interviste a pagamento di dubbia affidabilità. Colpisce solo quando dice: “I suoi occhi brillavano intensamente, l’ho visto grande, immenso”.
Nell’altra stanza un altro boia prescelto, Bernardino Huanca, imbottito di alcool, sparerà agli altri due prigionieri: il boliviano Willy e il peruviano el Chino, uccidendoli.
E’ lunedì 9 ottobre 1967, circa le 13,10, quando il Che viene ucciso, di fatto un vile assassinio di un prigioniero per giunta ferito.
In Bolivia non vi era la pena di morte, e stiamo parlando di prigionieri feriti.
Oltretutto i boliviani, in terra boliviana erano sotto gli agenti statunitensi, degli stranieri, e si decise di procedere ad un vile e deliberato assassinio.
Intorno alle 16 il “Che” lo porteranno in elicottero a Valle Grande dove lo mostreranno ai giornalisti. Al decollo la maestra Julia Cortez inveirà contro questi assassini.
Verso sera, mentre a Valle Grande si brinda, un padre domenicano, Roger Schiller, che da una parrocchia vicina non era riuscito ad arrivare in tempo, tiene al villaggio una scarna orazione funebre davanti ai pochi campesini con le candele accese: «Questo crimine non sarà perdonato. I colpevoli saranno puniti da Dio».
Sarà preveggente: molti dei bastardi assassini e comprimari faranno una misera fine.

TRATTO DA:
https://www.facebook.com/maurizio.maubar.1/posts/145840153309981?from_close_friend=1&notif_id=1570626799909531&notif_t=close_friend_activity



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IN MEMORIA DI ERNESTO CHE GUEVARA

di Maurizio Barozzi

Di oggi, 50 anni fa, il 9 ottobre 1967 un prigioniero ferito veniva vilmente assassinato su precise disposizioni della CIA arrivate da Washington..
Era Ernesto Che Guevara della Serna, medico, rivoluzionario e guerrigliero, uomo di coraggio e di alte virtù umane.
Guevara non aveva abbracciato la causa politica e rivoluzionaria per infatuazioni giovanili, per esuberanza narcisista o per velleità esistenziali, tanto che da studente non aveva mai aderito a nessun movimento politico.
Il “Che”, come veniva chiamato per il suo giovanile intercalare tipicamente argentino di questo monosillabo a significare: “hei tu,” oppure “hei uomo”, che si distingueva per altruismo e generosità, si gettò nella politica quando durante un viaggio per tutta l’America latina, toccò con mano la miseria, lo sfruttamento, l’oppressione a cui interi popoli erano soggetti per mano statunitense e le loro oligarchie servili e corrotte.
Conscio della criminale influenza degli Stati Uniti in Sud America, dirà:
«Ho potuto verificare quanto sia terribile il loro potere. Ho giurato di non fermarmi mai, prima di avere assistito allo sterminio di queste piovre capitaliste».
E fu di parola come dimostra anche il fatto che nella sua “guerra totale”, non dismise mai la divisa militare verde oliva della guerriglia, neppure al suo matrimonio, da ministro o da ambasciatore all’Onu e in tante capitali del mondo, e che per perseguire questo ideale di lotta, abbandonò possibili agi ed onori in Cuba, per andare a morire nella jungla boliviana.
Gli ideali di Guevara erano semplici e immensi allo stesso tempo:
«Questo ideale è semplice, puro, senza grandi pretese e, in generale, non va molto lontano: ma è così tenace e chiaro che è possibile sacrificargli la propria vita senza esitare minimamente.
Per la quasi totalità dei contadini, è il diritto di avere un pezzo di terra propria da coltivare e di godere di un trattamento sociale giusto. Per gli operai, è avere un lavoro, ricevere un salario adeguato e anche lui un trattamento giusto. Fra gli studenti e fra i professionisti si trovano idee più astratte, come il significato della libertà per la quale combattono».
In questa ottica e avendo presente i grandi compiti di ricostruzione di una Cuba arretrata, Guevara ritenne che la soluzione potesse venire dal marxismo leninismo. Fu quindi comunista, ma di un comunismo idealista che anteponeva ai fattori economici e sociali la costruzione di un “uomo nuovo”:
«[I requisiti devono essere] Lo spirito di sacrificio, l’essere compagni. l’amore per la Patria, guidare attraverso l’esempio la modestia, compongono il profilo base che ogni componente del partito deve avere. Quello che per la gente comune, significa sacrificio per lui deve essere la quotidianità…
La Rivoluzione si fa attraverso l'uomo, ma l'uomo deve forgiare giorno per giorno il suo spirito Rivoluzionario”».
«Lottiamo contro la miseria, ma lottiamo al tempo stesso contro l’alienazione. Se il comunismo si disinteressa dei fatti di coscienza potrà esser un metodo di ripartizione, ma non sarà mai una morale rivoluzionaria.
Il vero rivoluzionario è guidato da grandi sentimenti d’amore. E’ impossibile concepire un autentico rivoluzionario che non abbia questa qualità»
E tutte queste virtù non erano un esibizionismo retorico, perché Guevara le praticava ogni giorno, ogni ora, quando anche da ministro, viveva spartanamente e si cimentava in ore e ore di lavoro volontario che avrebbe sfiancato chiunque altro.
Nel suo comunismo, ha visto bene lo scrittore francese Francois Maspero:
«il suo marxismo è quello di un lettore autodidatta e non smetterà di modificare e arricchirsi, nel corso delle sue letture ed esperienze. Ciò finirà per contrapporlo in maniera clamorosa e fino alla rottura, non solo agli autori dei manuali di marxismo leninismo, ma al dogma stesso in vigore nei paesi comunisti. Il Che tenta di ripensare un comunismo per il quale il motore della storia sia l’uomo stesso più che la lotta di classe».
Nel suo idealismo egli ha una visione quasi religiosa dell’uomo a cui vorrebbe tutti conformare: sacrificio, generosità, altruismo, abnegazione, disinteresse.
Egli ritiene che la sua generosità, il suo mettersi a diposizione dello Stato, dei compagni e del bene comune, il suo senso etico del sacrificio, che ha in sé ad altissimi gradi, che mostra e profonde in ogni momento, possano essere patrimonio di tutti gli uomini, basta solo sollecitarli, insegnarglieli e dargli l’esempio.
Ma non è così: la natura umana prevede che queste sono virtù e come tali sono patrimonio di pochi, per tutti gli altri, invece, che ne posseggono una gradualità inferiore o nulla, possono essere, tutto al più, un benefico punto di riferimento e di esempio o un monito.
Anche qui ha visto bene il filosofo Charlie Bettelhehin:
«Guevara ha voluto andare troppo in fretta, il suo “uomo nuovo” non poteva esistere dall’oggi al domani. Il Che voleva imporre agli uomini il comportarsi come lui desiderava, come di fatto si comportava egli stesso, sicuro che fosse per il loro bene. Ma questo non è possibile bisogna lasciare alla gente la facoltà di scelta quindi il tempo. Il suo “uomo nuovo” sarebbe somigliato a un robot, troppo perfetto, perciò era una utopia».
In ogni caso il suo resta un esempio di altissime virtù umane laddove sappiamo che durante le sia pur cruenti fasi della guerriglia egli cercava di evitare che si uccidessero soldati quando se ne poteva fare a meno, che con la sua sensibilità di medico curava i prigionieri feriti.
E pensare che poi la propaganda yankee ha cercato di farlo passare conme un carnefice.
Il “Che” sperava di accendere contro l’Imperialismo yankee, cento fuochi di guerriglia, ma a differenza di certo comunismo giudaico bolscevico, rifuggiva dal terrorismo, scrivendo esplicitamente:
«Credo sinceramente che il terrorismo sia un arma negativa che non produce in alcun modo gli effetti voluti e che può indurre un popolo a mettersi contro un determinato movimento rivoluzionario».
Da persona intelligente e non facilmente turlupinabile, aveva compreso perfettamente il carattere subdolo e nascostamente imperialista dell’Urss, e lo aveva capito da subito quando a novembre del 1960 in cui i rapporti tra Cuba, necessitante di aiuti e protezione e i sovietici stavano appena iniziando e lui, ospite a Mosca, dove viene dato un pranzo ufficiale, vedendo in tavola il servizio di finissime porcellane, chiede maliziosamente (si noti quel “davvero”):
«Ma in Russia i proletari mangiano davvero in piatti come questi?>>.
Molti suoi scritti e articoli contro i sovietici, per ragioni di opportunità politica, rimasero nascosti a Cuba fino agli anni ‘90, ma dell’URSS denunciò con veemenza e precisione il suo sistema economico sociale falsamente comunista; il suo vendere a prezzi di mercato capitalista, macchinari indispensabili ai paesi fratelli sottosviluppati, per giunta di pessima qualità; di vendergli e non regalargli le armi; di tenere in piedi un sistema bancario non dissimile da quello dei paesi occidentali; di sostenere militarmente i paesi cosiddetti “fratelli”, solo se conforme agli interessi geopolitici dei sovietici, ma di abbandonarli quando gli interessi dei loro rapporti con gli USA, la cosiddetta coesistenza pacifica, non lo prevedono.
Questo e altro ancora, tanto che i sovietici, inchiodati pubblicamente in un suo discorso ad Algeri il 24 febbraio 1965, lo ritennero un eretico e un mezzo trozkista, ma questo non era vero.
Noi ci chiediamo, se con il tempo, Guevara, di fronte alla constatazione della umana impossibilità di realizzare quel socialismo integrale e ideale che aveva in animo, non sarebbe arrivato alle stesse scelte a suo tempo fatte da altri due “comunisti” idealisti: Mussolini e Bombacci.
Ma ci voleva tempo, pochi i suoi 39 anni, anche perché, mentre Mussolini e Bombacci erano rivoluzionari di stampo prevalentemente politico, Guevara lo era di stampo prevalentemente “militare”.
Come prima della sua svolta “ideologica”, Mussolini era un socialista massimalista, intransigente (quindi un comunista antelitteram) anche Guevara criticava l’URSS, da sinistra, perché aveva reintrodotto e in qualche modo mascherato, alcuni principi del capitalismo.
Certo Guevara non è venuto al mondo per ripristinare caste o divisioni razziali e il suo ideale è di convivenza e solidarietà, ma se prendiamo una pura figura dell’eroismo fascista, ovvero Berto Ricci e il suo Universale, vediamo che questi ideali non si discostano molto da quelli guevariani e non si discostano neppure, in senso ideale, i dettami, i progetti e gli assetti della repubblica socialista fondata da Mussolini, la RSI.
In definitiva se Guevara condivide i dettami del marxismo leninismo, nel suo socialismo, nel suo ideale c’è più che altro Josè Martì e le idee di Fidel Castro che è un po’ una terza via tra il comunismo e il capitalismo, mentre in Martì, poeta, rivoluzionario ed eroe per l’indipendenza cubana e fondatore del Partito Rivoluzionario Cubano, non si riscontra la messa in discussione del modo di produzione del capitalismo, né tanto meno la teorizzazione della lotta di classe.
Giusta l’osservazione di Federico Goglio:
«Il castrismo nasce su una base di attaccamento alla Patria, di identità nazionale, di indignazione e rivendicazioni sociali. Nel pensiero di Fidel Castro sembrano poter convivere, così, sia Primo de Rivera, che Josè Martì »
E a chi storce il naso per il “comunismo” di Guevara, proprio le parole di Josè Primo de Rivera, fanno chiarezza: «Nel comunismo c’è qualcosa che può essere raccolto, la sua abnegazione il suo senso di solidarietà».
Come hanno amaramente osservato alcuni marxisti leninisti ortodossi:
«E’ Martì il suo modello di vita, il suo maestro ideologico e politico e il suo punto di riferimento programmatico, e non i grandi maestri del proletariato internazionale e l'esperienza storica della rivoluzione socialista e degli Stati socialisti».
E se osserviamo le lettere di addio che Guevara scisse ai Fidel, ai genitori e ai figli, le ultime, quando lascia Cuba, vediamo che le chiude tutte, non inneggiando al Comunismo, ma con “PATRIA O MUERTE»!
Oggi, in virtù di tante testimonianze e documentazioni desecretate, abbiamo la conferma di quanto avevamo sempre intuito, ovvero che Guevara fu immolato dai sovietici sull’altare della loro maledetta coesistenza pacifica Gli fecero il vuoto attorno e lo lasciarono ammazzare.
Venne tradito dal partito comunista boliviano che ha la massima responsabilità nel fallimento della guerriglia di Guevara in Bolivia. Il segretario di questo partito, di cui si era sempre dubitato, oggi sappiamo che fu un vero traditore. E per “trenta denari”, visto che proprio in quei momenti ricevette un cospicuo aiuto economico da Mosca, finalizzato ovviamente a fare il vuoto attorno a Guevara.
E venne tradito da tutti quegli ambienti massonici di sinistra radical o liberal o falsamente rivoluzionaria, specialmente francesi, tra i quali emerge la triste figura dell’intellettuale Regis Debray (in seguito divenne collaboratore del presidente francese massone Mitterand) che arrivò in Bolivia per i suoi pruriti, e al momento opportuno lo tradì.
In questa odierna società degli spettri Guevara ha avuto la triste ventura di finire su magliette e gadget dell’industria capitalista, ma la stessa cosa accadde anche per Mussolini.
Sono le perversioni del nostro tempo, visto che nè Guevara, nè Mussolini erano azionisti delle industrie che sponsorizzano in tal modo i loro prodotti.
Ma peggio ancora Guevara è finito sulle infami bocche di dementi pacifisti arcobaleno, proprio lui che ha sempre indicato la via del combattimento.
Oggi che il mostro yankee ha palesato tutta la sua potenza, la sua malvagità e il mondialismo sta cercando di formattare i cervelli dell’intera umanità Guevara rappresenta l’unica alternativa e rivolta a tutto tondo, manifesta in questo dopoguerra.
Come ha osservato Manuel Vasquez Montalban:
«Il Che è come un incubo per il pensiero unico, per il mercato unico, per la verità unica, per il gendarme unico. Il Che è come un sistema di segnali di non sottomissione, una provocazione per i semiologi o per la santa inquisizione, dell’integralismo neoliberale. E causa questo disagio, non come profeta di rivoluzioni inutili, ma come scoraggiante (per il potere) proclama del diritto a rifiutare che, tra il vecchio e il nuovo, si possa scegliere soltanto l’inevitabile non il necessario. Insomma la libertà fondamentale di rivendicare il necessario».
Cinquanta anni addietro alla sua morte, l’ambiente teatrale di destra del Bagaglino di Roma, gli dedicò una canzone; “Addio Che!”, cantata da Gabriella Ferri.
Ma quello di destra era un ipocrita riconoscimento alle qualità eroiche e combattentistiche di Guevara, non certo una condivisione della sua volontà di combattere il mostro yankee e il capitalismo.
Era la solita estasiata retorica destrista, come poteva esserlo l’ammirazione per i Mercenari.
Proprio i mercenari ributtanti figure di prezzolati (tra l’altro la “Legione Straniera” fu nostra nemica in guerra), che tutto al più possono costituire una valenza di “spirito eroico”, a prescindere, per pochi uomini che ne hanno lo spirito e la equazione personale, sono sempre stati sulla bocca scellerata delle destre.
Onestà però vuole che dobbiamo riconoscere che nella destra radicale e neofascista, almeno Gabriele Adinolfi, con cui non abbiamo molte idee in comune, anzi, ma che ha espresso delle considerazione di tutto rilievo su Guevara:
«<<[si dice]…non si può onorare il Che, non si può non essere contenti della morte del Che, perché egli si batteva per distruggere i nostri valori.
Nostri? Valori? Suvvia: scherziamo?
Il Che si batteva per liberare il suo continente dall’occupazione americana, dall’oppressione oligarchica e dalle ingiustizie. Possiamo non condividere l’indirizzo dato dal Che alla sua lotta, il suo impianto ideologico e programmatico, ma non possiamo non sentire nostra la sua lotta; e se non la sentiamo tale delle due l’una: o di quella lotta non sappiamo niente o abbiamo sbagliato proprio campo, siamo guardie bianche e non camicie nere!
La sua scelta guerriera anche quand’era ministro, la fine romantica – malgradolla sua ideologia – che lo ha immortalato e forse soprattutto la sua visione esistenziale della rivoluzione”
Ed anche nel sito del professor Claudio Mutti, si fatta una pregevole recensione di Roberto Occhi del suo “Che Guevara. La più completa biografia”, Verdechiaro, 2007, e pochi altri tra cui la rivista Orion. A parte ovviamente i fascisti della FNCRSI che arivarono a fare un manifesto, accumunando Mussolini e Guevara come speranza rivoluzionaria futura.
Un giorno un “neofascista”, penosa mutazione antropologica nella deriva di destra del neofascista del dopoguerra, ebbe ad obiettarmi: “Ma Guevara, se fosse vivo, ci sparerebbe addosso!”.
Gli ho semplicemente risposto, ricordandogli quello che era il neofascismo, conservatore e reazionario, lustrascarpe dei nostri colonizzatori statunitensi, tutto Colonnelli greci e Pinochet, e stendiamo un velo pietoso sulla strategia della tensione, gli ho risposto dicevo, che se è per questo anche dei veri fascisti, per primi vi avrebbero sparato addosso!
E a certo neofascismo destrista, zerbino dei nostri colonizzatori, che manifestava per Budapest e per Praga, ma MAI contro la Nato, ricordo sempre che grazie a Castro e Guevara, vi è la inestimabile soddisfazione, per la quale ogni vero patriota non può che fremere di orgoglio, di vedere al lungomare del Malecon, proprio di fronte alle coste della opulenta Florida, un cartello recante la scritta: «sta tierra es 100% cubana».
E noi che condividiamo il “Che” senza se e senza ma, preferiamo ricordare il suo grido di guerra, tanto più ATTUALE oggi dove la bestia immonda statunitense mostra delle crepe:
«La nostra azione è tutta un grido di guerra contro l'imperialismo e un appello all'unità dei popoli contro il grande nemico del genere umano: gli Stati Uniti d'America.
E dovunque ci sorprenda la morte, sia benvenuta, purché il nostro grido di guerra raggiunga chi è pronto a raccoglierlo e un'altra mano si tenda ad impugnare le nostre armi e altri uomini si preparino a intonare canti di lutto con il tambureggiare delle mitragliatrici e nuovi gridi di guerra e di vittoria».
Concludiamo quindi non con un Addio “Che”!, ma con:
HASTA SIEMPRE COMANDANTE.

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