mercoledì 1 giugno 2016

“Dove vai, Starace?”

di Giovanni Di Martino
staraceA bere il caffè!”. E con questa risposta, semplice e veritiera, si è firmato da solo la condanna a morte. Una morte sfiorata molte volte nel corso di tre guerre combattute, ma arrivata ed affrontata con i paraocchi, esattamente come alcuni lo tacciano di aver vissuto.
Gallipoli è una città feconda di uomini politici d’ogni partito, che molti anni prima di D’Alema e Buttiglione, dà i natali ad Achille Starace, il gerarca fascista con più medaglie sul petto e più barzellette sul conto. Segretario del PNF per quasi dieci anni (1931–1939), è stato abbastanza facilmente bollato dalla storiografia come un ottuso esecutore di ordini. La lunga durata in carica (inusuale per i collaboratori di Mussolini: solo Badoglio e Bocchini sono durati più di lui nelle rispettive cariche) gli avrebbe consentito di contaminare con la propria ottusità tutto il paese. Starace è dunque ricordato unicamente per aver messo in divisa gli impiegati pubblici, per avere abolito la stretta di mano e per avere costretto gli italiani a interminabili pomeriggi di esercizi ginnici e salti nel cerchio di fuoco.
È noto come Mussolini abbia avuto sia grandi intuizioni che smisurati abbagli nella scelta dei collaboratori, tuttavia è improbabile che nel caso di Starace si sia trattato di un abbaglio lungo dieci anni. Perché – come scrive Antonio Pennacchi – il bello delle dittature è proprio quello: se una persona funziona la investi immediatamente, senza aspettare concorsi e gare d’appalto, mentre se una non funziona la esautori altrettanto immediatamente, senza aspettare che scada il suo mandato.
starace_alpinoAchille Starace è un fascista della prima ora. Ha fatto da interventista la Grande Guerra e, da prima della marcia su Roma, occupa cariche organizzative di grande peso all’interno del partito. È efficientissimo, ma inviso a tutti, non ha un seguito o una clientela nemmeno nella propria terra, dove il fascismo è spaccato tra i mazzieri a cavallo di Caradonna (al soldo dei latifondisti) e l’Opera combattenti di Crollalanza (che invece espropria la terra e la riassegna ai poveri). Non sembra pertanto destinato ad incidere nei destini del paese, non essendo un fascista di sinistra, né di destra, ma essendo devoto solo al capo. Sarà proprio il capo a ritenere ben presto di avere bisogno di lui. E si tratta di una grande intuizione – si badi – non di uno smisurato abbaglio.
Arrivato al potere, Mussolini non dimentica l’insegnamento di Giolitti, secondo cui per controllare il paese sarebbe stato necessario controllare i prefetti. Assume quindi ad interim per diciotto anni la carica di ministro dell’interno e riceve tutte le mattine alle nove il capo della polizia, che gli fa rapporto su ogni cosa. Stando così le cose, il destino del partito e delle squadre d’azione (tanto necessarie prima della presa di potere quanto inutili a potere consolidato) diventano un problema da risolvere. Ora il fascismo è lo Stato, quindi disordini e pulsioni vanno del tutto messe a tacere. I fascisti, insomma, devono essere normalizzati. Così le squadre vengono inquadrate (non senza infiniti problemi) nella Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, una quarta forza armata con compiti di polizia postale, confinaria, ferroviaria, stradale e portuense), mentre il partito diventa – o almeno deve diventare – una struttura politica parallela allo Stato. In ogni provincia comanda il prefetto, ma anche il federale. In ogni comune c’è il podestà, ma anche il segretario del fascio. Non si tratta di un compito facile, anche perché il fascismo nasce con radici eclettiche (socialisti e nazionalisti, mangiapreti e cattolici, contadini e proprietari terrieri). Ci vuole l’uomo giusto, soprattutto dopo la segreteria di Farinacci, teorico della rivoluzione permanente, ossia dell’esatto opposto.
augusto_turatiL’uomo giusto è Augusto Turati, squadrista bresciano che accetta di buon grado di abbandonare il manganello dopo la presa del potere perché ritiene esaurito il ruolo delle squadre. È onesto, fidato, sportivo: uno Starace ante litteram. Turati inizia una paziente opera di normalizzazione e pulizia interna, soprattutto della federazione fascista di Milano, corrotta fino al midollo e purgata con l’aiuto di Starace. La segreteria di Turati potrebbe durare all’infinito, ma il non guardare in faccia nessuno gli procura troppi nemici, tra cui Balbo, De Vecchi, lo stesso Starace e Farinacci, che non gli risparmia una campagna di diffamazione su ogni fronte. Turati, fin troppo onesto, si fa da parte e finirà al confino. Mussolini nomina al suo posto Giovanni Giurati, presidente della Camera ed ex ras di D’Annunzio a Fiume. Giurati prende troppo alla lettera l’ordine di continuare la pulizia interna e dimezza gli iscritti, espellendone oltre 110.000. Alla notizia il duce quasi si sente male e lo allontana. I colpi di testa devono finire.
Starace? Ma Starace è un cretino!”. “Sì, ma un cretino fedele”. Il duce replica così all’obiezione sulla scelta del nuovo segretario avanzata da Leandro Arpinati, sottosegretario all’interno e presidente del CONI. La scelta è fin troppo chiara: Mussolini sa che di uno come Starace ha bisogno e sa anche che Starace dirigerà il partito con piglio fermo e paziente, senza brusche sterzate o accelerazioni improvvise. Senza farsi togliere di mezzo da nessuno. Non per ambizione, ma perché dirigere il partito è quello che il suo capo gli ha ordinato e lui non desidera altro che eseguire l’ordine e non lascerà che gli altri gerarchi gli impediscano di eseguirlo.
Starace_in_fiammeStarace, che, come ammetterà sua figlia, “respira per ordine del duce”, si mette a lavoro. Sa cosa fare: normalizza, organizza, ordina. Attira su di sé ogni sorta di critica per l’eccesso di zelo e l’oltranzismo, ma se ne frega e tira dritto (d’altronde anche quelli sono ordini del capo). Le barzellette non tardano ad arrivare, i suoi sottoposti gli preparano l’epitaffio: “Qui giace Starace, vestito d’orbace, in guerra fugace, in pace precace, di niente capace, riposi in pace”. Lui però, finché è vivo, mette tutti in riga, tutti in divisa, tutti a fare ginnastica; e dà il buon esempio, saltando per primo dentro il cerchio di fuoco e alzandosi di buon’ora per andare al galoppatoio. Prende il posto di Arpinati, dopo l’abiura di quest’ultimo, a capo del CONI, e sotto di lui l’Italia vince due campionati del mondo ed una medaglia d’oro olimpica nel calcio, e si affermano campioni come Primo Carnera e Gino Bartali.
Ogni giorno manda al suo capo un rapporto dettagliatissimo ed ogni giorno se ne esce con un nuovo foglio d’ordine per gli iscritti al partito: basta con il “lei”, basta con la vita comoda, basta con il burro, basta con le parole straniere. Tutto viene italianizzato oltre i limiti, la “garconniere” diventa la “giovanottiera”, il “cognac” diventa “arzente”. Alcune italianizzazioni hanno maggiore successo, come il “garage”, che verrà chiamato “rimessa” anche in democrazia.
Sabato_fascistaStarace non ha una linea politica, o meglio la linea ce l’ha ed è quella di Mussolini. È antitedesco quando il capo urla dal balcone che i tedeschi sono dei selvaggi, filotedesco quando viene firmato il Patto d’Acciaio; diventa sostenitore delle leggi razziali del 1938 quando il capo ne avverte la necessità. Non fa favori, non si fa amici, ottiene pochissimi vantaggi, si regge in piedi in mezzo alle due potentissime correnti interne al partito, il clan di Galeazzo Ciano e quello di Marcello Petacci. Ardisce e non ordisce. È un uomo solo, anche in quello imita il capo. Neppure le canzonette di musica leggera lo risparmiano: se nell’immaginario collettivo Mussolini è “il tamburo principal della banda d’Affori, che comanda i 550 pifferi” (550 proprio come i consiglieri della camera delle corporazioni), se Buffarini Guidi, l’eminenza grigia del regime, è “Bombolo”, in Starace il paese rivede “Pippo che non lo sa, che quando passa ride tutta la città”. Un giorno il duce alza braccio al suo nipotino appena nato, davanti alla folla, quale esempio di virgulto della nuova italianità: per ironia retroattiva, quel nipotino diventerà Giò Stajano, il più noto omosessuale dichiarato, nonché il primo italiano a fare l’operazione per il cambio di sesso a Casablanca. Anche lui, intervistato, prenderà in giro il nonno, dicendo che dopo tanta virilità un po’ di relax ci voleva…
starace_mussoliniNel 1937 Starace è all’apice del potere, incorpora forzatamente tutte le organizzazioni giovanili nella GIL, riconducendole quindi sotto il controllo diretto del partito, e ottiene in cambio un decreto che eleva la carica di segretario del PNF al rango di ministro. Il PNF è una macchina organizzatissima nella quale tutti stanno attenti a non usare le parole proibite nei fogli d’ordine, come il verbo “insediare” o la parola “onorevole”: l’ordinario diventa grottesco. Eppure quella struttura in cui tutti hanno la schiena dritta è il pollaio dal quale uscirà l’intellighenzia politica e culturale del dopoguerra, da Moro a Ingrao, da Scalfaro a Scalfari, passando per Andreotti, Fanfani, Bobbio e Montanelli.
Il 1939 è, invece, l’anno di Ciano, che dopo aver piazzato i suoi uomini in quattro ministeri strategici (Cultura popolare, Educazione nazionale, Giustizia e Corporazioni), e aver portato dalla sua il capo dell’esercito Pariani, riesce dopo anni a mettere le mani sul partito. Mussolini, nel dimetterlo, riconosce esplicitamente a Starace il grosso merito di avere fatto il lavoro sporco con le spalle larghe, ossia tutto quello che gli era stato chiesto. E questo giudizio del capo implica un rovesciamento dell’opinione sociologica comune che gli storici hanno affibbiato a Starace, che non è un ottuso esecutore di ordini, ma una figura del mondo della tradizione oggi del tutto estinta: quella del fedele servitore, presente nella storia come nella letteratura. Starace è, quindi, come Caulaincourt o Cipriani con Napoleone, come Eumeo con Ulisse, come Bum con J.R.
Ettore_Muti_divisaL’uomo di Ciano per il dopo Starace si rivela disastroso: Ettore Muti, infatti, è una mina incontrollabile, molto più eroe che quadro, e con lo scoppio della guerra corre per primo alle armi. La segreteria passa all’abruzzese Serena, uomo di Marcello Petacci, ed ex vice di Starace, che però organizza una mega riforma del partito che non attua per troppa prudenza, salvo venire esautorato il giorno di Santo Stefano del 1941 per aver fatto a botte con il ministro dell’agricoltura davanti al duce. Per il successore, Mussolini cerca un nuovo Starace nel giovane triestino Aldo Vidussoni, onestissimo, devotissimo, eroe di due guerre, ma incapace di reggere il peso di un incarico superiore a quello di federale. Tanto basta per infradiciare del tutto il partito, e la nomina di un duro della vecchia guardia a ridosso del golpe del 25 luglio non eviterà il tracollo nel peggiore dei modi.
Starace, dal canto suo, accetta di buon grado la destituzione (sempre di un ordine del capo si tratta): il nuovo incarico di capo di stato maggiore della milizia lo conforterà dalle barzellette sulla sua rimozione (“Ettore, per una volta, ha sconfitto Achille” lo irridono i più colti, mentre il vice di Ciano Zenone Benini gli invia un telegramma con scritto: “Mi congratulo con lei, le stringo la mano”). Con il comando della milizia arriva anche la tanto sospirata greca da generale, solo della milizia però, perché nell’esercito resterà colonnello dei bersaglieri (tra esercito e milizia stranamente non c’era la parificazione delle cariche e Starace è abbastanza inviso agli alti comandi per meritare di essere chiamato generale). Viene bruscamente defenestrato a mezzo lettera il 16 maggio del 1941. I motivi dell’allontanamento restano ignoti (contrasti con il costruttore Pater, intimo a Villa Torlonia? L’essersi fregiato di un distintivo commemorativo al ritorno dal fronte greco, quando Mussolini ha proibito le medaglie ai gerarchi in prima linea?). Molto più probabilmente il capo pensa che la sua funzione politica sia esaurita, pagando a carissimo prezzo la scelta: il nuovo capo della milizia non capirà, il 25 luglio del ’43, che è in atto un golpe, e non reagirà.
Caduto Mussolini nell’estate del 1943, il nuovo primo ministro Badoglio, dopo avere ordinato all’esercito di sparare sulla folla, consegna al capo della polizia Senise due elenchi, uno con i gerarchi da ammazzare (le teste calde Muti e Ricci) e l’altro con i suoi acerrimi nemici da arrestare (Cavallero, Farinacci e Starace, tutti da mesi, se non da anni, lontani da ogni carica pubblica). La polizia di Senise trova Starace nel proprio orto con la vanga in mano e lo traduce in un carcere militare.
La risurrezione temporanea di Mussolini vede Starace entusiasta della nuova Repubblica Sociale. Il duce, però, non ne vuole più sapere: non apre le missive quasi quotidiane che il fedele servitore gli invia, ordina di buttarlo dalle scale se si presenta, lo fa arrestare e internare prima a San Vittore e poi nella questura di Lumezzane. Liberato, prova a lavorare, ma gli viene impedito. Mangia alle mense popolari, sopravvive grazie a qualche contributo elargito sotto banco dalla federazione del fascio repubblicano di Milano. Non trova posto in uno Stato in cui nessuno ne vuole uno (Farinacci rifiuta la segreteria, Frattari e Giuriati i ministeri, Magistrati riattacca il telefono in faccia al duce). Col senno di poi, un organizzatore, in quel caos di sentimenti arrabbiati che fu la Repubblica Sociale, non avrebbe fatto male.
starace_loretoIl 29 aprile del 1945, quando tutta Milano è a Piazzale Loreto con Mussolini e i gerarchi appesi a testa in giù, Starace non rinuncia a mettersi la tuta ed uscire per correre. Un partigiano nota la somiglianza e prova a chiamarlo e lui anziché fare finta di niente gli risponde. Verrà sommariamente processato, fucilato e appeso anche lui a piazzale Loreto, malgrado non abbia ricoperto mezza carica negli ultimi quattro anni. Ripercorrendo la sua parabola, viene da pensare che forse Starace non avrebbe potuto finire diversamente. Non avrebbe avuto senso uno Starace catturato con le armi in pugno come Pavolini, perché Starace, con un’arma in mano, non si sarebbe mai fatto catturare. Né ci si può immaginare uno Starace morto a novant’anni nel proprio letto come il suo successore Scorza, o eletto senatore del MSI come il suo collega Lessona. Non avrebbe avuto senso sopravvivere al capo, o, più semplicemente, non c’erano ragioni, quella mattina, per marcare visita e non fare ginnastica.

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