di Giovanni Di Martino

Gallipoli è una città feconda di uomini
politici d’ogni partito, che molti anni prima di D’Alema e Buttiglione,
dà i natali ad Achille Starace, il gerarca fascista con più medaglie sul
petto e più barzellette sul conto. Segretario del PNF per quasi dieci
anni (1931–1939), è stato abbastanza facilmente bollato dalla
storiografia come un ottuso esecutore di ordini. La lunga durata in
carica (inusuale per i collaboratori di Mussolini: solo Badoglio e
Bocchini sono durati più di lui nelle rispettive cariche) gli avrebbe
consentito di contaminare con la propria ottusità tutto il paese.
Starace è dunque ricordato unicamente per aver messo in divisa gli
impiegati pubblici, per avere abolito la stretta di mano e per avere
costretto gli italiani a interminabili pomeriggi di esercizi ginnici e
salti nel cerchio di fuoco.
È noto come Mussolini abbia avuto sia
grandi intuizioni che smisurati abbagli nella scelta dei collaboratori,
tuttavia è improbabile che nel caso di Starace si sia trattato di un
abbaglio lungo dieci anni. Perché – come scrive Antonio Pennacchi – il
bello delle dittature è proprio quello: se una persona funziona la
investi immediatamente, senza aspettare concorsi e gare d’appalto,
mentre se una non funziona la esautori altrettanto immediatamente, senza
aspettare che scada il suo mandato.

Arrivato al potere, Mussolini non
dimentica l’insegnamento di Giolitti, secondo cui per controllare il
paese sarebbe stato necessario controllare i prefetti. Assume quindi ad
interim per diciotto anni la carica di ministro dell’interno e riceve
tutte le mattine alle nove il capo della polizia, che gli fa rapporto su
ogni cosa. Stando così le cose, il destino del partito e delle squadre
d’azione (tanto necessarie prima della presa di potere quanto inutili a
potere consolidato) diventano un problema da risolvere. Ora il fascismo è
lo Stato, quindi disordini e pulsioni vanno del tutto messe a tacere. I
fascisti, insomma, devono essere normalizzati. Così le squadre vengono
inquadrate (non senza infiniti problemi) nella Milizia Volontaria per la
Sicurezza Nazionale, una quarta forza armata con compiti di polizia
postale, confinaria, ferroviaria, stradale e portuense), mentre il
partito diventa – o almeno deve diventare – una struttura politica
parallela allo Stato. In ogni provincia comanda il prefetto, ma anche il
federale. In ogni comune c’è il podestà, ma anche il segretario del
fascio. Non si tratta di un compito facile, anche perché il fascismo
nasce con radici eclettiche (socialisti e nazionalisti, mangiapreti e
cattolici, contadini e proprietari terrieri). Ci vuole l’uomo giusto,
soprattutto dopo la segreteria di Farinacci, teorico della rivoluzione
permanente, ossia dell’esatto opposto.

“Starace? Ma Starace è un cretino!”. “Sì, ma un cretino fedele”.
Il duce replica così all’obiezione sulla scelta del nuovo segretario
avanzata da Leandro Arpinati, sottosegretario all’interno e presidente
del CONI. La scelta è fin troppo chiara: Mussolini sa che di uno come
Starace ha bisogno e sa anche che Starace dirigerà il partito con piglio
fermo e paziente, senza brusche sterzate o accelerazioni improvvise.
Senza farsi togliere di mezzo da nessuno. Non per ambizione, ma perché
dirigere il partito è quello che il suo capo gli ha ordinato e lui non
desidera altro che eseguire l’ordine e non lascerà che gli altri
gerarchi gli impediscano di eseguirlo.

Ogni giorno manda al suo capo un
rapporto dettagliatissimo ed ogni giorno se ne esce con un nuovo foglio
d’ordine per gli iscritti al partito: basta con il “lei”, basta con la vita comoda, basta con il burro, basta con le parole straniere. Tutto viene italianizzato oltre i limiti, la “garconniere” diventa la “giovanottiera”, il “cognac” diventa “arzente”. Alcune italianizzazioni hanno maggiore successo, come il “garage”, che verrà chiamato “rimessa” anche in democrazia.


Il 1939 è, invece, l’anno di Ciano, che
dopo aver piazzato i suoi uomini in quattro ministeri strategici
(Cultura popolare, Educazione nazionale, Giustizia e Corporazioni), e
aver portato dalla sua il capo dell’esercito Pariani, riesce dopo anni a
mettere le mani sul partito. Mussolini, nel dimetterlo, riconosce
esplicitamente a Starace il grosso merito di avere fatto il lavoro
sporco con le spalle larghe, ossia tutto quello che gli era stato
chiesto. E questo giudizio del capo implica un rovesciamento
dell’opinione sociologica comune che gli storici hanno affibbiato a
Starace, che non è un ottuso esecutore di ordini, ma una figura del
mondo della tradizione oggi del tutto estinta: quella del fedele
servitore, presente nella storia come nella letteratura. Starace è,
quindi, come Caulaincourt o Cipriani con Napoleone, come Eumeo con
Ulisse, come Bum con J.R.

Starace, dal canto suo, accetta di buon
grado la destituzione (sempre di un ordine del capo si tratta): il nuovo
incarico di capo di stato maggiore della milizia lo conforterà dalle
barzellette sulla sua rimozione (“Ettore, per una volta, ha sconfitto Achille” lo irridono i più colti, mentre il vice di Ciano Zenone Benini gli invia un telegramma con scritto: “Mi congratulo con lei, le stringo la mano”).
Con il comando della milizia arriva anche la tanto sospirata greca da
generale, solo della milizia però, perché nell’esercito resterà
colonnello dei bersaglieri (tra esercito e milizia stranamente non c’era
la parificazione delle cariche e Starace è abbastanza inviso agli alti
comandi per meritare di essere chiamato generale). Viene bruscamente
defenestrato a mezzo lettera il 16 maggio del 1941. I motivi
dell’allontanamento restano ignoti (contrasti con il costruttore Pater,
intimo a Villa Torlonia? L’essersi fregiato di un distintivo
commemorativo al ritorno dal fronte greco, quando Mussolini ha proibito
le medaglie ai gerarchi in prima linea?). Molto più probabilmente il
capo pensa che la sua funzione politica sia esaurita, pagando a
carissimo prezzo la scelta: il nuovo capo della milizia non capirà, il
25 luglio del ’43, che è in atto un golpe, e non reagirà.
Caduto Mussolini nell’estate del 1943,
il nuovo primo ministro Badoglio, dopo avere ordinato all’esercito di
sparare sulla folla, consegna al capo della polizia Senise due elenchi,
uno con i gerarchi da ammazzare (le teste calde Muti e Ricci) e l’altro
con i suoi acerrimi nemici da arrestare (Cavallero, Farinacci e Starace,
tutti da mesi, se non da anni, lontani da ogni carica pubblica). La
polizia di Senise trova Starace nel proprio orto con la vanga in mano e
lo traduce in un carcere militare.
La risurrezione temporanea di Mussolini
vede Starace entusiasta della nuova Repubblica Sociale. Il duce, però,
non ne vuole più sapere: non apre le missive quasi quotidiane che il
fedele servitore gli invia, ordina di buttarlo dalle scale se si
presenta, lo fa arrestare e internare prima a San Vittore e poi nella
questura di Lumezzane. Liberato, prova a lavorare, ma gli viene
impedito. Mangia alle mense popolari, sopravvive grazie a qualche
contributo elargito sotto banco dalla federazione del fascio
repubblicano di Milano. Non trova posto in uno Stato in cui nessuno ne
vuole uno (Farinacci rifiuta la segreteria, Frattari e Giuriati i
ministeri, Magistrati riattacca il telefono in faccia al duce). Col
senno di poi, un organizzatore, in quel caos di sentimenti arrabbiati
che fu la Repubblica Sociale, non avrebbe fatto male.

http://www.ildiscrimine.com/dove-vai-starace/
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