di Alberto Alpozzi Fotogiornalista
Dopo la storica adunata in piazza Venezia del 2 ottobre 1935
con la quale il Capo del Governo Benito Mussolini dichiarava guerra
all’Etiopia, il 3 ottobre il Regio Esercito, al comando del Generale
Emilio De Bono, Quadrumviro della Marcia su Roma, varcava dall’Eritrea
il fiume Mareb entrando in Etiopia, il “primo sbalzo”. Iniziava così la
guerra d’Abissinia che si sarebbe conclusa, 7 mesi dopo, il 5 maggio 1936 con l’entrata in Addis Abeba delle truppe italiane al comando del Generale Pietro Badoglio.
La campagna d’Etiopia, causò il 18 novembre
all’Italia le sanzioni inflitte dalla Società delle Nazioni, ma a
differenza di tutte le guerre combattute precedentemente questo conflitto seppe coagulare intorno a sé il massimo consenso popolare,
ancor più dì quanto non fosse accaduto per la prima guerra mondiale
voluta da una ristretta minoranza di interventisti ma osteggiata dai
più.
Non va dimenticato che molti esuli
antifascisti fecero ritorno in Italia e partirono volontari per questa
guerra coloniale voluta dal fascismo e che Benedetto Croce insieme a
Luigi Albertini donarono alla Patria, per combattere il sanzionismo, le
loro medagliette d’oro da parlamentari e che la comunità ebraica di Roma
alienò oggetti d’oro della Sinagoga principale per contribuire alla
creazione fascista dell’Impero.
Eppure questa guerra, per certi versi pare
essere stata rimossa dalla storiografia ufficiale, quanto meno da quella
dell’istruzione obbligatoria, perché non aderente ad un certo pensiero
unico imposto da un clima politico post bellico esacerbato dalla guerra
civile.
Sulla
scia di un certo livore ideologico dettato da una imposta
mistificazione storica si è voluto (e potuto) parlare di questa guerra
solamente in chiave di accusa e di denigrazione buttando nel calderone
anti-fascista tutto quanto – positivo e negativo – senza mai fare
un’analisi oggettiva del periodo intercorso fra il 1922 e il 1943,
riproponendo in maniera quasi ossessiva sempre gli stessi temi, senza
mai contestualizzare o elaborare riflessioni sulle condizioni politiche, storiche e sociali che determinarono quegli avvenimenti, non tralasciando mai invece una semplicistica divisione del mondo in oppressi e oppressori, vincitori e vinti.
Analisi di parte hanno voluto azzerare la
coscienza critica dei lettori e soprattutto hanno rifiutato sempre la
storicizzazione dei fatti e l’analisi degli aspetti politico-diplomatici
che precedettero e accompagnarono il conflitto.
Vi è stata negli anni una preordinata e scientifica distorsione delle verità oggettive,
con grandi omissioni e la creazione di una serie di stereotipi e luoghi
comuni, facilmente assimilabili da coloro che credono solo in quello
che vogliono credere.
La campagna d’Etiopia si concluse con una
schiacciante vittoria da parte dell’Italia, essendo grande la
discrepanza nei rapporti di forze fra le due parti in causa, ma non è
solo questa l’analisi storico-militare che dovrebbe interessare. Motivo
d’orgoglio dell’intera guerra fu l’aspetto logistico, che espresse al
meglio un senso di organizzazione e di efficienza raramente
riscontrabile in Italia, ma non è mai stato affrontato dagli storici
impegnati ciecamente nella sola ricerche degli errori.
La guerra, come la pace, sono
momenti complementari e alternanti della vita dei popoli e della storia
del mondo, tali da non essere oggetti né di lode né di biasimo,
ma alcuni per decenni hanno pensato invece di poter giudicare gli
eventi della storia passata del proprio paese con un unico approccio
dettato da un odio ideologico – mai spento – come se i nostri padri e i
nostri nonni cercassero l’avventura, la morte e fossero tutti pretoriani
al soldo di un dittatore.
I
gendarmi della memoria hanno taciuto il clima di euforia di quegli anni
ed hanno anche taciuto che i nostri nonni e padri credevano davvero di
essere portatori di civiltà e giustizia e di combattere il male perché
l’Europa tutta, non solo l’Italia fascista, stava vivendo in pieno
positivismo. Erano gli anni del progresso e della società industriale:
scienziati, storici e letterati di tutto il mondo vivevano secondo i
nuovi sviluppi della scienza e degli ideali del Discours sur l’esprit positif del 1844 del filosofo francese Auguste Comte, riassumibili in “portare la civiltà”.
Per noi colonizzare significava portare in terra d’Africa la tranquillità, porre fine alle sanguinarie lotte tra le cabile e alle razzie , abolire la schiavitù, coltivare con i mezzi più moderni e sviluppare le coltivazioni alimentari indigene e tutelare i lavoratori introducendo leggi prima inesistenti, ampliare i commerci esistenti e crearne di nuovi, aiutare le popolazioni nelle carestie periodiche, curare gli indigeni e debellare le diverse epidemie.
Errori certo ve ne furono. Eccessi anche. Condannabili assolutamente. Ma non si può stigmatizzare tutta l’Italia di quegli anni per le azioni scellerate dei singoli.
Tutti quei soldati, italiani, erano uomini, con sogni, ideali, mogli e figli, nessuno
deve più provare a convincerci che sbagliarono tutto e che combatterono
per nulla o per una causa sbagliata perché laggiù, in Africa sono morti
pensando di fare del bene!
Alla loro
memoria dobbiamo pensare con rispetto ed onorarli. Le campagne
ideologiche sono per i pezzenti morali il cui unico credo è distruggere
non essendo mai stati in grado di creare.
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di © Alberto Alpozzi –
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