Angelo Forgione
– A dicembre 2018, il quotidiano sportivo torinese Tuttosport ha pubblicato la top 10 delle città più anti-juventine, esclusa Torino, ponendo al primo posto Napoli, davanti a Fiorentina e Bologna. Un’indagine senza spiegazioni, che però trova riscontro in quanto ho ampiamente argomentato nel mio Dov’è la Vittoria (Magenes), definendo la “classica” Napoli-Juventus la partita più significativa del Calcio italiano sotto il profilo sociale.
Si tratta infatti di due club con due tifoserie agli antipodi. Il
Napoli è a pieno titolo un simbolo di appartenenza e legame
territoriale. È il riferimento principe di una vasta provincia che, coi
suoi 3 milioni di abitanti circa, è la terza d’Italia per popolazione, e
non condivide il territorio con nessuno, diversamente da quanto accade a
Torino, ma anche a Roma, Milano e in tutti i maggiori centri del
Vecchio Continente.
Gli juventini
sono in ogni dove d’Italia, ma non più numerosi dei granata nell’area
urbana di Torino, dove si è bianconeri soprattutto se figli o nipoti di
immigrati del Sud. Lì vi sono il torinista e lo
juventino. A Napoli, invece, esiste il napoletano a troneggiare sulle
minoranze. Napoletano è il tifoso e napoletano è il cittadino.
L’appartenza calcistica e la cittadinanza, a Napoli, combaciano per
sovrapposizione e si unificano.
Secondo la mappa geografica del tifo, tracciata dall’osservatorio sul capitale sociale Demos & Pi, la Juventus è la squadra più “nazionale”,
nel senso che il bianconero è presente in modo massiccio nelle 4 aree
geografiche (Nord-ovest, Nord-est, Centro, Sud e Isole), anche se
interisti, milanisti, napoletani e romanisti fanno fortissima ma
localizzata concorrenza. Ma la Juventus è anche la più detestata
dello Stivale, il bersaglio preferito delle ire più accese dei tifosi
delle squadre avversarie. Per questioni di contesa del potere sportivo,
gran parte dei sostenitori milanisti e interisti indica proprio la Juve
come prima squadra “nemica”, nonostante la disputa interna per la
supremazia cittadina. Lo stesso fanno romanisti (pur astiosi verso i
cugini laziali), napoletani e fiorentini, per i quali influisce
nell’animosità la spiccata identificazione territoriale da opporre al simbolo massimo dell’identificazione egemonica e della “nazionalizzazione”. Sono questi i tifosi che vedono nella Juventus l’emblema del tifo apolide, privo di ogni radicamento geografico.
Tre sono le principali scintille d’innesco del tifo,
tutte legate all’identificazione antropologica: l’eredità patriarcale,
la fascinazione richiamata dal territorio e quella evocata dal successo.
I napoletani sono iniziati dalla seconda, gli juventini soprattutto
dalla terza. La Vecchia Signora si fidanza con tutti, anche con i
meridionali. Non si può certamente dimenticare che nel Paese
dell’emigrazione da Sud a Nord il tifo è, più che altrove, un veicolo di
riconoscimento e affermazione sociale. Già nell’Europa di fine
Ottocento gli operai attratti dai centri industrializzati, quelli dove
il Football andava attecchendo, ebbero un comportamento
collettivo: sradicati dalla loro terra, avvertirono la necessità di
sposare dei riferimenti locali, trovandoli nel Calcio, in modo da
sentirsi meno emarginati e piantare nuove radici. Lo stesso accadde a
Torino, lì dove il Calcio era fiorito, ovviamente, con la prima
industrializzazione italiana, quella che nel secondo Ottocento aveva
generato il “triangolo industriale” privilegiando Torino, Milano e
Genova e depauperando il Mezzogiorno. Negli anni del “miracolo
economico” si realizzò la più grande migrazione di massa mai
verificatasi nella nostra penisola: milioni di persone si spostarono dal
Mezzogiorno, abbandonando i campi per andare a lavorare nelle fabbriche
del Nord. Riempirono il “Treno del Sole”, un convoglio che dal 1954 al
2011 unì i due estremi della Penisola, da Palermo a Torino. Il capoluogo
piemontese passò dai 719.300 abitanti del 1951 a 1.167.968 del 1971,
mentre il suo hinterland fece registrare un aumento di
popolazione dell’80%. I nuovi arrivati presero il sopravvento sugli
immigrati del Nord-est e delle campagne piemontesi. In ordine di flussi,
si trattava di pugliesi, siciliani, calabresi, campani, lucani e sardi,
che fecero di Torino una città meridionale di dimensioni paragonabili a
Palermo.
Gli immigrati
trovarono lavoro in Piemonte, ma anche cartelli con un avviso
mortificante: “Non si fitta ai meridionali”. Quegli operai, con un
lavoro ma riversati nelle condizioni di vita più disagiate e al limite
della sopravvivenza, dovettero trovarsi un tetto ma anche un modo per
combattere l’emarginazione, nonostante fossero pronti a contribuire
massicciamente, con la loro preziosa manodopera, alla realizzazione del
prodigio industriale. Il Calcio divenne un pretesto per farsi accettare,
il veicolo più immediato per sentirsi più integrati. La Juventus, fino
ad allora sostenuta prevalentemente dalla buona borghesia torinese, ebbe
bisogno di un’immagine familiare da offrire ai lavoratori meridionali
della Fiat e una mano la diede la fallimentare spedizione al Mondiale
inglese del ‘66, segnata dalla disfatta contro la Corea del Nord: la
Federazione impose la chiusura delle frontiere, a partire dalla stagione
1967-68, nel tentativo di far crescere nuovi talenti nazionali. Come
mai in passato, il grande Calcio iniziò ad attingere da ogni regione
d’Italia, e a trarre notevoli benefici da questa situazione furono le
grandi squadre settentrionali, le uniche dotate di osservatori, che
trovarono fortune nel serbatoio dei giovani del Sud. Nel maggio del ‘68
la Juventus concluse il primo acquisto geopolitico della storia
calcistica italiana prelevando dal Varese il centravanti catanese Pietro
Anastasi, pioniere dei calciatori meridionali saliti al Nord per fare
fortuna, che, nel trapasso tra fine anni Sessanta e inizio anni
Settanta, divenne l’icona del popolo degli emigranti e la sua foto in
maglia bianconera entrò prepotentemente nelle case torinesi come in quelle siciliane. E
poi il sardo Antonello Cuccureddu, il siciliano-campano Giuseppe Furino
e il salentino Franco Causio. Una significativa rappresentanza dei
cosiddetti “sudisti del Nord” nei cinque scudetti juventini degli anni
Settanta che accrebbe la sempre maggiore simpatia degli emigranti
meridionali e dei tanti appassionati nel Mezzogiorno per la Vecchia
Signora.
Furono
proprio i meridionali di Torino, quelli che stavano costruendo le
fortune economiche della famiglia Agnelli, a iniziare a tifare in massa
per la squadra del padrone, trasmettendo la juventinità ai parenti
rimasti al Sud, sui quali faceva facilmente presa tutto ciò che
gravitava attorno al miraggio della ricchezza e del successo
settentrionale. Il Torino divenne la squadra dei torinesi, la Juventus
quella dei lavoratori immigrati. La squadra bianconera dominò gli anni
Settanta e i primi Ottanta, ingrandendo la sua tifoseria con nuove
generazioni di fedelissimi immigrati – figli e parenti – che si
identificarono con le vittorie della “zebra”, sul cui blocco fu
costruita la Nazionale che vinse i Mondiali del 1982. La Juventus si
rese così la squadra d’Italia, e il suo nome, che non è quello di una
città e non impone il cliché del campanile, agevolò il processo di diffusione della sua popolarità. Ancora oggi il Meridione è pieno di feudi juventini,
e la gran fetta di appassionati di certe zone che scelgono in età
infantile il cavallo vincente si identifica nelle squadre più blasonate,
Juventus su tutte. Invero, anche Milan e Inter attingono all’immenso serbatoio del Sud,
là dove è pieno di sostenitori che non accettano di legarsi alle
squadre delle proprie città per non condannarsi all’impossibilità di
competere ai massimi livelli; pur di recitare un ruolo da protagonista
in pubblico, barattano la sconveniente identità col vantaggioso potere.
Il bambino non vuole perdere perché non vuol soffrire, e crescendo si
porta dentro quella paura. Solo una piccola parte, in età più matura,
abiura l’iniziale scelta di cedere alla seduzione dei vincenti, la cui
motivazione d’origine è tutta in una frase pronunciata dall’icona
juventina Giampiero Boniperti: “Sono da compatire quelli che tifano per altri colori, perché hanno scelto di soffrire”.
Ecco perché
nessuna squadra è tanto amata e sostenuta quanto la Juventus. Ma anche
tanto detestata, perché con le sue vittorie nazionali fa soffrire gli
altri e perché rappresenta il simbolo sportivo dello sfruttamento dei
ricchi padroni sul proletariato operaio.
Lo
juventinismo, come il milanismo e l’interismo, supera i confini
regionali; cresce allontanandosi dai nuclei territoriali delle squadre
forti e attecchisce nei piccoli e medi centri che non riescono a
emergere nel Calcio che conta. I bambini di Siracusa, Olbia, Matera,
Teramo, Macerata e altre città fuori dai grandi giochi e lontane dai grandi capoluoghi
devono necessariamente fare una scelta che consenta loro di
partecipare, di non sentirsi totalmente esclusi, e per convenienza
inconscia si affezionano alle squadre più gloriose, oppure a quella che
sta compiendo un ciclo vincente al momento dell’esplosione della
passione calcistica. Per questo motivo Juventus, Milan e Inter sono le
squadre degli appassionati territorialmente “decentrati”, quelli che
vivono nelle province senza una storia calcistica. Ma anche le squadre
di quei distretti rappresentati da realtà calcistiche di un certo
rilievo, però storicamente incapaci di recitare un ruolo primario, lì
dove è spesso ostentata una fedeltà sdoppiata, una duplice passione: per
la squadra locale, che non ha legami stretti con la vittoria, e per
quella in grado di vincere, che non ha legami stretti col territorio. È
un modo di vivere il tifo che aiuta a gestire e risolvere un contrasto
interiore, più frequente nel Mezzogiorno e tipico di importanti centri
come ad esempio Bari, alla cui fede locale è spesso accostata quella per
una delle tre big.
Al
contrario, il Napoli è, al Sud, una realtà a sé stante, un monolito
quasi sacro. Non si può simpatizzare per il Napoli e per la Juventus
allo stesso tempo, soprattutto attorno al Vesuvio, in una provincia
amalgamata indivisibilmente alla sua squadra di Calcio. Napoli e il
Napoli creano un vortice continuo di identificazione con pochi paragoni
nel mondo. Il club azzurro è interpretato come unico vessillo sotto il quale cercare una dignità cancellata.
È un sacrosanto diritto di ognuno scegliersi la squadra per cui tifare,
anche se questa è di un altro territorio, soprattutto in un ambiente
sportivo in cui gli imprenditori stranieri comprano club che
rappresentano città con cui non hanno alcun legame e in cui militano
calciatori di ogni nazione, ma attenzione a non minimizzare l’importanza economica dei tifosi,
autori di una scelta di fede sportiva e di appartenenza spontanea che
determina vantaggi economici essenziali per l’esercizio delle società.
Vantaggi che derivano in buona parte proprio dalla passione cieca dei
tifosi. Dalla stagione 2010-11, infatti, la ripartizione dei diritti
televisivi è contrattata in modalità collettiva: il 40% è assegnato in
parti uguali a ogni società, il 5% è ripartito rispetto alla graduatoria
dei comuni di provenienza per popolazione, il 30% è distribuito sulla
base del computo di tre diversi parametri ottenuti dai risultati
sportivi, il restante 25% è frazionato in base alla classifica delle
tifoserie per quantità, fino a un massimo del 6,25%. Più sostenitori
hanno i club, più soldi portano a casa. È tutta qui l’importanza delle
scelte di appartenenza dei tifosi, che pure qualche soldino al
botteghino lo portano e di prodotti ufficiali ne comperano. Compreso il
passaggio, è facile evidenziare quanto sia influente la massa di tifosi
del Sud che sposano fedi nordiche, incidendo in tal modo nella
distribuzione a favore di territori lontani di parte dei proventi delle
pay-tv e dei ricavi commerciali.
Video - Antropologia del tifoso juventino/milanista/interista nel Napoletano
https://www.youtube.com/watch?time_continue=2&v=UxqrHi5vNm4
Video - Antropologia del tifoso juventino/milanista/interista nel Napoletano
https://www.youtube.com/watch?time_continue=2&v=UxqrHi5vNm4
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