NOVITÀ EDITORIALE “CENNO STORICO”
“delle opere pubbliche eseguite nel Regno di Napoli”
“sotto l’augusta dinastia dei Borboni”
di Angelo Forgione
Da grande appassionato di cultura di Napoli
ho indagato molto per comprendere quanto anche la sua storia fosse
articolata e affascinante.
La Città è stata protagonista tra il Seicento e
il Novecento di un’incredibile produzione culturale sviluppata in un
territorio senza peso politico nello scenario europeo e penalizzato da
una piattaforma sociale molto complessa.
L’Unità l’ha vista protagonista, nel momento in
cui era di fatto l’unica metropoli europea d’Italia, meritevole del
ruolo di capitale che invece Torino prese per sé.
La dinastia borbonica è stata ovviamente
rivestita di una considerazione non lusinghiera, che è però, a distanza
di un secolo e mezzo, in fase di una più attenta rivisitazione, quanto
mai necessaria.
Cosa accadde veramente in quel preciso periodo storico?
Erano quei sovrani dei tiranni reazionari e
assolutisti da condannare tout court o semplici pedine sullo scacchiere
geopolitico europeo dell’epoca non in grado di opporsi a un progetto
politico-economico su scala internazionale?
L’errore da non commettere è quello di descrivere
il Mezzogiorno peninsulare d’Italia alla vigilia dell’Unità come una
sorta di terzo mondo immerso in quel retrogrado immobilismo che sarebbe
stato imposto da Ferdinando II.
La visione degli sconvolgimenti ottocenteschi merita di uscire dalla narrazione celebrativa del potere affermatosi in seguito, per
contemplare un quadro più complesso a tinte diverse e variopinte, una
tela sorprendentemente attuale di cui Napoli è parte non trascurabile.
Il continuo collasso dell’economia italiana
dei nostri giorni, già penalizzata da un più ampio processo occidentale,
fornisce una chiave di lettura dell’operato del quarto sovrano
borbonico di Napoli, la cui politica protezionistica, accusata dalla
storiografia liberale, fu ispirata dal giurista Luigi de’ Medici,
presidente del consiglio dei ministri dal 1816 fino alla morte del
1830.
L’esperienza governativa del capo di governo
mirò al risanamento delle finanze e al rafforzamento della flotta
mercantile, e questi due obiettivi programmatici consentono di capire
meglio l’azione del Re.
La prima metà dell’Ottocento è il periodo
storico in cui l’economia europea si plasmò secondo i precisi dettami in
cui siamo oggi immersi.
Il secolo precedente aveva fornito due paradigmi
assoluti: quello fondativo di Antonio Genovesi a Napoli, ovvero
l’Economia Civile, e quello immediatamente successivo dell’Economia
Politica dello scozzese Adam Smith, considerato erroneamente il primo
economista classico e padre dell’Economia moderna.
In realtà, i primi fondamenti furono posti nel
Regno di Napoli da un intellettuale la cui opera è stata in buona parte
eclissata per motivi evincibili da una più attenta riflessione sui
tragici problemi che affliggono la Comunità Europea di oggi e,
soprattutto, un Mezzogiorno che non riesce a riavviare il suo motore
economico.
Genovesi osservò la società napoletana del
Settecento, individuando i freni alle sue ottime potenzialità e
considerando l’economia un affare civile, quindi del popolo, che desse
opportunità a tutti, in modo da bandire l’assistenzialismo
degenerativo.
Creò i presupposti per l’implosione del sistema
feudale, per l’avvio dell’iniziativa privata e il libero commercio, e
per le trasformazioni sociali di fine Settecento e dell’Ottocento.
Smith fece altrettanto, ma, dovendosi preoccupare di una base sociale britannica meno problematica di quella napoletana, considerò l’economia un affare politico, ovvero statale ed elitario, proponendo un liberismo più integrale.
La cattedra economista di Genovesi sfornò i
più noti riformatori del Mezzogiorno, che avrebbero costituito
l’ossatura della Scuola Napoletana di Economia.
Non a caso, nel 1778, ispirata dal Supremo
Consiglio delle Finanze, composto dagli economisti napoletani e preposto
a dare impulso alle riforme economiche e sociali nel Regno, fu
istituita da Ferdinando IV la Borsa Cambi e Merci, la prima Borsa Valori
d’Italia, una delle più importanti d’Europa grazie alla presenza del
porto, alle stabili relazioni internazionali e, soprattutto, agli
investimenti degli enormi capitali della ricca famiglia ebreo-tedesca
Rothschild.
La famiglia dei grandi banchieri di Francoforte,
in quel periodo, s’insediava nelle città più importanti d’Europa, là
dove poteva avviare grandi affari, potendo contare sulla possibilità di
trasferire i prestiti inglesi ai più importanti Stati europei che
necessitavano di finanziamenti.
Oltre alla casa madre di Francoforte, crearono
fortune commerciali a Londra, Parigi, Vienna e Napoli, dove si trasferì
Carl, uno dei fratelli Rothschild.
Fu ben accolto da Ferdinando IV, ormai I delle
Due Sicilie, traumatizzato dalle due destituzioni di inizio Ottocento e
dai moti costituzionalisti del 1820-21, sedati con l’ausilio delle
truppe austriache inviate nel Mezzogiorno d’Italia nell’età della
Restaurazione post-napoleonica, che assicurarono la stabilità del trono
borbonico.
Per pagare circa trentacinquemila soldati di
Vienna, rinforzati da tre reggimenti di fanteria svizzera, il Re
necessitò di ingenti prestiti, e la famiglia Rothschild li garantì.
Nel 1830, anno dell’incoronazione del ventenne
nipote Ferdinando II, il de’ Medici era da poco deceduto e l’esercito
straniero aveva lasciato il Regno delle Due Sicilie, dopo aver stanziato
per un decennio, comportando notevole aggravio per le casse dello Stato
e un forte disavanzo pubblico definito debito galleggiante per via
della sua prolungata persistenza.
Come dovremmo chiamare il disavanzo italiano dopo un secolare e costante allargamento?
Il nuovo Re ereditò un grosso deficit che si mise
in testa di risanare seguendo la politica dettata dal defunto de’
Medici, e lo fece brillantemente, attuando delle misure oculate e
pareggiando il bilancio nel 1845.
Gran contributo al risultato lo diedero le
trattenute sulle pensioni e sugli stipendi amministrativi e dei
ministri, nonché i tagli dei costi delle amministrazioni dei ministeri.
A quel punto diminuì le tasse esistenti invece di
istituirne di nuove, protesse le fasce più deboli e non arrecò danni
all’industria nascente, evitando di soffocare l’attività d’impresa.
Con molta cautela, avviò un lento e controllato
sviluppo infrastrutturale, mirato a contenere la spesa pubblica e a
generare la disponibilità monetaria dello Stato meridionale, che
risultò, al momento dell’Unità, in quantità doppia rispetto a quella di
tutti gli altri Stati italiani messi insieme.
Si concretizzò in poco più di un ventennio il
passaggio dall’orlo del fallimento alla solida economia del Paese col
debito pubblico più esiguo d’Europa, strumentalizzata da una propaganda
di quel tempo e da una certa agiografia postuma per giustificare un
immobilismo di propaganda che, in realtà, non esisteva.
Annullato il deficit, in occasione dei moti
rivoluzionari del 1848 qualcosa di significativo accadde: gli
investitori internazionali, su forte pressione inglese, misero in atto
un “cartello” finanziario contro la Borsa di Napoli e i titoli del
debito pubblico del Regno delle Due Sicilie. Perché?
Ferdinando II, incosciente della sfida
lanciata agli odiati inglesi, non volle aderire alla smodata
competizione liberista dei Paesi europei ma portò avanti un controllato
programma infrastrutturale che, se da un lato penalizzò la velocità di
modernizzazione delle Due Sicilie rispetto al resto d’Europa, dall’altro
garantì una spesa verificata necessaria a tener lontano l’insorgere di
una nuova crisi del debito.
Le potenze d’Europa, al contrario, spendevano
molto più di quanto avevano in cassa, aderendo al sistema economico
capitalista in affermazione a quel tempo, indebitandosi presso le banche
private e alimentando gli affari dei grandi banchieri e delle potenze
ricche da cui piovevano i finanziamenti.
Questo fece il Regno di Sardegna, impegnato in
dispendiose guerre e nella sfrenata realizzazione di opere pubbliche
come la rete ferroviaria, non potendo contare su quelle rotte del mare
che nel territorio borbonico erano ben sviluppate e consentivano lo
spostamento delle merci e un più lenta realizzazione delle strade.
Gli altri Paesi iniziarono a creare le
voragini nei conti pubblici, avviando l’Europa alle problematiche
sociali dei nostri giorni, tra imbrigliate politiche monetarie e
indeboliti poteri tradizionali.
Ferdinando II, convinto che il suo Regno chiuso
dal mare e dallo Stato pontificio potesse essere tenuto lontano dai
conflitti europei, fu certamente miope nella sua spavalda visione dello
scenario politico internazionale, pensando di poter agire indisturbato e
di poter governare a modo suo, senza suscitare antipatie, in un
contesto in cui il capitalismo britannico iniziava ad allineare la
politica economica della nuova Europa e il ceto medio auspicava maggiore
slancio.
I tagli alla spesa offrirono un avanzo che fu
destinato ad accrescere i fondi per le necessarie opere pubbliche, e ne
furono realizzate tante soprattutto nel territorio peninsulare del
Regno.
Certo, se ne sarebbero potute realizzare di più,
perché la disponibilità economica lo consentiva, ma il Re preferì
assicurare stabilità al Regno ed evitare il rischio di ricondurlo nelle
condizioni in cui l’aveva ereditato.
L’uomo che le guidò, per certi aspetti,
andrebbe preso a modello da politici e cosiddetti tecnici dell’Italia di
oggi, canalizzati nella globalizzazione dei mercati da soggetti opachi
che frenano le funzioni pubbliche, incapaci di affrontare l’ingente
passivo delle finanze se non accrescendo massicciamente il carico
fiscale e colpendo le fasce più deboli, generando riduzione del Prodotto
Interno Lordo e dilatando sensibilmente i tempi di realizzazione delle
necessarie opere pubbliche.
A Napoli, a metà dell’Ottocento, si andava
nella direzione opposta, verso una vera spending review fatta di tagli
mirati e abolizione di privilegi per i funzionari pubblici. Un vero
risanamento delle casse dello Stato di cui necessita oggi l’Italia
boccheggiante, che nulla fa per recuperare gli insegnamenti
dell’Economia Civile napoletana, quella che crea posti di lavoro,
rispetta i lavoratori, protegge l’ambiente, migliora i beni e sviluppa i
servizi.
L’esperienza descritta dimostra che per
modernizzare un Paese non bisogna spendere ma spendere bene. Queste
pagine possono aiutare ad acquisire quest’ottica e rivedere
positivamente il non troppo lontano passato di Napoli.
Notiziario Telematico Legittimista n°119
Direttore Responsabile: Alessandro Romano
Pubblicato da: www.reteduesicilie.it
Anno 2014
pp. 80 circa
€ 15,00
ISBN: 978-88-95063-57-7
Venerdì 6 Giugno 2014
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