di © Gianfranco Cenci – Tutti i diritti riservati
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Alcune settimane fa ho letto un articolo del fotogiornalista Alberto Alpozzi
sulla realizzazione in Somalia negli anni ’20 di un progetto di rete
ferroviaria modesta nell’estensione ma importante per l’economia del
Paese. Leggendo l’articolo sono rimasto piacevolmente sorpreso dalla
meticolosità e quantità dei dettagli tecnici sicuramente ignoti alla
maggior parte di coloro che si interessano alla qualità e quantità degli
investimenti fatti dall’Italia per tutte le sue colonie senza particolari differenze tra le une e le altre.
Proprio
i dettagli tecnici descritti dall’Alpozzi certificano la bontà e
serietà degli investimenti fatti all’epoca. Basta indicare un solo
parametro significativo, quello della velocità massima delle automotrici
(90 Km/h) che era pari a quella attuale delle automotrici su linee
secondarie tipo Savigliano-Saluzzo.
La lettura di quell’articolo mi ha indotto a
descrivere alcuni aspetti di questa infrastruttura da me conosciuta e
frequentata prima di compiere i 10 anni. Naturalmente è con senso di
nostalgia che ricordo come a quei tempi ogni pomeriggio accompagnavo mio
padre alla stazione ferroviaria per la spedizione al mercato di
Mogadiscio dei nostri prodotti ortofrutticoli.
La stazione era situata come quasi tutte le
aziende agricole sulla riva sinistra del Uebi Scebeli. Questa
precisazione è necessaria per quanto esporrò in seguito.
Fino agli inizi degli anni 30 del ventesimo
secolo la logistica pesante era quasi esclusivamente su rotaia per il
semplice motivo che gli autocarri (allora costruiti fondamentalmente per
finalità belliche) avevano una portata modesta, di pochi quintali, e
solo a partire dagli anni 30 cominciarono ad essere costruiti veicoli
commerciali capaci di trasportare varie tonnellate di merci.
Simultaneamente, con il progredire della tecnica meccanica, gli
automezzi divennero sempre più affidabili anche sulle lunghe distanze.
In Somalia, quando il Duca degli Abruzzi decise di realizzare un progetto agro-industriale nella zona di Giohar (chiamata poi Villaggio Duca degli Abruzzi),
si pose subito il problema della logistica sopratutto in relazione alle
centinaia e centinaia di tonnellate di attrezzature, impianti e
materiali da trasportare con gli inadeguati mezzi disponibili all’epoca.
Come esempio cito quello che mi raccontava mio padre e cioè che nel
1924, quando giunse in Somalia per essere assunto dalla SAIS (la società
creata dal Duca degli Abruzzi a Giohar) viaggiò per tre giorni interi a
bordo di un camion residuato della Prima Guerra Mondiale (un 18 BL o un
15 Ter) per percorrere i cento chilometri della strada sterrata
Mogadiscio-Afgoi-Villabruzzi; è vero che ciò avveniva in piena stagione
delle piogge, ma un uomo a piedi ci avrebbe messo più o meno lo stesso
tempo.
Quindi il progetto di una strada ferrata che
congiungesse il complesso agro-industriale di Giohar con Mogadiscio era
essenziale sia per il trasporto dei pesanti macchinari necessari alla
costruzione dell’industria che per il trasporto dei prodotti verso la
capitale, per il loro successivo inoltro e la distribuzione nel resto
del Paese.
In
quegli anni non si trattava certo di un’anomalia: la situazione era
identica in tutta l’Africa; basti pensare che anche in Kenya, colonia
ben più “anziana” della Somalia, entrò in funzione sin dai primi del 900
una ferrovia da Mombasa a Kampala in Uganda, mentre la strada asfaltata
da Nairobi a Nyeri
con attraversamento della Rift Valley fu costruita solo durante la
Seconda Guerra Mondiale da prigionieri italiani che gli inglesi ben
volentieri impiegarono dopo aver constatato cosa erano stati capaci di
fare in Etiopia, dove in pochi anni erano state realizzate centinaia di
chilometri di strade asfaltate.
Tornando alla ferrovia Mogadiscio-Afgoi-Giohar,
l’obiettivo era di facilitare i trasporti sia di derrate alimentari
dagli orti di Afgoi alla capitale, sia dello zucchero da Villabruzzi,
nonché di iniziare la penetrazione commerciale nel territorio del
Nord-Ovest della Somalia (Baidoa-Lugh Ferandi-Dolo) e verso il
territorio del Sud-Ovest dell’Etiopia (Galla Sidamo), regione molto
ricca di legname di grandi pregio, caffè, pellami di pregio etc. Senza
uno sbocco verso un porto somalo questi prodotti dovevano essere
trasportati fino a Gibuti, distante oltre mille chilometri lungo
percorsi impervi, con catene montuose da superare, che rendevano le
lunghe distanze assolutamente impercorribili. La discesa verso
Mogadiscio o Chisimaio dai territori del Nord-Ovest somalo e del Sud-Est
etiopico procedeva invece, lungo una piatta savana facilmente
percorribile.
In effetti, se si osserva il tracciato della ferrovia Mogadiscio-Vilabruzzi,
si vede che dopo Afgoi la strada ferrata non puntava direttamente verso
Giohar, ma raggiungeva un piccolo paesino chiamato Adalei, da dove poi
riprendeva il percorso più breve per la destinazione. Questo perché nel
progetto originario era previsto che da Adalei partisse una diramazione
verso Baidoa e Lugh Ferrandi proprio per raggiungere l’Etiopia.
Il progetto fu successivamente accantonato perché, dopo la guerra d’Etiopia
e l’uso di mezzi di trasporto sempre più sofisticati (Graziani importò
dagli Stati Uniti migliaia di camion Ford, Chevrolet, Studbaker etc. in
barba alle sanzioni, che gli USA rifiutarono sempre di applicare) l’uso
massiccio della gomma si dimostrò molto più efficace e suscettibile di
un ulteriore sostanziale sviluppo, assai meno problematico rispetto alla
ferrovia.
Comunque, alla vigilia della Seconda Guerra
Mondiale, la logistica in Somalia era perfettamente organizzata; fu,
infatti anche costruito un tronco di ferrovia a scartamento ridotto fino
a Bulo Burti (100 km a nord di Giohar) per agevolare il trasporto fino a
Mogadiscio dell’ottimo granito delle cave di quella zona (per inciso,
il masso sulla tomba del Duca degli Abruzzi ne è la prova) e la raccolta
di tutte le merci provenienti della regione del’Alto Scebeli, Ogaden
compreso.
Purtroppo con l’inizio della guerra non solo
questo progresso si arrestò ma, per un complesso di circostanze, tutto
fu cancellato, con furia direi quasi iconoclastica da parte degli
inglesi.
Ancora mi chiedo, dopo quasi ottant’anni,
come mai si sia potuto verificare l’unico caso al mondo di
smantellamento di una importante opera infrastrutturale in un Paese
sottoposto, è vero, al regime di occupazione militare, ma che avrebbe
dovuto vedere applicate le precise regole contenute nella Convenzione
dell’Aja. Secondo la stessa, infatti, l’occupante doveva
impegnarsi per la salvaguardia delle infrastrutture e costruzioni
creando, a tal fine, uno specifico ente preposto a questo compito.
In effetti i britannici crearono l’Ente che si
chiamò OETA, Occupied Enemy Territory Administration, ma lo
interpretarono come una licenza di rapina di qualsiasi cosa ritenessero
utile ai loro scopi. Altro che amministrazione e salvaguardia dei beni
occupati!
Fu questa una pagina della storia coloniale
britannica davvero triste ed infelice, sia per come si svolsero i fatti,
sia perché chi ne fu protagonista ne trasse scarso guadagno e molto
disonore, facendo rivivere un’antica tradizione piratesca cui diceva di
aver rinunciato da qualche secolo.
Fu
un danno fine a se stesso? Se si fa una analisi dei costi-ricavi molto
probabilmente sì. Basta ripercorrere tutto l’iter di questa azione che
insisto a considerare scriteriata. Infatti alla fine di febbraio del
1941 le truppe britanniche occuparono tutta Somalia e trovarono vicino
ad Afgoi un grande deposito di carburante con 350.000 galloni imperiali
inspiegabilmente non fatto saltare dal nostro esercito in fuga (forse i
militari avevano finito anche la disponibilità di fiammiferi). Gli
occupanti se ne appropriarono e lo utilizzarono per inseguire l’esercito
italiano in fuga senza dover aspettare i rifornimenti via mare con i
porti inagibili perché minati. Quella presa di possesso era un loro
diritto in quanto preda bellica. Altrettanto dicasi per gli automezzi,
trattori (anche privati) beni di qualsiasi utilità etc.
Quanto allo smantellamento della ferrovia invece
il discorso è completamente diverso. A fronte delle rimostranze degli
occupati l’obiezione britannica fu che gli italiani in fuga avevano
fatto saltare il ponte ferroviario sullo Scebeli ad Afgoi e quindi resa
la ferrovia inservibile.
Clamorosa menzogna, perché se è vero che la
ferrovia era Mogadiscio Afgoi-Giohar-BuloBurti, senza il ponte di Afgoi
era comunque perfettamente funzionale all’utilizzo cui fu destinata sin
dalla sua costruzione.
Infatti intorno alla stazione di Afgoi, sulla
riva sinistra dello Scebeli, quindi prima del ponte, erano situate tutte
le aziende agricole ortofrutticole che rifornivano l’intero mercato di
Mogadiscio tramite la ferrovia senza utilizzare il trasporto su gomma,
divenuto difficile per la carenza di automezzi e carburante.
Ma vanno aggiunte altre due considerazioni.
La
prima è che il ponte della ferrovia aveva una luce di soli 50 metri e
quindi ripristinabile in qualsiasi momento dopo la transitoria
belligeranza, anche con un semplice ponte Balley a quei tempi già in uso
a tutti gli eserciti, la seconda è che senza lo smantellamento dei
binari si sarebbe salvaguardato il ballast e quindi l’intera massicciata
sulla quale poggiava la rete ferroviaria, la terza è che la rapina dei
binari cominciò nel corso del 1942 e terminò nel 1943 cioè quando agli
Alleati non mancavano certo cento km di binari ed una diecina di
locomotori per vincere la guerra. Quindi tutta l’operazione anche ben
costosa perciò non aggiunse nulla alla loro economia di guerra, ma recò
danno irreparabile ad un paese che delle infrastrutture aveva molto
bisogno.
Personalmente ho un’altra teoria, fondata ovviamente su supposizioni e non prove.
Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale era
sotto gli occhi di tutti il fatto che, mentre nella Somalia italiana
erano in funzione centinaia di chilometri di strade asfaltate
o stabilizzate e una ferrovia efficiente, nel confinante Somaliland
inglese non solo non esisteva nemmeno un chilometro di binario, ma
l’asfalto era materia completamente sconosciuta, tanto che i buoni
somalilandesi dovettero aspettare il dopoguerra per vedere il primo
pezzo di strada asfaltata nel loro Paese.
TRATTO DA:
https://italiacoloniale.com/2018/09/20/somalia-1942-gli-inglesi-smantellano-la-ferrovia-costruita-dallitalia-e-si-rubano-le-locomotive/
TRATTO DA:
https://italiacoloniale.com/2018/09/20/somalia-1942-gli-inglesi-smantellano-la-ferrovia-costruita-dallitalia-e-si-rubano-le-locomotive/
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