PREMESSA IMPORTANTE: questa è Storia, non opinioni. Ho
raccontato e raccolto testimonianze di fatti accaduti quarant’anni fa di
cui oggi ricorre l’anniversario. Chiunque desideri fare parallelismi o
“interpretarlo” lo fa di sua iniziativa, non mia.
30 aprile 1975 Saigon cade, e assieme a lei tutto il
Vietnam del sud. I comunisti si scatenano in un vortice di vendette
verso militari e civili, instaurando un regime totalitario. Al loro
arrivo un milione di persone viene prelevato per essere “rieducato”;
sono sacerdoti, bonzi, religiosi, politici regionali, intellettuali,
artisti, scrittori, studenti. A ogni angolo di strada spuntano
“tribunali del popolo” in cui gli accusati non hanno diritto alla
difesa, e a cui seguono esecuzioni sommarie.
A migliaia vengono tolte
case, beni, proprietà e vengono gettati nelle paludi, dette “Nuove Zone
Economiche”, dove avrebbero dovuto creare fattorie e coltivazioni dal
nulla. In realtà, li mandano a morire di fame. L’intero Vietnam del sud
diventa un grande gulag, dove accadono orrori simili a quelli della
Kolyma di Stalin.
Nel 1979, la popolazione cerca di scappare.
Non
possono farlo via terra, perché i paesi confinanti li respingono;
l’unica opzione per intere famiglie consiste nel prendere barconi
improvvisati e gettarsi in mare, lontano dai fucili e dai tribunali del
popolo. Le immagini di questi disperati fanno il giro del mondo e
dividono l’opinione pubblica mondiale, ancora divisa per ideologie
pre-muro di Berlino. Il comunismo non può essere contestato né fare
errori, sono “menzogne raccontate dai media che ingigantiscono la
faccenda per strumentalizzarla”.
Mentre
l’occidente blatera, i rifugiati sui barconi scoprono di non poter
sbarcare da nessuna parte. Vengono ribattezzati “boat people”, disperati
con a disposizione due cucchiai d’acqua e due di riso secco al giorno
che raccolgono l’acqua piovana coi teli di plastica e sono in balia di
tempeste e crudeltà. Il governo della Malesia li rimorchia a terra per
spennarli di tutti i loro averi, poi li rimette sulle barche dicendogli
che stanno arrivando degli aiuti e li rimorchia in alto mare, dove
taglia le funi e li abbandona a morire.
A
volte le tempeste tropicali li affondano, altre volte pescatori armati
saltano a bordo e uccidono e stuprano finché sono stanchi, poi li
abbandonano lì. A bordo c’è così tanta puzza da far svenire,
e la fame è tale che ci sono episodi di cannibalismo. Navi occidentali
si affiancano e gettano qualcosa da mangiare per fotografarli, poi se ne
vanno.
Sono anni difficilissimi tra inflazione alle stelle, bombe e
attentati, ma il neonato benessere è ancora troppo recente per far dimenticare agli
italiani il loro passato di povertà, ruralità ed emigrazione. Quando le
immagini dei boat people vengono rese pubbliche da Tiziano Terzani il 15 giugno
1979, invece di aggiungersi al dibattito globale di opinionisti e intellettuali
impegnati a decidere se salvare dei profughi di un regime comunista sia un messaggio
capitalista o no, Pertini capisce che ogni minuto conta, chiama Andreotti e dà ordine
di recuperarli e portarli in Italia.
Andreotti è presidente del Consiglio, ma è stato prima
ministro della difesa. Quella che riceve è una richiesta folle, perché l’Italia
non ha mai fatto missioni simili né per obiettivo né per distanza. Ora però il
ministro della difesa è Ruffini, e dice che in teoria è fattibile. Insieme scelgono
come braccio destro Giuseppe Zaberletti, uno che aveva già dimostrato un’estrema
capacità organizzativa in situazioni di crisi, e si mettono a studiare il da
farsi. Non sanno quanti sono, né in che zona precisa; sono fotografie sfocate
in mezzo al nulla.
Se il primo problema è il dove, subito dopo vengono tempo e lingua.
Il
mondo del 1979 non parla inglese, figurarsi il vietnamita. Anche gli
interpreti scarseggiano e non c’è tempo di trovarli, però c’è la Chiesa.
Andreotti domanda al Vaticano se ha a immediata disposizione preti
vietnamiti e gli arrivano padre Domenico Vu-Van-Thien e padre Filippo
Tran-Van-Hoai. Per un terzo interprete, i Carabinieri piombano
all’università di Trieste, scorrono i registri e reclutano sul posto uno
studente, Domenico Nguyen-Hun-Phuoc. A quel punto, Ruffini può alzare
il telefono.
Tolone, Francia 27 giugno 1979
L’incrociatore Vittorio Veneto dell’ottavo gruppo navale è
alla fonda a Tolone, in Francia, dopo aver finito la stagione. L’equipaggio di
500 uomini non vede l’ora di sbarcare per abbracciare le proprie famiglie,
quando nelle mani del comandante Franco Mariotti arriva un cablogramma urgentissimo
dall’ammiraglio di Divisione Sergio Agostinelli, a bordo dell’Andrea Doria. Ordina
di tenere a bordo solo il personale addetto alle armi, poi di riadattare l’assetto
della nave e salpare alla volta di La Spezia per riunirsi all’Andrea Doria per
una missione di recupero. Quando capiscono di cosa si tratta, gli equipaggi si
esaltano.
Mariotti lascia a terra 350 uomini, che invece chiedono di
restare a bordo per aiutare. Predispone 300 posti letto per donne e bambini su
letti a castello nell’hangar a poppa, e 120 posti per gli uomini a prua. L’alloggio
sottufficiali diventa un’estensione dell’infermeria, e sotto
il ponte di volo viene adibita la zona d’aria. Servono almeno dieci bagni
in più, ma ce la fa. Impiega cinque giorni a cambiare l’assetto, e solo al
quarto giorno, prima di partire, ordina agli uomini di scendere a salutare le
famiglie.
Arrivano
a La Spezia il 4 luglio, dove vengono caricati e istruiti medici,
infermieri, interpreti, medicinali e vestiti. Il giorno dopo salpano
alle 10 diretti verso il sud di Creta, dove si riuniscono con la nave
logistica Stromboli, comandata dall’ammiraglio Sergio Agostinelli; in
totale ci sono 450 posti letto sulla Vittorio Veneto, 270 sulla Doria e
112 sulla Stromboli.
È
un viaggio orrendo, nella stagione peggiore. Oltre al caldo mostruoso
del mar Rosso, i monsoni dell’oceano Indiano portano il vento a forza 7.
Onde lunghe e gigantesche che mettono a dura prova i 73,000 cavalli
vapore degli incrociatori. Dopo 10 giorni di navigazione ininterrotta,
il 18 luglio ormeggiano a Singapore e caricano le provviste
supplementari, così da dare il tempo all’intelligence di fare
“ricognizione informativa” e di improntare un piano.
In
quattro giorni parlano con l’ambasciatore della Malesia, con l’addetto
della marina militare inglese, i portavoce di World Vision International
e definiscono le zone da pattugliare. Le direttrici di fuga sono cinque:
due verso Thailandia e Hong Kong, di scarso interesse perché passano
per acque territoriali. Le altre tre sono di preminente interesse, cioè
dall’estremo sud del Vietnam verso la Thailandia (costa occidentale del
golfo del Siam), verso Malesia e isole Anambas dell’Indonesia. Le ultime
due sono le più probabili perché sono vicine alla piattaforma
petrolifera della Esso, che per chi mastica poco il mare è l’unico polo
di attrazione.
Diventa la zona operazioni.
Ma devono fare 12,000 chilometri senza scalo.
La navigazione più lunga mai fatta dalla Marina militare italiana.
Alle
10 del 25 luglio salpano alla volta del mar cinese meridionale e golfo
del Siam. Durante la notte, va e viene un eco radar. Il giorno dopo il
mare è a forza 4 (esempio),
e il ponte viene spazzato da raffiche di vento e acqua. Alle 8.15, con
un coraggio notevole, l’Agusta Bell 212 si alza in volo per investigare
le coordinate e localizza la prima barca alla deriva. È un catorcio di
25 metri carico fino all’inverosimile che sta colando a picco davanti
alla piattaforma della Esso.
L’Andrea
Doria dà l’avanti tutta e arriva a prenderli alle 9.20, carica su un
gommone interprete, medici, scorta e glielo manda incontro in mezzo alla
burrasca che monta, raccomandandosi di rispettare norme di prevenzione e
contagio. Il gommone si affianca e gli interpreti recitano un testo che
hanno imparato a memoria.
«Le
navi vicine a voi sono della Marina Militare Italiana e sono venute per
aiutarvi. Se volete potete imbarcarvi sulle navi italiane come rifugiati
politici ed essere trasportati in Italia. Attenzione, le navi ci
porteranno in Italia, ma non possono portarvi in altre nazioni e non
possono rimorchiare le vostre barche. Se non volete imbarcarvi sulle
navi italiane potete ricevere subito cibo, acqua e assistenza medica.
Dite cosa volete e di cosa avete bisogno»
Un’onda
allontana il gommone, e una donna vietnamita, convinta che gli italiani
li stiano abbandonando come tutti, gli lancia il proprio figlio a
bordo. I marinai erano italiani del 1979, un mondo in cui non esistevano
i social e queste scene non erano già state raccontate. A quella vista,
impazziscono. Tutte le procedure per evitare contagi vengono infrante, e
dallo scafo tirano fuori 66 uomini, 39 donne e 23 bambini.
Teodoro
Porcelli, all’epoca marinaio di vent’anni, è sul barcarizzo di dritta
quando riconsegna il figlio alla madre. Lei per tutta risposta gli
accarezza i capelli e si mette a piangere, poi portano insieme il
bambino dal dottore.
Sono i primi di tanti altri che arriveranno nei giorni
successivi.
A bordo degli incrociatori, gli uomini sgobbano come
animali. Infermerie, lavanderie, forni e cucine lavorano senza sosta,
coi panettieri che danno il turno e i cuochi che devono allestire 1000 pasti al giorno,
di cui una doppia razione per i macchinisti che sono ridotti a pelle e
ossa per a far andare le quattro caldaie Ansaldo-Foster Wheeler contro
le onde, il tutto con temperature tropicali e navi tutt’altro che
adatte.
Medici e marinai devono stare attenti a 125 bambini che una volta nutriti corrono dovunque, ma ovviamente prediligono il ponte di volo.
Il
31 luglio a bordo dell’Andrea Doria nasce un bambino che la madre
battezza col nome di Andrea. Marsicano lo avvolge con un vestitino di
seta che doveva regalare a sua figlia. I vietnamiti più in salute
vogliono essere d’aiuto e fare qualcosa, così vengono messi a fare i
lavori del mozzo secondo il vecchio e famosissimo proverbio della
Marina.
Il
1 agosto a bordo delle navi non c’è più spazio fisico; hanno navigato
per 2640 miglia, esplorato 250,000 kmq di oceano e salvato 907 anime.
L’ammiraglio dà ordine di tornare a casa, e il 21 agosto 1979 i tre
incrociatori entrano in bacino San Marco.
Ad
accoglierli c’è un oceano di gente, oltre a chi ha pianificato
l’operazione fin dall’inizio: Andreotti, Ruffini, Zamberletti e Cossiga,
che in seguito alla crisi di governo ha sostituito Andreotti.
A
bordo ci sono malattie anche tropicali e uomini malmessi, così a
qualcuno viene in mente che Venezia, riguardo a importazioni di merci e
uomini, qualcosina ne sa. Così, proprio come faceva la Serenissima
novecento anni prima, i vietnamiti vengono messi in quarantena nel
Lazzaretto vecchio e in quello nuovo. Quelli che non ci stanno vengono
spediti in Friuli.
Sono entrati così in simbiosi con l’equipaggio che a parte pianti, abbracci, baci e giuramenti, alcuni si rifiutano di scendere dalla nave chiedendo se possono arruolarsi. Alla fine ci sarà uno scambio di dichiarazioni tra vietnamiti ed equipaggio:
«Ammiraglio, comandante, ufficiali, sottufficiali e marinai; grazie per
averci salvati! Grazie a tutti coloro che con spirito cristiano si sono
sacrificati per noi notte e giorno. Voi italiani avete un cuore molto
buono; nessuno ci ha mai trattato così bene. Eravamo morti e per la
vostra bontà siamo tornati a vivere. Questa mattina quando dal ponte di
volo guardavamo le coste italiane una dolce brezza ci ha accarezzato il
viso in segno di saluto e riempito di gioia il nostro cuore. Siete
diversi dagli altri popoli; per voi esiste un prossimo che soffre e per
questa causa vi siete sacrificati. Grazie.»
L’ammiraglio risponde da parac… da italiano:
«Noi
siamo dei militari; ci è stata affidata una missione e abbiamo cercato
di eseguirla nel modo migliore. Siamo felici d’aver salvato voi e così
tanti bambini e di portarvi nel nostro paese. L’Italia è una bella terra
anche se gli italiani, a volte, hanno uno spirito irrequieto. Marco
Polo andò con pochi uomini alla scoperta dell’Asia; voi venite in tanti
nel nostro piccolo mondo. Sappiate conservare la libertà che avete
ricevuto.»
Vengono creati campi d’accoglienza a Chioggia, Cesenatico e
Asolo.
Il popolo italiano si mobilita in massa; vengono raccolti
26.500.000 di lire tramite raccolta di abiti usati e altrettanto arriva
tramite donazioni private. Arrivano offerte di lavoro e di abitazione,
una famiglia si offre di costruire una casa alle famiglie, una ditta si
offre di arredarla. Una scolaresca raccoglie i soldi per comprare un
motorino e una macchina da cucire, i dipendenti della Banca Antoniana si
tassano lo stipendio fino all’agosto del 1980, versando ogni mese i
loro risparmi nel conto corrente della Caritas. I commercianti padovani
inviano generi alimentari, molti ospitano i rifugiati nelle loro case ad
Arsego, San Giorgio delle Pertiche, Fratte e Zugliano.
Ruffini, ricordando la storia, dirà che
“potevo considerarmi soddisfatto della mia intera esperienza politica
per il solo fatto di aver potuto contribuire alla salvezza di quei
fratelli asiatici”. I vietnamiti si integrano alla perfezione, diventano
italiani o disperdendosi per l’Italia arrivando oggi alla terza
generazione. Parecchi marinai prenderanno la medaglia di bronzo.
Quarant’anni dopo, i marinai e i profughi hanno aperto un gruppo Facebook per ritrovarsi. State attenti ad aprirlo se avete la lacrima facile.
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