Rispondiamo ad un articolo di Andrea Cavalleri pubblicato sul sito di Maurizio Blondet dal titolo
" Reddito di Cittadinanza: l'errore di Auriti "
" Reddito di Cittadinanza: l'errore di Auriti "
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L’amico
Andrea Cavalleri, ispirato da un precedente articolo di Maurizio
Blondet, ha proposto una interessante riflessione sul “reddito di
cittadinanza” e le sue problematicità.
Argomentando
in merito Cavalleri, senza alcuna intenzione polemica (di questo sono
certo), ha tirato in ballo la teoria monetaria di Giacinto Auriti in
modo, a dire il vero, alquanto fuori contesto dal momento che Auriti non
ha mai proposto, in forma diretta, alcun reddito di cittadinanza ma è
solo intervenuto, nel dibattito in questione, osservando che la teoria
della proprietà popolare della moneta, se applicata, avrebbe potuto
realizzare una forma di redistribuzione sociale del reddito monetario
che si avvicina a quella indicata, ma su altre basi, dai sostenitori del
reddito di cittadinanza.
Andrea
Cavalleri nel suo articolo ha fatto riferimento alle idee monetarie di
Silvio Gesell, il geniale ministro della repubblica socialista bavarese
dell’immediato primo dopoguerra. Le idee geselliane, di matrice
proudhoniana, non a caso furono, per certi aspetti, riprese, negli ‘20 e
‘30 del secolo scorso, dal maggiore C.H. Douglas con la sua proposta
monetaria fondata sul concetto di “credito sociale”.
La
proposta auritiana a proposito del reddito di cittadinanza tuttavia, a
parere dello scrivente, si avvicina, e non si pone in antagonismo,
all’idea geselliana della moneta quale strumento di redistribuzione del
prodotto del lavoro sociale.
Il
miglior servizio che si possa fare al pensiero economico dominante,
mainstream, è quello di opporre l’una all’altra le teorie monetarie
eterodosse in nome di inutili gelosie di scuola. Infatti le teorie
eterodosse colgono, tutte, i guasti della concezione materialista della
moneta, la moneta-merce del filone
smithiano-hayekiano-misesiano-friedmaniano, e tutte propongono diverse
concezioni che hanno il loro comune denominatore nel superamento del
concetto della moneta come una tra le tante merci scelte per essere
usata quale unità di scambio dei beni. Concezione, questa merceologica,
risalente ai tempi della moneta oro ma, a ben ragionare, infondata anche
a quei tempi. Qui però non possiamo affrontare questo tema dovendo, per
ragioni di spazio, restare sul piano degli argomenti proposti da
Maurizio Blondet, circa l’avanzare sull’onda grillina della proposta del
reddito di cittadinanza, e da Andrea Cavalleri, circa le connessioni
tra queste proposte e la teoria auritiana della moneta.
Innanzitutto
è necessario chiarirsi sul concetto di reddito di cittadinanza perché
spesso si fanno passare per tale proposte che tali non sono. Anche i
grillini parlano di reddito di cittadinanza ma in realtà, a
dimostrazione di quanta sia precaria la loro consistenza culturale,
fanno riferimento piuttosto ad una forma di reddito minimo garantito,
che è cosa diversa.
Infatti,
il “reddito di cittadinanza” – si vedano in proposito gli scritti,
facilmente reperibili sul web, di Andrea Fumagalli, docente di economia
all’Università di Pavia – è un reddito universale riconosciuto a ciascun
cittadino indipendentemente dalla sua ricchezza, quindi è riconosciuto
anche ai ricchi, indipendentemente dal fatto che il cittadino lavori o
meno ed indipendentemente dall’obbligo di seguire corsi di formazione
professionale per il reinserimento lavorativo. Il reddito di
cittadinanza ha, nelle intenzioni dei suoi sostenitori, un carattere
universalista ed incondizionato.
Il
citato Fumagalli, nei suoi scritti, elabora anche puntuali calcoli tesi
a dimostrare che il prelievo fiscale, opportunamente riformato in modo
da impostarlo a discapito della rendita finanziaria, ossia tassandola,
ed in base ad una accurata spending rewiew che elimini ogni altra
attuale forma di assistenza, che con l’introduzione del reddito di
cittadinanza sarebbe inutile, nonché tagliando spese inopportune, ad
iniziare da quelli militari (qui si sconta il tipico pacifismo anarchico
radicale), sarebbe in grado di garantire le risorse per applicare la
redistribuzione sociale del gettito stesso, assicurando un reddito
mensile pro capite aggirantesi tra gli 800 ed i 1.200 euro.
L’idea
base della proposta del reddito di cittadinanza sta, in particolare, in
una istanza tipicamente libertaria che è quella di liberare l’uomo
dall’obbligo di lavorare, soprattutto nella prospettiva futura della
completa automazione della produzione che necessiterà di procurare ai
consumatori il reddito necessario allo sbocco della produzione
automatizzata e – soprattutto, si badi – socializzata, dato che in
effetti l’automazione sta riportando alla ribalta, a dimostrazione di
come il capitalismo liberista si scavi da solo la fossa sotto i piedi,
utopie comuniste intese all’eliminazione della proprietà e dello Stato.
Nell’idea
di liberare l’uomo dal lavoro, o perlomeno di metterlo nelle condizioni
di accettare liberamente, e non per bisogno, un lavoro, riecheggia una
verità biblica che, però, i sostenitori del reddito di cittadinanza
misconoscono non tenendo conto del passaggio dallo stato adamitico a
quello post-adamitico dell’umanità e pretendendo di restituire a questa
quella originaria e perduta condizione indipendentemente dal Sacrificio
di Cristo sulla Croce. La Rivelazione ci parla di un uomo che anche in
origine era chiamato a lavorare – “coltivare l’Eden” – ma per il quale
il lavoro non era pena ma, nell’Amore di Dio al quale egli era unito
ontologicamente, gioia. Il lavoro diventa pena e condanna, fatica e
sudore, solo a seguito del peccato d’orgoglio ossia della pretesa umana
di autodeificarsi, di imporsi ontologicamente in termini
autoreferenziali che è come dire di non riconoscere più la propria
radice esistenziale in Dio. Non a caso in molte lingue il termine per
indicare il lavoro-pena è lo stesso di quello che indica la fatica ed il
dolore, compreso quello del parto, ossia “travaglio”. Nonostante il
peccato d’origine, che ha solo ferito e non del tutto corrotto la
struttura ontologica umana, il lavoro-gioia è ancora parzialmente
conservato in quelle attività creative dell’uomo come l’artigianato e
l’arte che sono caratterizzate da un’alta realizzazione spirituale che
rende non penosa la fatica umana. Ora, però, è evidente che qualsiasi
proposta intesa a restituire all’uomo il lavoro-gioia, senza alcun
riferimento alla necessaria Redenzione spirituale dell’uomo stesso,
altro non è che una scimmiottatura luciferina della Salvezza.
Il
reddito di cittadinanza è, a un punto di vista storico, una idea
post-fordista, una proposta di welfare post-statuale e post-keynesiano,
molto confacente alla società liquida e nichilista fondata su un acceso
individualismo anche, appunto, nella sua forma libertaria. Ecco perché
tale idea è diventata il cavallo di battaglia della sinistra
post-operaista, fuoriuscita dal ’68 anarco-libertario, molto vicina, per
certi versi, all’anarco-liberismo americano.
Dunque
non meraviglia il fatto che, come ha fatto osservare Maurizio Blondet,
il reddito di cittadinanza era visto favorevolmente anche dal padre del
neoliberismo monetarista, Milton Friedman, quale strumento per
assicurare il reddito necessario a sostenere la domanda per assorbire
l’offerta. Milton Friedman vedeva con favore il reddito di cittadinanza
proprio perché esso si palesa come un superamento della presenza attiva,
keynesiana, dello Stato nel mercato.
Questo
spiega perché, di recente, sono state avanzate ipotesi, applaudite
anche dalla sinistra, di “quantitative easing popolare” ossia di
redistribuzione della liquidità pompata dalla Banche Centrali non più
attraverso il sistema bancario, che non sempre assicura che detta
liquidità arrivi effettivamente alle famiglie, ma direttamente ai
cittadini che in tal modo, spendendola, riattiverebbero i consumi e il
mercato ingessato dalla deflazione. Dietro queste ipotesi, che
provengono dal mainstream economico, si cela, in realtà, il fronte di
resistenza liberista ad ogni possibile ritorno del keynesismo e di una
presenza attiva, mediante il deficit spending assicurato da Banche
centrali non indipendenti dai governi, dello Stato in economia.
La
pericolosità di queste proposte, come ben osservato da Blondet, sta
nella concezione elargitrice della redistribuzione che finirebbe per
fare dei cittadini i sudditi del già vasto potere central-bancario. Ora,
però, proprio la prospettiva auritiana, sulla quale torneremo, sarebbe
un impedimento a tale pericolo dato che, in quella prospettiva, nessuna
elargizione benevola e strumentale sarebbe ammessa ma l’attribuzione, o
accreditamento, della moneta sarebbe un diritto soggettivo, personale,
di ciascun cittadino all’atto dell’emissione monetaria, e non solo in
occasioni di crisi economiche.
Come
dicevamo, spesso si fanno passare per reddito di cittadinanza proposte
similari che in effetti hanno però diverse basi concettuali e diversa
funzionalità. Si confonde spesso il reddito di cittadinanza con il
“reddito minimo garantito”, che, raccomandato da alcune pronunce del
Parlamento Europeo e della stessa Commissione, già esiste in tutti i
Paesi dell’UE ad eccetto dell’Italia e della Grecia.
Il
reddito minimo garantito, a differenza del reddito di cittadinanza, non
ha carattere universalista ed incondizionato ma è un reddito attribuito
soltanto ai disoccupati ed ai poveri ed è legato all’obbligo della
formazione permanente e continua con l’obiettivo del reinserimento
occupazione di colui che ne beneficia. Esso è spesso accompagnato da
altri benefici finalizzati a sostenere il costo dell’affitto di casa e
quello del mantenimento dei figli commisurato alla concreta situazione
familiare (quindi diversificato a seconda che si tratta di famiglia con
entrambi i genitori disoccupati o con famiglia in cui un genitore lavora
o ancora che si tratta di famiglia monoparentale con il genitore che
non lavora o il cui reddito da lavoro sia insufficiente).
Il
reddito minimo garantito è una proposta di matrice ordoliberale e non a
caso è lo strumento di welfare tipico della Germania attuale la cui
filosofia sociale è appunto ispirata alla scuola ordoliberale di
Friburgo. Quindi quando i grillini avanzano la loro proposta di “reddito
di cittadinanza” condizionato alla formazione professionale ed
all’obbligo di accettare una proposta di lavoro stanno perorando una
forma di reddito minimo garantito, dunque una antica idea liberale, e
non di reddito di cittadinanza. Qualcuno dovrà pur dirlo a Beppe Grillo,
a Di Maio, alla Raggi e compagnia bella, che amano presentarsi, agli
allocchi che danno loro il voto, come il nuovo che avanza.
Il
reddito minimo garantito è una proposta probabilmente più realista del
reddito di cittadinanza, e forse anche meno costosa, e non a caso, come
detto, ha già trovato ampia applicazione nei Paesi dell’UE. Tuttavia è
anche una proposta chiaramente funzionale al capitalismo liberista in
quanto si preoccupa, scaricandone i costi sullo Stato, del reinserimento
occupazionale dei disoccupati che l’irresponsabilità liberista del
capitale – nonostante le tante chiacchere moraliste ed ordoliberali in
tema di “responsabilità solidale dell’impresa” a copertura della triste
realtà del cinismo più radicale – abbandona sulla strada e che lo Stato
non può “licenziare” dalla loro condizione di cittadini dovendosene
pertanto in un modo o nell’altro farsi carico.
Infatti,
il rovescio della medaglia del reddito minimo garantito è quello di
ampliare l’irresponsabilità sociale del capitale, che così può
tranquillamente delocalizzare tanto ai lavoratori licenziati ci pensa lo
Stato. Al fine di rendere il reddito minimo garantito meno funzionale
all’irresponsabilità liberista del capitalismo terminale si dovrebbe
affiancarlo con una serie di penalità per il capitale che abbandona i
lavoratori come quella di porre salati dazi doganali alla produzione
delocalizzata che pretende poi di rientrare sul mercato interno oppure
quella di far contribuire il capitale in una quota a tal punto rilevante
e tale da scoraggiare le delocalizzazioni ai costi del sussidio
garantito per i disoccupati.
Veniamo ora alla prospettiva auritiana in tema di reddito di cittadinanza.
Giacinto
Auriti ha iniziato a studiare le questioni monetarie e bancarie dagli
anni ’60 ossia in un periodo nel quale, ancora egemone il welfare
statualista e keynesiano, di reddito di cittadinanza non si parlava
affatto. Ed infatti il nostro ne ha iniziato a trattare solo negli
ultimi anni del secolo scorso, poco prima della morte, e solo
approfittando del fatto che l’idea in questione era ormai all’ordine del
giorno del pubblico dibattito. In tale dibattito egli intervenne per
dire che la sua teoria della proprietà popolare della moneta avrebbe
potuto facilitare l’applicazione delle proposte inerenti il reddito
garantito, di cittadinanza o solo minimo che fosse.
Dunque attribuire ad Auriti una qualunque paternità dell’idea del reddito di cittadinanza non è esatto.
Quello
che il nostro giurista della moneta faceva osservare ai sostenitori del
reddito di cittadinanza era semplicemente che l’eventuale messa in
opera della proprietà popolare della moneta, con il conseguente
accreditamento al cittadino all’atto dell’emissione da parte dello Stato
o della Banca Centrale della moneta medesima, diventava ipso facto il
modo più realista di avvicinarsi alla redistribuzione del reddito
direttamente ai cittadini. Realista perché tale redistribuzione non
sarebbe avvenuta ad ogni esercizio finanziario dello Stato, come si
pretende, ma solo ad ogni nuova emissione di moneta, quindi non sempre
ma solo periodicamente. L’applicazione di una forma di reddito garantito
nella prospettiva auritiana taciterebbe le critiche di coloro che
additano il reddito di cittadinanza come un mero espediente per
mantenere a carico di chi lavora la parte inattiva della popolazione e
consentire ai disoccupati di non impegnarsi nella formazione
professionale per la ricerca di una occupazione.
L’amico
Andrea Cavalleri accenna nel suo articolo anche una critica al concetto
di “valore indotto” che Auriti ha posto alla base della sua teoria.
Però Cavalleri non sembra aver ben compreso il significato autentico del
“valore indotto” auritiano che non è altro che un nome diverso del
concetto di “potere d’acquisto”.
Il
“valore indotto” è la risposta alla domanda “per quale motivo un pezzo
di carta senza alcun valore intrinseco possiede la capacità di
acquistare beni di valore”?
Nell’epoca,
molto antica, dell’oro e degli altri metalli preziosi tagliati sui
banchi dei mercanti e pesati per commisurare il valore dei beni che si
scambiavano, il metallo era uno tra i tanti beni usati per
l’intermediazione commerciale. Da qui la svista, che denota una
concezione retrò ed attardata, della Scuola Austriaca (von Hayek e von
Mises sulla scia di Adam Smith) che continua a ritenere la moneta una
merce ed invoca il non abbandono del gold standard, capace di garantire
la stabilità dei prezzi: assunto nient’affatto veritiero giacché anche
l’oro in quanto bene è suscettibile, per molteplici ragioni, di
variazione di prezzo.
Per
la fase storica nella quale si tagliavano e si pesavano i metalli, per
misurare il valore dei beni da scambiare, non ancora si può parlare di
moneta ma solo di baratto. Questo perché, sebbene già in quel momento
fosse necessario l’accordo tra gli agenti commerciali sul tipo di
metallo e sulla quantità necessaria agli scambi – accordo generalmente
garantito da patti sacralmente consacrati all’ombra dei templi che
costituivano, per l’epoca, l’elemento “fiduciario” ossia “indotto”
sussistente anche in quella fase primordiale – di moneta vera e propria
può parlarsi solo con l’intervento dell’Autorità politica, che era in
antico anche Autorità religiosa, attraverso la coniazione della moneta
aurea o argentea o ramata.
E’
stata la coniazione a trasformare il semplice pezzo di oro, o argento o
rame, pesato sui banchi in moneta ovvero è stata la coniazione, anche
per impedire truffe e per imporre un ordine monetario, ad attribuire
all’oro, o all’argento o al rame, il “potere d’acquisto”
indipendentemente dal suo valore intrinseco di merce, benché questa
indipendenza non si palesò immediatamente alla coscienza sociale. Era
moneta, ossia potere d’acquisto obbligatorio per tutti, solo il pezzo di
oro, o argento o rame, fuso nella quantità stabilita dal sovrano e che
recava la sua immagine.
Quando,
più tardi, venne introdotta la carta moneta questo avvenne, in
occidente e nel medioevo, ad opera di mercanti e cambiavalute (i
precursori dei moderni banchieri) che la introdussero quale certificato
di deposito o cambiale garantita dalla moneta aurea e coniata ad essa
sottostante. In tal modo la carta moneta assunse presso il pubblico un
carattere fiduciario di riserva di potere d’acquisto legale in quanto
garantita dalla moneta metallica coniata. Così appunto avvenne. Ma
poteva anche non accadere laddove il pubblico, o parte di esso, avesse
rifiutato la carta moneta preferendo, per maggior fiducia, la moneta
aurea coniata.
Successivamente,
proprio allo scopo di rafforzarne la fiducia presso il pubblico, anche
la moneta cartacea finì per entrare nell’area del conio statuale fino ad
assumere potere d’acquisto obbligatorio per legge. Questo accadde ad
iniziare dalla fondazione nel 1694 della Banca d’Inghilterra, ossia
della prima Banca Nazionale antesignana della moderne Banche Centrali,
che ottenne dal re l’appalto in monopolio dell’emissione di carta
moneta, garantita dalle monete auree o dall’oro presso di essa
depositato, per poi prestare, a scopo di profitto speculativo, detta
moneta cartacea sia allo Stato che al pubblico, mosso a fiducia
dall’imprimatur regale, ad un tasso di interesse pari all’8% ma
stampandone in quantità più che proporzionale ai depositi.
Quando
Giacinto Auriti parlava di “valore indotto” si limitava a tradurre in
termini giuridici, gius-privatisti per la precisione essendo egli un
civilista, questo percorso storico in verità basato più sulla
consuetudine, appunto indotta, all’accettazione di moneta cartacea di
origine bancaria, nella convinzione della garanzia costituita dalla
moneta aurea legale ad essa sotto stante, che non sulla “convenzione”
che era il termine, giuridico, preferito dal professore guardiese.
Proprio
perché il potere d’acquisto della carta moneta si fonda su detta
accettazione fiduciaria essa, la moneta cartacea, sostiene Auriti, deve
essere accreditata, e non addebitata, ai cittadini ed allo Stato
all’atto dell’emissione, ossia all’atto della creazione di moneta dal
nulla, da parte della Banca Centrale e, aggiungiamo noi, da parte della
banche ordinarie nel caso della moneta bancaria creata ex nihilo
anch’essa.
Auriti
cerca di spiegare il fenomeno dell’accettazione fiduciaria della carta
moneta, che è stato il risultato di un processo storico piuttosto che di
una “convenzione tacita”, con circonvoluzioni filosofiche del tipo “la moneta in quanto misura del valore è anche valore della misura”
le quali intendono esprimere una concezione dell’utilità,
autorefenziale al soggetto, quale rapporto tra fasi nel tempo, tra la
fase strumentale e la fase edonista: uno strumento acquista utilità per
chi ne prevede l’uso, una penna è utile solo per chi prevede di
scrivere, sicché la moneta, cartacea o aurea, è utile solo perché
prevedo lo scambio dei beni con essa attuabile.
Tuttavia
questo elemento soggettivista in Auriti evita le aporie dell’idealismo,
ossia l’indistinzione tra io e non-io, tra soggetto ed oggetto, laddove
l’approccio soggettivo al giudizio di valore è riconnesso, nella sua
teoria monetaria, al realismo filosofico, accreditato con certezza dalla
tradizione teologica cattolica, per il quale l’ordine della realtà è
dato, donato, e non costruito dal soggetto, perché l’io trova l’ordine
intorno a sé ed indipendentemente da sé in quanto donato da un Amore
Superiore. In tal modo in Auriti, pur fondandosi il giudizio di valore
su un approccio alquanto soggettivista, viene mantenuta la distinzione
ontologica tra soggetto ed oggetto, sul piano orizzontale, e quella tra
Creatore e creatura, sull’Asse verticale.
Alcuni
critici hanno contestato Auriti mettendo in rilievo che il potere
d’acquisto della moneta cartacea non è dato tanto dall’accettazione
fiduciaria di essa da parte dei cittadini, o un tempo dei sudditi,
quanto, appunto, dal fatto che lo Stato impone ex lege, mediante il
conio, il potere d’acquisto. Esistono – affermano detti critici –
precise norme giuridiche le quali stabiliscono che i pagamenti debbano
avvenire in moneta cartacea a corso legale, sicché se qualcuno non
accettasse detta moneta nulla potrebbe pretendere, in sede giudiziaria,
dal debitore il quale, a fronte del suo rifiuto di creditore, abbia
deposto la somma oggetto del dovuto presso una banca o un notaio, a
disposizione del creditore, liberandosi così dal debito. E’ pertanto,
dicono i critici di Auriti, la legge a stabilire l’effetto liberatorio
della moneta cartacea a corso legale e non la fiducia in essa riposta
dai cittadini, ossia il “valore indotto”.
Altri
critici, vicini alla Modern Money Theorie, fanno osservare che la
moneta, cartacea o aurea, assume potere d’acquisto, quindi anche corso
legale, in quanto è lo Stato a stabilire che le tasse ed i servizi
pubblici possono essere pagati solo con la moneta a corso legale,
cartacea o aurea, ossia quella imposta dallo Stato medesimo. Pertanto
anche laddove i cittadini accettassero orizzontalmente, come mezzo di
pagamento, un simbolo monetario diverso da quello ufficiale poi
dovrebbero cambiare quel simbolo con quello legale, imposto dallo Stato,
per pagare i tributi ed accedere ai servizi pubblici, ossia ogni qual
volta essi entrassero in contatto con il Pubblico Potere. In effetti il
“valore indotto”, storicamente, come si è visto, si è manifestato come
“induzione” dei sudditi da parte del sovrano ad aver fiducia nella
cartamoneta emessa dalla Banca, fino ad assumere, nel tempo, il
carattere massimo di “induzione obbligatoria” con l’imposizione del
corso forzoso per la moneta cartacea di origine bancaria.
Questi
critici colgono senza dubbio alcuni aspetti del fenomeno monetario in
qualche modo non ben chiaramente evidenziati da Auriti e tuttavia, a ben
vedere, tali critiche non vanificano affatto la validità della teoria
auritiana.
Auriti
da civilista era portato a ragionare in termini di “convenzione” o di
“contratto”, avvicinandosi sotto certi profili al contrattualismo
sociale (del resto egli era di giovanile, benché poi superata,
formazione culturale liberale), e dimenticava che nel “contratto
sociale”, proprio perché essa impone una sola moneta, quella coniata ed a
corso legale, con effetto liberatorio per il pagamento dei tributi e
per la risoluzione inter-soggettiva tra cittadini dei rapporti
creditizi, l’Autorità politica, lo Stato, entra a pieno titolo.
L’Autorità politica della convenzione monetaria diventa, insieme ai
cittadini, protagonista principale. Auriti troppo attento all’aspetto
orizzontale del patto sociale dimenticava l’aspetto verticale
altrettanto importante e cogente.
D’altro
canto, però, in una concezione contrattualista, come quella alla quale
in qualche modo la tesi auritiana si avvicina, la stessa legge, ad
iniziare dalla costituzione, altro non è che l’espressione per
eccellenza del contratto sociale. Sicché la legge che impone il corso
legale del simbolo monetario, cartaceo o aureo, che quindi mediante il
conio induce il potere d’acquisto nel simbolo, è essa stessa la
convenzione sociale monetaria alla quale faceva riferimento Auriti. La
legge, in altri termini, è essa stessa la convenzione tra i cittadini
che attribuisce “valore” al simbolo monetario, cartaceo o aureo.
Qui, dal punto di vista cattolico che era quello che rivendicava Auriti per sé, si apre un delicato problema filosofico.
Non
c’è alcun dubbio sulla adesione di Auriti alla fede cattolica. Egli, ad
esempio, indicava nella proprietà popolare della moneta l’unico modo
per realizzare concretamente la Dottrina Sociale Cattolica fondata sulla
“proprietà per tutti” (Leone XIII) ossia sulla redistribuzione sociale,
non sulla abolizione, della proprietà. Egli, infatti, spiegava che il
“valore indotto” sotto il profilo giuridico si palesa come un “bene
immateriale” ed, in quanto tale, oggetto del diritto di proprietà.
Mentre la dottrina liberale, elaborata per i ricchi, concede a tutti
formalmente la tutela e la garanzia del diritto di proprietà, ma non
anche sostanzialmente la proprietà a tutti, e mentre la dottrina
marxista, nel tentativo di garantire a tutti il godimento della
proprietà finisce per negarne alla persona umana il diritto formale
attribuendo ogni godimento di fatto delle proprietà nazionali alla
nomenclatura del Partito Unico, impadronitosi dello Stato, la teoria
popolare della moneta, sosteneva Auriti, attribuisce a ciascun cittadino
sia il diritto di proprietà sia il contenuto sostanziale di tale
diritto, ovvero il bene immateriale, il valore indotto o potere
d’acquisto, contenuto nel simbolo monetario, realizzando così il
“diritto (a contenuto) sociale” e la connessa redistribuzione dei beni
auspicati dal Magistero della Chiesa.
Orbene,
il ricorso da parte di Auriti al concetto giuridico di “convenzione
monetaria”, come detto, finisce per avvicinarlo al contrattualismo
sociale che non è proprio compatibile con l’idea cattolica della
comunità politica. La quale nella concezione cattolica non è tale per
contratto, come ritenevano Hobbes, Rousseau e Locke, pur ciascuno con le
proprie peculiarità filosofiche, ma è tale per natura, come ritenevano
invece l’Ipponate e l’Aquinate.
L’uomo
per nascita e per status esistenziale appartiene sempre ad una o più
comunità, una delle quali è la comunità politica che nella storia ha
assunto forme diverse e da ultimo, nella modernità, quello dello Stato
nazionale, attualmente in via di superamento post-moderno.
L’appartenenza sociale dell’uomo non è mai una sua libera scelta o una
sua decisione volontaria e soggettiva. Gli uomini non stipulano alcun
fantomatico “contratto sociale” dal quale dipenderebbe ontologicamente
la comunità e la stessa Autorità politica. Non è affatto il patto tra
liberi ed eguali che da origine alla comunità politica. Essa ha origine
per natura ossia per quella legge di natura da Dio infusa nella
struttura creaturale dell’umanità.
Si
nasce in una famiglia ed in una nazione, dunque si vive in un contesto
politico, non per scelta né, come ritengono i contrattualisti, si può
scegliere di rinnegare nascita ed origine per stabilire
contrattualisticamente un’altra forma di convivenza sociale a proprio
beneplacito. Anche le capacità e le doti che Dio dona a ciascuno di noi
non sono una nostra scelta sicché persino l’appartenenza professionale,
benché spesso imposta anche da altre circostanze sociali, non dipende
esclusivamente dalle proprie soggettivistiche scelte ma dalla propria
“vocazione” e, nell’attuale condizione post-adamitica, solo chi riesce a
realizzarla conosce un approccio gioioso e non penoso al lavoro, a
dimostrazione che, appunto, anche i talenti – che non a caso erano una
moneta e furono usati nella nota parabola evangelica – sono un dato di
natura e non una scelta volontaria. E’ molto importante ricordare questo
oggi che le assurde teorie del gender vogliono far credere che persino
la sessualità sarebbe una scelta volontaria, culturale, e non un dato di
natura, sicché chiunque a proprio piacimento può decidere di essere
uomo o donna indipendentemente dalla propria oggettiva sessualità di
nascita.
Tuttavia,
e con ciò vogliamo recuperare Auriti al suo dichiarato cattolicesimo,
benché il fondamento del Politico sia per natura, e non per contratto,
l’elemento soggettivo, dunque la volontà umana e quindi l’aspetto
contrattuale, ha un suo ruolo anche nel contesto della dottrina
cattolica sulla comunità politica purché resti salvo il fondamento di
natura del Politico. In altri termini se la comunità politica non nasce
per contratto, quel che dalle decisioni umane, quindi mediante forme
contrattuali, possono nascere sono le deliberazioni che traducono dalla
potenza all’atto il Politico, il quale però rimane, in essenza, un
ambito naturale nel più vasto Kosmos molteplice, gerarchicamente
disposto dallo Spirituale al materiale passando per lo psichico, della
Creazione. La nascita del Regno d’Italia è stata proclamata nel 1871 e
quella della forma repubblicana dello Stato italiano nel 1846 per
deliberazione umana ma questo non significa che lo Stato, o meglio la
Comunità Politica della quale lo Stato è solo la versione moderna, in
sé, ontologicamente, abbia fondamento deliberativo, contrattuale,
volontarista. La proclamazione del Regno d’Italia e quella della
Repubblica Italiana sono stati solo la traduzione, questa sì per
decisione umana, dalla potenza all’atto della Comunità Politica quale
idea, o ente ideale, ontologicamente sussistente in Dio e riflessa, per
natura, nella creazione e nella storia (se poi questa o quella comunità
politica, questo o quello Stato, conformano i propri ordinamenti alla
legge di natura, riflesso di quella eterna, è altro discorso, ben
potendo la protervia umana imporre ordinamenti ad essa contrari). Si
può, in proposito, fare il paragone con il matrimonio che è
sacramentalmente indipendente dalla volontà umana, perché istituito da
Dio, ma che si attua mediante il libero consenso dei nubendi. Così la
comunità politica è di natura, quindi voluta da Dio, ma trova
storicamente attuazione, nelle sue varie forme, anche per decisione
umana.
Tenendo
conto di questo, il presunto “contrattualismo” auritiano si rivela
invece perfettamente conforme al tradizionale insegnamento cattolico sul
Politico, laddove la “convenzione monetaria” venga intesa non quale
fondamento soggettivista del fenomeno monetario, che invece dipende dal
ruolo naturale attribuito da Dio, nel più vasto Ordine della Creazione,
all’Autorità politica, espressione del corpo sociale dei cittadini e di
cui la sovranità monetaria è attributo tra i principali, ma quale mero
momento attuativo del fondamento naturale del fenomeno monetario nel suo
passaggio ontologico dalla potenza all’atto.
Abbiamo
detto che è inopportuna ogni diatriba tra scuole monetarie eterodosse,
ciascuna delle quali coglie un dato di verità, a fronte dell’egemonia
del mainstream classico e neoclassico.
Il
mainstream riduce, con nostalgia materialista dell’oro, la moneta ad
una merce laddove invece il suo carattere non merceologico è sempre
stato un fatto evidente sin dal tempo della coniazione della moneta
aurea la quale, prima di essere coniata per atto politico del sovrano,
non era neanche moneta ma solo merce da baratto, ossia non possedeva il
potere d’acquisto fiduciario (fiducia nell’accettazione del simbolo, in
origine metallico, non per il suo valore intrinseco ma per accordo)
garantito dall’Autorità politica.
Scollegare
le teorie monetarie eterodosse, invece di coglierne le evidenti
convergenze, non è mai un buon servizio alla causa della lotta
all’egemonia usurocratica.
Auriti,
per il quale la moneta era prima di tutto una fattispecie giuridica e
solo dopo anche economica, svelando il “valore indotto” come
spiegazione, ed altro nome, del “potere d’acquisto”, appartiene a pieno
titolo al novero di coloro che rigettano il fondamento materialista
dello strumento monetario ed accolgono la dematerializzazione della
moneta come un grande passo dell’intelligenza umana il quale al pari di
ogni atto dell’umana intelligenza, del tutto libera di accettarsi quale
immagine di Dio o di annientarsi prometeicamente nel rifiuto di tale
iconicità, può essere benefico o malefico a seconda della disposizione
spirituale di apertura o di chiusura del cuore alla Verità rivelata.
La
concezione del “valore indotto” quale “bene immateriale”, suscettibile
di diritto di proprietà, pone Auriti tra i contestatori della moneta
merce, e quindi tra i fautori della necessaria dematerializzazione dello
strumento monetario, benché, per un altro verso, continui a sussistere
in lui anche una concezione patrimoniale della moneta ma, appunto, non
più materialistica.
Ora,
per Auriti e per gli altri eterodossi della moneta il problema vero
resta quello dell’ancoraggio della moneta, che non ha valore intrinseco,
neanche nel caso della moneta aurea, a causa della materia dalla quale è
costituita, ad un ordine etico eteronomo che chiama poi inevitabilmente
in causa l’ambito del Politico e quello del Santo/Sacro. Ma questo è un
discorso che ci porterebbe troppo lontano e che qui lasciamo solo quale
accenno.
Auriti
definiva la moneta “valore indotto/bene immateriale”, Ezra Pound
“certificato di lavoro compiuto garantito dallo Stato”, Augusto Graziani
“segno o simbolo di una promessa di pagamento”, Fernando Ritter
“pseudo-capitale”, ma tutti avevano, ciascuno a modo suo, intuito il
carattere non merceologico della moneta.
Anche
la concezione di Gesell, secondo la definizione proposta dall’amico
Andrea Cavalleri, per la quale la moneta è “unità di misura della
proprietà” o “titolo in bianco di proprietà” appartiene al novero
eterodosso della contestazione del carattere di merce della moneta.
Perché è evidente che se essa serve ad acquistare i beni della
produzione umana, del lavoro umano, sicché ciascuno mediante la moneta
si appropria di una quota del lavoro sociale al cui ammontare globale ha
contribuito con le sue fatiche da degnamente ricompensare, essa non è
una merce, quindi non siamo in presenza di un baratto, ma uno strumento
comunitario, un simbolo, al quale quella comunità ha deciso di
attribuire, per fiducia e per disposizione normativa, il potere
d’acquisto, nel quale ha deciso di indurre “valore indotto” determinato
dall’accettazione popolare e dal corso forzoso e legale del simbolo in
questione.
L’idea
geselliana della moneta quale strumento di redistribuzione sociale dei
beni prodotti da una comunità nazionale affonda le sue radici nel
socialismo non marxista sulla scia tracciata da Joseph Proudhon con la
sua proposta di una banca popolare, che altro poi non era che la
riproposizione delle esperienze mutualistiche, caritative e
solidaristiche già conosciute dalla Cristianità medioevale con gli
antichi monti di pietà.
L’emergere
a fine XIX secolo, sia in seno al cattolicesimo tradizionalista
intransigente e sociale sia in seno al socialismo a-marxista, del
movimento cooperativistico fondato sulla casse mutue e le banche
popolari fu l’espressione di una sensibilità social-creditista, che più
tardi il maggiore C. H. Douglas tentò, senza particolare successo, di
strutturare scientificamente e politicamente. Sensibilità alla quale si
ispirò anche Silvio Gesell quando, da ministro della effimera repubblica
bavarese, introdusse la sua moneta prescrittibile, poi ripresa negli
anni ’30, con notevoli pubblici vantaggi, dal sindaco del paesino
austriaco di Wörgl.
Ecco
perché mettere in opposizione Giacinto Auriti e Silvio Gesell, pur con
le differenze tra essi riscontrabili che tuttavia non ne fanno dei
nemici, non ha molto senso. Anche considerando che tra i due c’è Ezra
Pound quale garante di una continuità di pensiero lungo una linea la
quale non inizia con Gesell e non finisce con Auriti perché si tratta
della atavica, primordiale, riflessione umana sul fenomeno monetario e
le sue implicazioni etiche di giustizia.
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