mercoledì 25 maggio 2016

CASTELLAMMARE BORBONICA 1734 – 1860


Giuseppe D’Angelo

CASTELLAMMARE BORBONICA

1734 – 1860

PREFAZIONE
Vorrei premettere che in questo studio non vi è alcuna intenzione di esaltare un periodo della nostra storia o una dinastia reale a scapito di altri periodi storici e di altre dinastie, reali o politiche che siano.

Io qui vorrei soltanto ristabilire una verità storica incontrovertibile. E cioè che durante il periodo che va sotto il nome di epoca borbonica, la città di Castellammare visse forse la più bella stagione della sua lunga storia.


Sarà stato un caso, un lungimirante progetto, una conseguenza del secolo dei lumi? Non sta a me dirlo. Sta di fatto che tutto quello che accadde nella nostra città dall'epoca di Carlo di Borbone sino all'unità d'Italia ha qualcosa di irripetibile.

Castellammare fu meta del Grand tour, Castellammare sede di un Palazzo Reale, Castellammare Capitale del Regno nel periodo estivo, Castellammare sede di una ventina di consolati stranieri, tra cui l'Austria Ungheria in via Benedetto Brin n. 15; di Francia e di Gran Bretagna al Corso Vittorio Emanuele; della Grecia in via Mazzini n. 3; di Spagna alla via I marchese de Turris; di Olanda alla salita Santa Croce; del Paraguay in via San Matteo; di Turchia (Sublime Porta Ottomana) in via Alvino n. 8; degli Stati Uniti d'America prima al Corso Vittorio Emanuele e poi in Piazza Ferrovia; dell'Impero Russo alla via Coppola; e ancora il consolato di Baviera, di Danimarca, di Norvegia, dei Paesi Bassi, del Portogallo, di Sardegna, e Svezia, della città libera di Lubecca, d'Egitto. Come città internazionale, con la presenza di ben 19 consolati ripeto, direi che non è poco. Castellammare città turistica quindi, ma anche Castellammare città industriale.

Certo noi tutti speriamo che la storia possa ripetersi e crediamo che il merito per il nostro secolo d'oro non possa attribuirsi esclusivamente alla dinastia borbonica, ma piuttosto ad una serie di circostanze favorevoli che i nostri antenati seppero sfruttare appieno.

E allora ci auguriamo che anche la nostra generazione possa inaugurare una nuova stagione di primati positivi e possa assicurare un futuro, un degno futuro alla nostra città.

Carlo III di Borbone


Con la pace di Vienna del 18 novembre 1738 Carlo VII di Borbone fu riconosciuto re di Napoli e Sicilia con decorrenza giuridica dal 3 ottobre 1735, mentre di fatto era già re di Napoli e Sicilia dal 15 maggio 1734, poiché era entrato in Napoli il 10 maggio ed il 25 aveva battuto gli austriaci a Bitonto.


Inizia così la dinastia dei Borbone di Napoli che doveva durare più di un secolo.

Carlo di Borbone era nato a Madrid il 20 gennaio 1716 da Filippo V re di Spagna e da Elisabetta Farnese, figlia di Odoardo, duchessa di Parma e Piacenza e ultima erede degli Stati Farnesiani.

Questo cognome, Farnese, suscita in noi notevoli ricordi e lega ancora più intimamente la nostra città alla dinastia farnese borbonica.

Difatti non va dimenticato che Castellammare fu feudo farnesiano per circa due secoli e mezzo; cioè dal 18 luglio 1541, quando fu acquistata da Pierluigi Farnese per il figlio Ottavio che sposava Margherita d'Austria, figlia naturale dell'Imperatore Carlo V, fino alle leggi abolitive della feudalità emanate da Giuseppe Bonaparte, con la Legge 2 agosto 1806.

Ebbene il nuovo re di Napoli, Carlo III, Farnese per parte di madre, era, quindi, anche feudatario di Castellammare.

Circostanza questa che spiega anche il motivo per cui tutti i membri della dinastia borbonica predilessero la nostra città e che addirittura il re Ferdinando IV, nei suoi viaggi all'estero in forma privata, si firmava il conte di Castellammare e che prediligeva le nostre gallette intinte nel vino rosso di Gragnano.

Senza dimenticare che i colori giallo e blu dello stemma di Castellammare non sono altro che i colori usati nell'antico stemma di Casa Farnese. (D'oro a sei gigli d'azzurro posti 3, 2 e 1)

E a proposito di "vino di Gragnano", bisogna ricordare che il re Carlo e la regina Amalia, a differenza dei loro discendenti, furono molto parchi nel mangiare. La tavola tipica dei Borbone, invece, fu sempre molto ricca, fornita di cibi e specialità locali.

«Enormi tazze di latte e cioccolato, con biscotti" di Castellammare "e taralli" di Agerola, "al mattino; per mezzogiorno pasticci vari, costolette di maiale o di cinghiale, prosciutti di montagna, le celebri provole di Sorrento, il tutto innaffiato con vino rosso" di Gragnano o vino "vesuviano o di Solopaca tagliato con acque di Castellammare. Alle cinque merenda con pasticcini e la sera, verso le nove e mezzo, una cena abbondante».

Ed ecco come festeggiò l’ascesa al trono di Napoli di re Carlo III di Borbone la città di Castellammare:

« Napoli 23 agosto 1735: La città di Castellamare di Stabia, la quale vanta la gloria del suo distinto vassallaggio di Sua Maestà, come l’ha goduta per due secoli della serenissima Casa Farnese, in testimonianza della sua divozione e contento per la coronazione e felice ritorno della M. S. in questo Regno, e prosperità delle sue vittoriose armi, esposto il di lei ritratto sotto ricco baldacchino, eretto nella chiesa cattedrale, vagamente apparata, e nella gran piazza del regio Palazzo, presso la medesima chiesa, si vide innalzata magnifica macchina, vestita di nobili tappezzerie, ed ornata della statua reale, col corteggio di altre statue, rappresentanti le sue virtù ed imprese, ed abbellita la piazza di archi trionfali con erudite iscrizioni e di capricciosa fontana, per tre giorni continui, nella mattina; dopo cantato solennemente il Te Deum in essa cattedrale, ha fatto esporre il venerabile, cantare la Messa, e celebrare gran numero di Messe basse in rendimento di grazie all’Altissimo, per le felicità concedute al nostro Monarca, e per implorargliene la continuazione, ne11’ultima delle quali mattine fu celebrata pontificalmente la Messa da Mons. Falcoia vescovo di essa città coll’assistenza del Capitolo, Clero, Regio Governatore, Magistrato della medesima e nobiltà come han fatto in tutte le altre funzioni: e recitata erudita orazione panegirica delle glorie di S. Maestà da uno patrizio della stessa città il P. Filippo d’Avitaia della Compagnia di Gesù; e nelle sere illuminata tutta la città, la cennata macchina ed archi e il nome del Re, e li castelli e muraglia di fuochi, se ci accoppiò la scarica dell’artiglieria così de’ Castelli come de’ bastimenti ancorati in questo porto; e nell’ultima sera anche un ben concertato fuoco artificiale, opera del regio ingegniero Francesco Attanasio, quali funzioni ecclesiastiche e giolive promosse dal zelo e direzione di detto Magistrato, accompagnate da scelta musica, regolata dal virtuoso Maestro di Cappella Francesco Feo e da copiosa distribuzione di pane a’ poveri han empito di allegrezza e contento non solamente ogn’ordine di persone di essa città ma le innumerevoli di tutte le città circonvicine corsevi ad ammirarle »

Pochi anni dopo essere diventato re di Napoli, Carlo di Borbone, verso la fine di luglio del 1736, visitò «con sfarzo Castellammare la Fedelissima e vi ebbe accoglienze trionfali, come narrano le cronache del tempo. Il vescovo [T. Falcoia] rese omaggio a Sua Maestà insieme col Capitolo ...».

Solo per dare un'idea della grandezza di Carlo III, della sua lungimiranza e della sua modernità, vi leggerò le sue motivazioni nell'ordinare la redazione di un Catasto dei beni immobili per il regno delle Due Sicilie, con Dispaccio del 4 ottobre 1740 e relative Istruzioni del 17 marzo 1741.

«... considerando con la sua Real mente il cattivo stato in cui si trovano le Università del Regno, per cagione che il carico de' loro debiti non viene ripartito secondo le sostanze di ciascun Cittadino, ma la maggior parte caricato sopra la minuta gente, che non potendo soffrire quel peso di tasse, di gabelle, o di altri dazi imposti, viene tutto giorno angustiata e trapazzata dagli Esattori e Gabellieri destinati per l'Università istesse; onde per rimediare la M[aestà] S[sua] a quest'inconvenienti, ha stabilito che si formasse il Catasto .. con cui verrà ripartito il peso pro rata, secondo le sostanze di ciascuno, ed il povero contribuirà volentieri quel tanto che gli sarà imposto … e la M[aestà] S[sua] godrà della felicità in cui questi suoi fedelissimi viveranno" e ancora "… Riflettendo sempre più la Regal mente della Maestà del Re Nostro Signore al sollievo de' suoi fedelissimi Vassalli … in modo che il Povero venghi a pagare secondo che le sue forze comportano, ed il Ricco paghi a proporzione de' suoi averi...»

Ma ritorniamo alla storia, o meglio alla storia della città di Castellammare.

Scavi archeologici

Il 7 giugno del 1749, "con un uomo e sei ragazzi", inizia la campagna dello scavo archeologico di Stabiae fortemente voluta da Carlo III ed affiorano i primi capolavori.

Gli ingegneri borbonici Carlo Weber, svizzero, tenente colonnello del Genio, e Roque Joaquin de Alcubierre, spagnolo, capo del Genio Militare e Direttore Generale degli scavi, rilevano con precisione assoluta le piante delle ville imperiali romane sepolte dall'eruzione vesuviana del 79 d.C. I nomi di Pompei, Ercolano e Stabiae fanno il giro del mondo, attirando in questi luoghi i maggiori geni della letteratura e della pittura, lo stesso Johann Joachim Winckelmann (Stendal 1717-Trieste 1768) fu nostro ospite.

Vi è la tendenza, oggi, a voler criticare il metodo di scavo attuato a tal epoca, accusando gli archeologi borbonici di superficialità e scarsa preparazione, in particolare si tende a biasimare l'Alcubierre, che in fondo era un ingegnere militare mentre, sulla scia del Winckelmann si lodano le piante degli scavi redatte dal Weber. Winckelmann addirittura disse di Alcubierre «non aveva mai avuto a che fare con le antichità più della luna coi gamberi».

Il che può anche essere vero: Alcubierre era un ingegnere militare, non un archeologo. Ma io credo che chi accusa non ha tenuto conto di un fattore indispensabile.

Difatti è noto a tutti che chi scrive o si interessa di storia, deve porsi con la mente nella cultura dell'epoca, deve cioè ragionare tenendo conto del modo di pensare e di vivere dell'epoca a cui si riferisce. Non si può fare seria critica storica con il cosiddetto senno del poi.

In particolare non si può criticare la campagna di scavo borbonica del XVIII secolo pensando alle attuali tecniche di scavo e di restauro, sarebbe un non senso.

Quando i Borboni scavavano, a tale epoca non avevano modelli precedenti a cui riferirsi né tanto meno esistevano, come oggi, moderne scuole per archeologi e restauratori.

Certo è vero che molte pitture, vasi e suppellettili furono asportati per arricchire il Museo Nazionale di Napoli, la Villa Reale di Portici, o andare dispersi in mezza Europa come regali agli ospiti dei Borbone; ma è altrettanto vero che la diffusione europea di questi reperti richiamò l'attenzione di scienziati, poeti, pittori, intellettuali sulle nostre zone che anche per tal motivo furono incluse nelle tappe del Grand tour. Senza contare che le piante delineate dagli ingegneri borbonici costituiscono ancora oggi il punto di riferimento e di partenza per ogni intervento archeologico sulla collina di Varano.

Io penso che senza le piante borboniche non avremmo mai avuto un preside D'Orsi, con tutto il rispetto che un tal nome merita, né un antiquarium stabiano né una direzione degli scavi di Stabiae. In parole povere non avremmo avuto archeologia a Castellammare.

Ammesso che quel poco che oggi si fa possa meritare il nome di archeologia stabiese.

Contemporaneamente Carlo III e, poi, il di lui figlio Ferdinando IV, iniziano il restauro e l'ampliamento dell'antica dimora reale angioina di Quisisana.

Palazzo Reale di Quisisana



Questo luogo, Quisisana, in epoca angioina era appellato domus de loco sano, che con l'italianizzazione di domus in casa divenne Casasana e tale fu la denominazione fino al XVIII secolo.

L'appellativo potrebbe essere stato determinato da una costruzione -domus- sita in un luogo accogliente per la salubrità del clima, luogo sano, luogo che probabilmente sanava, restituiva vigore al fisico debilitato dalle continue pestilenze che anticamente affliggevano l'umanità. Difatti non è raro il caso di molti sovrani angioini che, in periodi di contagi, si rifugiavano in questo luogo.

Si era, poi, sempre ritenuto, da parte degli studiosi, che la costruzione del Palazzo Reale di Quisisana fosse iniziata non prima dell'anno 1280. Sennonché un documento da me ritrovato, dell'anno 1268, attesta che in tale anno, e forse anche prima, a Quisisana già esisteva la casa del re Carlo I d'Angiò. E poiché gli Angioini avevano conquistato il Regno di Napoli soltanto due anni prima (1266) è ipotizzabile che tale costruzione potesse risalire, quanto meno, agli Svevi (Federico II ?).

Le favorevoli condizioni del luogo suggerirono a Carlo I d'Angiò la ricostruzione del complesso fortificato ove trascorrere la stagione estiva.

Per curiosità dirò che nel registro n. 38 della Cancelleria Angioina dell'anno 1280 è annotato un ordine reale a Matteo Vaccaro, figlio del giudice stabiese Mazziotto, direttore del Real Palagio di Casasana. Il 31 maggio del 1310 si richiedono per tale costruzione 48 travi di legno, della lunghezza di 32 palmi; 36 travi lunghe 26 palmi; 8.000 scandulati e 100 tavole di castagno lunghe 12 palmi. Il 30 aprile dello stesso anno la costruzione è affidata ai giudici Andrea Longobardo e Nicola Vaccaro di Castellammare; direttore tecnico dei lavori è maestro Francesco da Vico, che il 2 ottobre 1310 invia, a richiesta del re, una relazione informativa sullo stato dei lavori. Infine nell'agosto del 1316 il re Roberto d'Angiò abita in Casasana, emanando le leggi nel modo seguente: datum in Casasana prope Castrummaris de Stabia.

La storia ci ha conservato un documento davvero esemplare, dal quale si evince che il re Roberto, quando nei periodi estivi risiedeva nel Palazzo di Quisisana, si recava spesso a cavallo nella chiesa di San Bartolomeo, che all'epoca si trovava alla via Sanità, lanciando monete d’oro ai poveri che lungo la strada accorrevano ad ossequiarlo. Infatti il Regio Tesoriere pagò per elemosina:

«Die XXVII predicti mensis Junij V ind. [1328] in Casasana prope Castrummaris de Stabia solute sunt eidem helemosinario regio, quos Dominus Rex erogari mandavit pauperibus occurrentibus in via quum equitavit ad Ecclesiam Sancte Clare in festo Eucaristie et in secunda vice quum equitavit ad Castrummaris de Stabia in carolenis argenti tarenos XII. Die V predicti mensis augusti ibidem solute sunt eidem helemosinario, quos Dominus Rex erogari mandavit pauperibus occurrentibus in via die XXVIII Julij V ind. quo equitavit ad Ecclesiam Sancti Bartholomei de Castrummaris de Stabia in carolenis argenti tarenos VI».

Non dimentichiamo che la 96a novella del Decamerone di Giovanni Boccaccio è ambientata proprio a Quisisana con protagonista re Carlo I d'Angiò. A Quisisana è, inoltre, accertata anche la presenza di Giotto.

Intanto dopo lo splendore conosciuto durante il periodo angioino (1266-1442) una lunga notte calò su tale complesso.

Sappiamo solo che subentrati gli aragonesi il Real Palagio non fu del tutto abbandonato.
Difatti con privilegio del 10 settembre 1458 a Goffredo Scafarto di Castellammare era stata concessa la Castellanìa, ossia la Custodia (in guardia) di Quisisana e il 7 aprile 1495 il palazzo fu concesso dal re Carlo VIII al suo medico personale Pietro Morello.
«Magnifico magistro Pietro Morello professor di Medicina di S.M. se li concede una casa nominata Casasana, sita in Castellammare di Stabia, che fu di Pietro de Nocera padrone di galera da D. Ferdinando d’Aragona, giusti suoi fini, per sé et suoi heredi.»
Difatti agli albori del secolo XVI era posseduto dagli stabiesi de Nocera. Da un documento (atto di notar Nicola de Masso del 30.1.1484), si apprende che Francesco Coppola, conte di Sarno e, dal 19.10.1481, Castellano e Governatore a vita di Castellammare, il 29.1.1484 aveva scritto a Giovanni Freapane, allora Capitano della città, così:
«Capitaneo, lo Signore Re me scrive lettera del tenor seguente videlicet: "Rex Siciliae, Conte, Noi havemo dato Casasana con tutte sue pertinenze in guardia al diletto nostro Pietro di Nucera, nostro creato, in quello modo come lo tenea Goffredo Scafarto suo predecessore. Però volemo et vi comandamo che ad ogni instanza del dicto Pietro, o d’altri per sua parte, li debiate far dare la possessione di dicta Casasana, che l’habbia da tener nel modo et forma supradicti. Datum Foggiae die 2 novembris 1483". Sicché voi havete intesa la voluntà dello Signore Re per dicta lettera, osservate quanto sua Maestà comanda. Napoli 29 januarii 1484.»
Il re è Ferdinando I d’Aragona, detto il Bastardo. Da altro documento, ancora, si apprende che, successivamente, il 18.7.1498 il re Federico d’Aragona aveva confermato Quisisana a Pietro de Nucera.
Frattanto il 18 luglio 1541 Ottavio Farnese, allora duca di Camerino, per il prezzo di 50.000 ducati, aveva rilevato in feudo la città di Castellammare di Stabia ed aveva iniziato, sin dal 1566, una lite giudiziaria con i de Nocera, in relazione alla proprietà del bosco e Palazzo di Quisisana. Tale lite sfociò in una transazione, effettuata fra Sempronio Scachino, rappresentante del duca Ranuccio Farnese, nipote del defunto Ottavio, e Pier Giovanni Nocera, stipulata il 15 aprile del 1598. Con tale atto il Nocera riceveva la somma di ducati 12.192 tari 4 e grana 15, ed il Farnese la proprietà della tenuta di Quisisana.
Si estinse la famiglia Farnese in quella dei Borbone come già detto, e precisamente con Elisabetta, moglie del re di Spagna Filippo V e madre di Carlo III, che nel 1734 saliva al trono di Napoli e Sicilia ereditando, fra l'altro, anche la tenuta di Quisisana.
Da tale periodo e fino al 1790 l'Archivio di Casa Reale è ricco di documentazione che testimonia i continui lavori di ampliamento e rifazione di detto Palazzo da parte di Carlo III e Ferdinando IV di Borbone.
Anche i napoleonidi Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat, re di Napoli, abitarono con continuità a Quisisana; ed esemplare è a tal proposito un lungo soggiorno della regina Carolina Bonaparte, sorella di Napoleone e moglie del Murat.
Senza contare che la regina Maria Carolina, moglie di Ferdinando IV, amava soggiornare nel palazzo reale di Quisisana poiché gli erano graditi «lido e fonti», alludendo quest’ultima espressione al lungomare e alle acque minerali della città.
Lo stesso Ferdinando IV, qualche anno prima del 1783 aveva «fatto fare nuovi stradoni per le Delizie di Quisisana».
Ferdinando II di Borbone «tra il 1848 e 1849 vi fece costruire altri quartini alla Casina, dei grandi porticati di accesso e scuderie e sopra di essi delle estese logge verso il fronte che guarda la città di uscita dai Reali Appartamenti, non che una Villa e parterre all’uso inglese, intrecciato con diverse fontane e viottoli, e smaltato da una svariata famiglia di erbe odorifere e variopinti fiori da rendere grato piacere all’occhio ed impregnar l’aria di olezzante odore, e nel mezzo una torretta da belvedere, che nel cavo delle sue fondazioni vi si rinvenne una moneta d’oro di Carlo 2° d’Angiò, che ne ricordava l’antichità del sito, la quale venne consegnata al Sovrano allora regnante, senza nulla trascurare di quanto potesse tale regio sito rendere dilettevole e gradito nella stagione estiva».
In seguito all'unificazione d'Italia la tenuta passò tra i Beni Riservati della Corona di Casa Savoia e, con legge 31 maggio 1877 n. 3853, venne trasferita al demanio dello Stato.
L'interessamento personale del deputato del Collegio di Castellammare on. Tommaso Sorrentino, di Gragnano, consentirà nel 1879, previo Regio Decreto di autorizzazione del 29.7.1878, la vendita al Comune di Castellammare, per il prezzo di lire 300.000.
Da tale periodo e fino alla metà degli anni '60 viene dato in concessione a privati per uso d'albergo. Oggi, allo stato di rudere, è in attesa, e nella speranza, di una positiva utilizzazione.
Vorrei solo ricordare che d'estate il re e la Corte si trasferivano nella verde e fresca Quisisana da dove venivano emanate, come in epoca angioina, anche le leggi.
Questa predilezione dei sovrani borbonici per Quisisana costituì il volano per la crescita culturale e turistica della città.
Ben presto la collina si popolò di sontuose ville della nobiltà napoletana e di ambasciatori stranieri come già detto. Sorgono così le ville del barone Acton, del marchese Paternò, del marchese Pellicano, del marchese Salines, del principe Riccardo Caracciolo di Santobono, del ministro plenipotenziario (ambasciatore) russo principe Alessandro Lieven, del console russo conte Stackelberg, della principessa Maria Dolgorouky della famiglia imperiale russa, del principe Gioacchino Ruffo di S. Antimo.
Ed ecco la breve storia di due splendide ville: Villa Acton e Villa Lieven con un piccolo pensiero a Villa Lucia.
Villa Acton
Questa è la villa più antica, in ordine di tempo e fu edificata in una proprietà dei marchesi Pellicano nella zona di via Sanità, dal generale John Acton, ministro di Ferdinando IV, su progetto dell'architetto stabiese Catello Troiano, nell'anno 1789, si proprio l'anno della Rivoluzione francese. L'Acton, poi, nel 1790 vi fece migliorare il parco, al "gusto cinese" ove:
«... vi fece edificare un bellissimo ponte di fabbrica, con guide in legno sul gusto cinese ... in prosieguo vi fé erigere un foillace di otto pilastri traforati che reggono la covertura di legno ... e finalmente nell'intera superficie di essa selva vi fé ricacciare dei viali e piccoli giardini che lo rendono di singolare delizia».
Fu una Villa bellissima. Così ci viene descritta nel 1796:
«Questo vago Casino, il quale potrebbe essere abitato da ogni Sovrano, è composto di tre piani...». Spiccano: la «Cappella, la quale ancora è molto bella sì per gli suoi ornati, finimenti, e figure designate, ed eseguite dal Pittore Antonio de Dominicis; come per l'Oratorio Sagro d'ordine Dorico, e colorito sul gusto Bisquì, e fondo celeste con intagli bianchi, designato dall'Architetto Catiello Troiano di Scanzano. Da questa stanza si passa finalmente alla gran Galleria, la quale similmente è sorprendente sì per lo pavimento, e per lo fregio all'intorno tutto di stucco marmorato, ch'è stato designato, ed eseguito da' Fratelli Gerli Milanesi; come per le dipinture nelle mura, e nella volta a color celeste, e per lo gran quadro sotto la stessa volta dipinto da Antonio de Dominicis, che rappresenta il convito degli Dei».
Questa splendida villa nel 1806, in seguito all'invasione delle truppe francesi e fuga a Palermo di Ferdinando IV, con tutto il governo, tra cui John Acton, dopo una lunga controversia giudiziaria, fu restituita ai Pellicano. Ivi dimorarono lady Hamilton, Orazio Nelson dopo la battaglia di Abukir e tanti illustri personaggi, non esclusa la poetessa Jeanne Gray, moglie del Pellicano.
In questa villa era allocato lo splendido monumento funebre, del III sec. d.C., di Marco Virtio Cerauno di proprietà dei marchesi Pellicano. Esso fu rubato da ignoti nel 1978 e ritrovato a Lugano, in Svizzera, l'anno successivo. Ora è conservato presso la Soprintendenza archeologica di Napoli.
Questa Villa, dopo la morte del generale Acton, ritornò alla famiglia Pellicano che ne smembrò la proprietà cedendola a vari acquirenti.
Oggi è stata invertita, e sottolineo invertita, in un condominio per civili abitazioni.
Fu anche immortalata in un poderoso quadro ad olio del pittore della Corte Borbonica Filippo Hackert.
Villa Lieven
Il principe don Alessandro Lieven, Ministro Plenipotenziario dello Zar di Tutte le Russie, Nicola I Romanow, nel Regno delle Due Sicilie, d'estate soleva frequentare la reggia di Quisisana, un po' come tutti i diplomatici accreditati presso la Corte borbonica.
I luoghi, con l'andar del tempo, dovettero piacergli particolarmente tanto da spingerlo ad edificarvi la propria villa in via Sanità.
A tale scopo, acquistò da Pietro Paolo Coppola un piccolo fabbricato con poco giardino e dalle Suore di San Bartolomeo, nel 1842, «un piccol giardino nel luogo detto S. Andrea», ove nel 1845 edificò una splendida dacia con materiali e manodopera fatti venire espressamente dalla Russia. Infine per ingrandire il giardino, comprò il 18.6.1845 da Francesco Grossi una grossa tenuta limitrofa di 3 moggia e due terzi (mq. 12.221) per il prezzo di 9.161 ducati e grana 66. A questo punto, dopo aver ingrandito la dacia, realizzò, anche, un vasto ed ameno parco, opera dell'architetto reale Fioretti.
In questa villa soggiornarono molti personaggi di rilievo, tra i quali il pittore Scedrin e, nel 1846, vi dimorò la Zarina di Russia Alessandra Feodorowna moglie dello Zar Nicola I.
Ma nel 1860, con la caduta del Regno delle Due Sicilie, la presenza di un ambasciatore Russo a Napoli non fu più necessaria, per il trasferimento della capitale a Torino. Pertanto nel 1868 la Villa fu venduta a Giuseppe Gallone Pignatelli, principe di Tricase, di Marsiconovo e di Moliterno. La moglie donna Antonietta Melodia, era, all'epoca dama di Corte della Regina d'Italia Margherita di Savoia.
Memorabile, secondo le cronache coeve, fu la festa data in questa villa il 28 marzo del 1870 in onore del principe Umberto di Savoia, futuro re d'Italia, e della moglie principessa Margherita.
Eccone una breve cronaca:
«Ieri il principe di Moliterno raccoglieva oltre a 150 invitati nella sua amenissima villa a Quisisana. Fra essi notavansi i Reali Principi che avevano gentilmente accettato di far parte della scelta ed allegra brigata. La città di Castellammare colse questa occasione per fare le più liete e cordiali accoglienze all'augusta coppia che visitava per la terza volta quei luoghi di delizia... Alla villa Antonietta, antica villa Lieven, tutto era disposto con gusto squisitissimo... Dopo la colazione ... ebbero luogo le danze sul prato che vennero poscia continuate fin quasi alle 7 nelle sale a pianterreno della villa. In memoria della giornata fu anche piantato un pino, secondoché si usa in Inghilterra in simili circostanze. L'albero porterà il nome di Principessa Margherita... Il giovane maestro Tosti vi cantò una romanza composta espressamente dal suo amico maestro Denza, che lo accompagnava a pianoforte».
Il figlio di Giuseppe Gallone, principe Giovan Battista, uomo di mondo, frequentatore dei migliori salotti d'Europa, animatore, come riferiscono le cronache, delle estati stabiesi, fondatore nel 1881 del Circolo Canottieri Stabiani, la trasformò, poi, in albergo, con i nomi di l'Hotel Du Parc prima e Villa dei Cedri poi. Tra gli anni 1918-20 fu acquistata dal comm. Gaetano Somma di Pimonte, poi successivamente dal comm. Raffaele Garzia che nel 1932 la vendette alla famiglia Pagliari ed è oggi di proprietà della famiglia Petrella.
Nella raccolta del barone Lemmerman vi è uno splendido acquerello del pittore Consalvo Carelli, rappresentante la Sala del Cannocchiale di questa Villa.
Villa Lieven è entrata anche nella letteratura ad opera della poetessa armena Vittoria Aganoor Pompilj che così la descrisse:
VILLA MOLITERNO
(QUISISANA)
Alla Principessa di Tricase
Una dimora che ai convegni eletta
certo avriano le Grazie; e accanto, i lieti
trionfi delle palme, intorno avvinte
dalla glicine in fiore, e i cedri insigni
del Libano, e i metallici fulgori
delle magnolie.
Molli prati e vivide
famiglie di verbene in mezzo al fresco
idillio d'ombre, finché poi non s'apre
libero a piè della ridente china
il velario magnifico del verde
sulla gloria del mare.
Ali di candide
paranze vanno per l'azzurro, e insieme
passano con veloce ala i ricordi
passano le veloci ombre dei sogni.
Certo non mai la dolce estasi il core
mio scorderà, della bellezza eterna
fin che s'accenda.
Minaccioso in fondo
fuma il vulcano, ma da presso io sento
fremere un lor segreto inno le rose
alla gioia fuggente, e l'aria intorno
sussurrarmi: "Non vedi? il giorno è breve;
augurio del domani avida accogli
per entro la rapita anima il vivo
balsamo di quest'ora ".
Ecco si spoglia
una rosa, e laggiù distende i veli
mesti il tramonto per le rive e i porti;
mentre immutata, del silente golfo
sovra il tremulo specchio, al cielo incontro,
del Vesuvio l'estrema erta sfavilla.
L. Grilli, Poesie complete di Vittoria Aganoor, Firenze 1912.
Ma chi era Vittoria Aganoor Pompilj alla quale il Comune di Castellammare ha dedicato anche una strada?
Vittoria Aganòor Pompilj, poetessa italiana di origine armena, nacque a Padova il 26.5.1855. Fu allieva dello Zanella e, dopo il trasferimento a Napoli, di Enrico Nencioni. Nelle sue poesie, di tono eclettico, rivela familiarità con vari poeti del secondo Ottocento italiano e francese, specialmente con Musset, Baudelaire, Aleardi, Gnoli, D'Annunzio. La sua prima raccolta di poesie, Leggenda eterna (1900), in cui canta in modi elegiaci le vicende di un amore infelice, fu ripubblicata nel 1912 in Poesie complete, comprendenti anche Nuove liriche (1908), Rime sparse e alcune prose. collaboratrice delle maggiori riviste letterarie, pubblicò: Leggenda eterna, Isaia, Esaù, Primavera, Villa Medici, Trasimeno.
Era tenuta in grande considerazione da tutto il mondo letterario, tanto che quando nel 1901 l'Aganoor sposò il deputato Guido Pompilj, giurista e uomo politico umbro, il Carducci così le scrisse:
"Vola l'augurio mio fidente dalla piena anima su di lei, sull'avvenire. Affronti oramai le lotte della vita appoggiata su un nobile e forte braccio: ben lo meritava; le Muse serbano pur qualche premio. Ave et salve, anima dulcissima".
Ebbe a scrivere di lei Benedetto Croce: "Il suo breve canzoniere d'amore è certamente il più bello che sia stato mai composto da donna italiana".
Quando si spense a Roma, il 7 maggio del 1910, in seguito ad un intervento chirurgico, il marito, non potendo resistere al dolore, si tolse la vita sul suo cadavere, cosa che destò all'epoca profonda commozione.
La poetessa amava trascorrere ampi periodi di riposo a Castellammare, nella quiete di Quisisana.
Una piccola curiosità.
La celebre canzone napoletana Palomma 'e notte di Salvatore di Giacomo, con musica di Francesco Buongiovanni, è la fedele traduzione in napoletano di una poesia in dialetto veneto della Aganoor intitolata "La Pavegia".
Beh. Anche Di Giacomo ogni tanto copiava.
Ma la Aganoòr potrebbe, a sua volta, aver tradotto in dialetto veneto una canzone musicata dal nostro Luigi Denza su parole di Rocco Emanuele Pagliara dal titolo Farfalla di Sera, uscita nel 1887. Questa canzone fu un vero successo, tanto che fu anche tradotta in inglese nel 1892, con il titolo: The Moth and the Flame da Mombray Marras.
Villa Lucia (Villa Ruffo)
Questa Villa non ha nulla da vedere con i Borbone, ma va ricordata poiché di proprietà di un illustre discendente del cardinale Fabrizio Ruffo, quello delle bande della Santa Fede del 1799.
In particolare vogliamo qui ricordare la nobile figura di Gioacchino Ruffo, principe di Sant'Antimo e di Motta San Giovanni, duca di Bagnara e Baranello, illustre botanico.
La sua villa ha ancora oggi una splendida singolarità, ben 24 generi di palme, ripartite in 119 specie, per un totale di 654 piante: un vero e proprio parco naturale, forse unico in Campania. L'Attuale proprietaria, Maria Lucia Ruffo di Sant'Antimo, principessa di Motta San Giovanni, ha recentemente ceduto la maggior parte della villa ad un'impresa privata che ne ha ricavato degli appartamenti.
Di questa villa così cantò il poeta Fausto Salvadori: 
Villa Lucia, serena fra le palme,
Fresca d'abeti verdi in faccia al mare,
Villa Lucia, con le memorie care
A te ridano i lunghi ozi e le calme !
Quindi la frequenza di tanti illustri personaggi sulla collina di Quisisana, portò lavoro e benessere a tutta la città e fece riscoprire, dopo alcuni secoli, l'efficacia curativa delle acque minerali stabiesi.
Non è inutile, a tal proposito, ricordare che la presenza di una classe colta è sempre stata di stimolo in tutte le comunità, migliorando il modo di pensare della gente e producendo, col tempo, cittadini preparati e attenti al benessere comune.
Viceversa l'impoverimento culturale, dovuto anche all'assenza dalla vita cittadina della classe colta, produce, col tempo, ignoranza e miseria.
Le analisi di Cotugno e Vairo
E a proposito di acque minerali stabiesi vi è da dire che nel 1787 il re Ferdinando IV di Borbone diede incarico ai due più autorevoli medici dell'epoca, Domenico Cotugno e Giuseppe Vairo di esaminare l'acqua acidula di cui tutti facevano largo uso. I risultati cui pervennero i due autorevoli clinici furono superiori ad ogni aspettativa. Infatti essi dichiararono che l'acqua acidula di Castellammare era superiore per purezza e efficacia terapeutica alla celebre acqua di Spa, cittadina belga vicino Liegi, famosa da vari secoli per le sue acque carboniche ferruginose. Il re allora ordinò di costruire una mescita pubblica di tale acqua ove fu apposta la seguente lapide:
AQUAE ACIDULAE
CUIUS VIM IN PLURES MORBOS
PLINIUS OLIM COMMENDAVIT
NUNC VERO
COTUMNIO VAIROQUE PROBANTIBUS
STABIENSES
REGIS AC POPULI
COMMODITATI CONSULENTES
P[ECUNIA] S[UA] AEDICULAM HANC FAC[IENTES] CUR[AVERUNT]
A.D. MDCCLXXXVII
Poi dopo un secolo, nel 1887, la fonte di erogazione fu spostata, insieme con la lapide settecentesca, e allocata dove si trova tuttora, su progetto degli architetti Luciano Parisi e Antonio Vitelli.
Raimondo Di Maio e Pio Tommaso Milante
E sempre a proposito di acque minerali, l'8 agosto 1829 il Re Francesco I, per la prima volta decise di far analizzare tutte le acque minerali della Città. L'incarico fu conferito dal Ministro dell'Interno marchese Amati a tre valenti scienziati: il dott. cav. Luigi Sementini, professore di medicina, direttore e professore di chimica filosofica nella Regia Università degli Studi di Napoli, il dott. Benedetto Vulpes, professore aggiunto alla clinica medica, medico dell’ospedale Incurabili e il dott. Filippo Cassola, professore di chimica, tutti soci della Reale Accademia delle Scienze della Società Reale di Napoli.
Raimondo de Maio
Ma è dell'anno 1754 il primo trattato scientifico di questo argomento. Ne è autore lo stabiese dottor Raimondo De Maio, nato a Scanzano nel 1727. Questi già nel 1748 era stato membro della Condotta Medica della stessa città, e medico della Deputazione della Salute, con funzioni di polizia sanitaria, morto appena trentaquattrenne nel 1761.
Fu tale il successo che questa pubblicazione ebbe una ristampa postuma nel 1764, senza alcuna modifica tranne l'assorbimento dell'errata corrige. Queste pagine, scritte con "candore" - così più volte si legge nel Trattato -
«sono la testimonianza, interessante anche sotto il rispetto letterario, di una figura di intellettuale meridionale del Settecento, poco nota, o affatto ignota, su cui varrà forse la pena di aprire un supplemento d'indagine».
Pio Tommaso Milante
Il De Maio era stato preceduto quattro anni prima, nel 1750, da un frate domenicano, vescovo di Castellammare, il dotto Pio Tommaso Milante, che scrisse una ponderosa e documentata storia dei Vescovi Stabiesi. Questo il titolo: De Stabiis, Stabiana Ecclesia et Episcopis eius.
Il Milante non era uno sprovveduto, difatti era dottore in Sacra Teologia, Professore nell'università di Napoli e Consigliere Regio. La sua opera costituirà una pietra miliare per la storia della chiesa stabiese a cui attingeranno tutti coloro che si sono, nel tempo, interessati alla storia di Castellammare, compreso il sottoscritto.
A questo punto mi corre l'obbligo di ricordare anche altri due "lumi" stabiesi: il dottor Gaetano Martucci e il padre Tommaso de Rogatis.
Gaetano Martucci e Tommaso De Rogatis
Il Martucci, nato a Castellammare il 26 luglio 1730, dopo aver studiato nei Seminari di Lettere e Sorrento, all'età di ventuno anni si era laureato in medicina, e due anni dopo, nel 1753 aveva vinto il concorso per professore di medicina pratica nell'Università di Napoli. Noi però lo ricordiamo come attento e documentato autore di studi storici, in particolare dei privilegi concessi nel tempo dai sovrani angioini, aragonesi e spagnoli alla città di Castellammare.
Il secondo "lume" da ricordare è il padre Tommaso de Rogatis, gesuita, autore del primo e fondamentale studio sul Santuario di Santa Maria di Pozzano.
Come vedete il secolo dei "lumi" toccò anche la nostra città.
Città che nella prima metà dell'800 vive una grande stagione di opere pubbliche e private destinate ad abbellirla e a
«...dar maggior comodo a' forestieri di tutte le nazioni che in tempo d'Està vengono a far uso delle acque Minerali non solo, ma benanche a villeggiare per più mesi prodigalizzando molte somme, oggetto, che può dirsi unico di vantaggio alla popolazione ».
E a tal epoca la città scopre la propria vocazione turistica, investendo in opere pubbliche, facendo così in elemento di propulsione e stimolo anche alle iniziative dei privati.
E non a caso il Re con due rescritti, uno dell'anno 1822 e l'altro del 1829 ordinò la costruzione di uno stabilimento termale al largo Cantiere, su progetto dell'architetto reale Catello Troiano; vengono ampliate, negli stessi anni, le strade di Pozzano, Fratte e Botteghelle dove stanno sorgendo le sontuose ville della nobiltà napoletana.
Real Teatro Francesco I
Non desti meraviglia, quindi, che il signor Catello Gambardella, chiaramente stabiese, pensi in quegli anni di costruire un gran teatro, che possa ospitare anche la famiglia reale, che ha ripreso l'abitudine di trasferirsi d'estate nel Real Palazzo di Quisisana.
Compra, allora, il 22.9.1828, dalle figlie del barone D. Giuseppe Cuomo, mezzo moggio di terra all'inizio della salita Quisisana, nei pressi della chiesa di San Giacomo Apostolo, per poter edificare il teatro.
Il progetto viene affidato allo stabiese Ottavio D'Avitaya, lo stesso architetto che nel 1842 realizzerà l'apertura della Nuova strada Marina, detta in seguito Corso Vittorio Emanuele II.
Il 18.10.1828 il re, Francesco I, previa delibera del Consiglio di Stato del 9 ottobre precedente, concede l'autorizzazione richiesta. L'anno successivo l'opera è completata e, su richiesta del Gambardella, il re "permette" che si imponga il proprio nome (Francesco I) al teatro, concedendo anche cinque anni di privativa di teatro.
Questo teatro si compone di «...un edificio quadrilatero perfettamente isolato per tutti i lati, nell'aspetto principale verso oriente retto da tre archi ed intercolunnio supra e tutto fornito di tre porte, finestre, serramenti e quanto è necessario. La porta di mezzo mena nella Platea capace di 176 spettatori, e 36 piazze d'Orchestra con 41 palchi divisi in tre ordini, oltre la Galleria al di sopra di essi ripartita in quattro scaloni, con proscenio e camerini, in tutto capace di circa 800 posti».
Vi è al secondo ordine, il palco reale ed altri per la Real Famiglia, di cui il re ha le chiavi e con entrate separate.
Tra alterne vicende il teatro, funziona sino alla caduta della dinastia borbonica (1860), ma non ha sempre vita facile.
Già il Parisi, che scrive nel 1842, afferma che, sebbene abbia una «...nobile architettura nello esterno che rappresenta ...effigie in basso rilievo decorata dei tre sommi drammatici dell'antica madre delle scienze e delle arti Aristofane Sofocle Euripide ..., ora è in dispiacevole decadenza con grave nostro rammarico ... onde noi più favorevole destino gli auguriamo ».
Evidentemente l'assidua presenza di Sua Altezza Reale il Principe di Capua, l'occasionale presenza del re e l'annuo sussidio di cento ducati da parte del Comune non furono sufficienti a garantire una buona copertura finanziaria al teatro.
La presenza della Famiglia Reale è documentata, al dire dello scrittore stabiese Tommaso De Rosa, da una cronaca pubblicata nel 1835 "in una vecchia gazzetta" nella quale è riportata una corrispondenza da Castellammare:
«...in una serata di gala del maggio 1835 data al Real Teatro Francesco I fu annunziato ufficialmente lo stato interessante della regina Maria Cristina di Savoia [moglie di Ferdinando II] che poi il 16 gennaio 1836 dette alla luce l'erede al trono ... Oltre la famiglia reale assistevano alla rappresentazione tutti i principi di Casa Borbone, Ministri, Generali, ambasciatori, personalità eminenti e nei palchi, in platea, perfino in piccionaia [galleria] eransi dato convegno quanto di più illustre, nobile, intellettuale c'era in Castellammare, che in preda ad indicibile emozione applaudiva freneticamente, mentre la sala elegantemente aparata [parata] splendea di sparmacete [steariche]».
Fu rappresentata "La Vestale" di Spontini; esecutori ed orchestra del Teatro San Carlo di Napoli.
Come, poi, non ricordare in questa sede altre due grandi opere eseguite in questo periodo: il Real Cantiere Navale e le Antiche Terme.
Real Cantiere Navale
Fu fondato dal re Ferdinando IV di Borbone il 20 giugno 1783 nel luogo detto "pontone", sull'area di un antico "cantiere dei vascelli", vicino al monastero dei Carmelitani al Molo.
La scelta del luogo non fu casuale. A prescindere, infatti, da motivi di carattere strategico e geografici, si pensò di poter utilizzare al meglio la manodopera locale.
Difatti la città vantava antiche tradizioni marinare e di mestieri legati comunque al mare, come i mastrodascia, i calafati, i falegnami di mare ad altro.
Si pensi che il poeta latino Silio Italico, nel descrivere la seconda guerra punica contro Cartagine, loda il comportamento delle navi romane brulicanti della forte gioventù stabiese.
Senza dimenticare che già da epoca angioina (1266) a Castellammare si costruivano navi per l'armata reale.
I lavori del nuovo cantiere furono diretti dal brigadiere Giovanni Bompiede e duravano ancora nel 1786 quando furono varate la corvetta Stabia, il vascello Partenope e la corvetta Flora.
Successivamente, nel 1796, su un terreno limitrofo, sorse la prima corderia militare del Regno delle Due Sicilie.
Dal Cantiere navale scesero in mare navi all'avanguardia della tecnica, quali il Delfino e l'Argonauta (1840), primi piroscafi a vapore; il Monarca (1850), prima nave borbonica con propulsione ad elica; l'Ettore Fieramosca (1850), una delle prime navi con apparato motore di costruzione italiana. Il varo, nel 1860, della fregata Borbone, per ironia della sorte, chiuse il ciclo borbonico.
Ma anche dopo l'unità d'Italia questo cantiere restò all'avanguardia nelle costruzioni navali.
Difatti nel 1864 si varava il Messina, prima corazzata costruita a Castellammare; nel 1871 l'Audace, prima nave completamente in ferro; e finalmente, nel 1876, su progetto di Benedetto Brin, prendeva il mare la Duilio, la più grande corazzata del mondo che, da sola, come affermò il senatore statunitense Bonjean presente al varo, "avrebbe potuto distruggere tutta la flotta americana ".
Ancora oggi da questi Cantieri prendono il mare navi sempre più efficienti e tecnicamente d'avanguardia.
Aggiungiamo che la difesa di questo cantiere navale, in epoca borbonica, era assicurata da una modernissima "batteria casamattata", costruita nel 1795, la prima e più antica di tutto il mediterraneo. Il porto era poi segnalato di notte da un faro lenticolare, costruito nel 1843, ed era costituito «da una macchina lenticolare di IV ordine a rotazione costruita dal sig. Leponte -mastro orologiaio di Parigi- costata al Comune 1800 ducati ». Una vera meraviglia della tecnica.
Le Antiche Terme
Dopo anni di discussione, nel 1827, su progetto dell'architetto Catello Troiano, di Scanzano, iniziarono i lavori per la costruzione delle Terme Comunali, lavori che terminarono nel 1836.
Nel corso degli anni vi si aggiunsero altri corpi di fabbrica e, specialmente nel 1893, su progetto dell'arch. Filosa il celebre Padiglione Moresco, e nel 1900 la Vasca d'erogazione, in ferro battuto, su disegni dell'ing. Eugenio Cosenza.
Tra la fine dell'800 e fino agli anni '50 del nostro secolo questo complesso ospitò celebrità provenienti da mezza Europa, complessi musicali celebri, mostre di pittura, manifestazioni mondane e culturali.
Sennonché nel 1956 sull'ondata di modernismo che tanti danni irreparabili ha arrecato alla nostra città, fu decisa la demolizione dell'antica struttura neoclassica e liberty, per far posto all'attuale costruzione, su progetto dell'arch. Marcello Canino.
E così il 26 febbraio 1956 iniziò la demolizione dell'antica struttura.
La Città
Come dicevo, alla fine del settecento lo Stato del Regno delle due Sicilie si presentava ordinato e florido, dopo le riforme operate mezzo secolo prima dal re Carlo III di Borbone, fiorente di traffici e commerci, in pace con il resto dell'Europa, non più soggetto alle invasioni barbaresche e turche in particolare.
Come tutte le città costiere, anche Castellammare iniziò ad operare la demolizione delle mura difensive, oramai inutili, che la circondavano e, l'aumento della popolazione, dovuta principalmente al suo porto mercantile e militare -non dimentichiamo che nel 1783 era stato costruito il Real Cantiere Navale, uno dei più importanti del Mediterraneo- crearono la necessità di un rapido ed ordinato sviluppo urbanistico che dovette, per forza di cose, iniziare fuori la porta del Quartuccio, creando quell'asse di sviluppo verso nord-est che continua ancora oggi.
A questo punto l'Amministrazione di Castellammare dell'epoca si pose il problema dell'ordinato sviluppo della città e, per evitare che ogni privato potesse costruire come più ritenesse opportuno, incaricò l'architetto stabiese Ottavio d'Avitaya di progettarne un'armonica espansione.
Quest'architetto, il cui nome oggi giace, purtroppo, dimenticato in polverosi archivi ed ingiallite carte, destino questo di molti illustri stabiesi, concepì il seguente piano. Poiché il Comune era proprietario di tutte le arene che si trovavano fuori il Quartuccio, propose che la Città le desse in enfiteusi ai privati, tracciando nel contempo due strade ove i fabbricati potessero essere ordinatamente allineati, creando anche ad ogni centinaio di metri dei vicoli per il deflusso delle acque piovane.
Nacquero, così, nel 1842, la Strada Spiaggia, intitolata poi a Vittorio Emanuele II con delibera comunale del 6 novembre 1863 e, nel 1847, la Strada sul Lido, intitolata a Giuseppe Garibaldi sempre con la stessa delibera del 1863.
In queste strade vengono costruiti il grandioso palazzo Benucci, dal nome del facoltoso proprietario, cav. don Domenico Benucci, titolare del monopolio dei tabacchi del Regno delle due Sicilie, oggi impropriamente detto palazzo Vanvitelli, mentre l'autore fu il celebre Errico Alvino, noto architetto e urbanista napoletano dell'ottocento, l'ideatore del Corso Vittorio Emanuele e di Piazza dei Martiri a Napoli.
Questo palazzo per buona parte del secolo XIX fu sede dell'Hotel Royal.
Pochi sanno, poi, che l'odierno palazzo di corso Vittorio Emanuele n. 45 era all'epoca la casina di delizie di don Salvatore Auros barone di Saint Caprais, celebre nobile dallo spiccato spirito repubblicano, coinvolto addirittura nella rivoluzione napoletana del 1799. Sempre al Corso vi era l’austero Albergo Imperiale, meta di illustri ospiti italiani e stranieri e l'antico ed attuale Hotel Stabia.
In fondo al Corso vi era il Rione Spiaggia.
Rione Spiaggia
Il 31 luglio del 1842 viene inaugurato il tratto ferroviario Napoli-Castellammare.
Questo avvenimento favorì e determinò il primo vero sviluppo industriale e urbanistico della zona del rione Spiaggia.
In origine questo luogo era abitato da sparse casette di pescatori che operavano tra la foce del Sarno e la costa.
Con l'apertura della linea ferroviaria questa divenne il punto di carico e scarico di tutte le merci provenienti dall'interno, sin dalla Calabria e la Puglia, Difatti all'epoca esistevano solo reti stradali, poco comode e mal tenute, al cui confronto la moderna linea ferroviaria Napoli-Castellammare dovette sembrare quanto di più comodo, moderno e veloce il secolo scorso potesse offrire.
Su questo luogo, così, sorsero molti depositi e varie industrie, mentre le famiglie di pescatori, che qui abitavano, ben presto si trasformarono in famiglie di operai.
Fino al 1876, poi, al posto dell'attuale Piazza della Ferrovia vi esisteva una piccola strada, poiché tutta l'area di fronte alla Stazione era di proprietà della Fabbrica di Cuoi del francese Francesco Bonnet, poi della famiglia Jammy, fabbrica istituita in Castellammare sin dal 30 agosto 1809.
Il suolo di proprietà comunale, nel 1809 come detto, fu dato in enfiteusi a Francesco Bonnet, che diede origine ad una fabbrica di concia di cuoi all'uso di Francia celebre in tutta Europa. Nel 1879, però, la fabbrica, nel frattempo ereditata dai fratelli Jammy, fu costretta alla chiusura, in seguito alla crisi industriale abbattutasi sull'ex Regno delle due Sicilie dopo l'Unità d'Italia, ed il fabbricato, acquistato nel frattempo, nel 1880, da Francesco Saverio Garofalo di Gragnano fu trasformato in palazzo per civili abitazioni. Tenne per breve tempo il nome di Palazzo Buonocunto ove, al secondo piano, era ubicato il Consolato degli Stati Uniti a Castellammare. Oggi è conosciuto come Palazzo Arienzo.
La zona era, però, ricca di molte altre fabbriche, tra le quali vanno segnalate quelle di manifattura di cuoi di Girolamo Restoin e del tedesco Corrado Haller, sorta nel 1811, nella quale lavoravano un maestro forestiero e undici del Regno, tra cui molti stabiesi; altra fabbrica di cuoi del sig. Lemaire, fondata nel 1815, nella quale lavoravano tre maestri forestieri, 65 "travagliatori" stabiesi e circa dieci donne.
Queste due ultime industrie avevano iniziato la lavorazione dei castori all'uso di Louviex e la rara tintura della seta celeste, turchina e bianca, uniche in Italia.
Nel 1826 sorse la prima vera fabbrica tutta stabiese, quella dei sigg. Giuseppe e Costantino De Rosa, fabbricanti di tessuti di cotone, fazzoletti ed altro. I loro opifici occupavano il suolo ove si trovava fino a pochi anni fa la sede del Comune, ex Banca d'Italia.
Inoltre dove è ora lo stabilimento dell'AVIS, vi era l'opificio meccanico del cav. Catello Coppola, l'industria da dove nel 1911 fu fusa l'attuale Cassa Armonica della Villa Comunale.
La Carrozzella
Nel 1840, nel vico Minicocchia, attuale vico del Carmine, il cav. Catello Scala istituì la fabbrica delle carrozzelle di Castellammare, che ben presto divennero celebri in tutta Europa, tanto che un esemplare è oggi esposto al Museo d'Arte Moderna di Parigi.
La prima carrozzella di Castellammare fu creata per la baronessa Isabella Acton moglie di Errico Dachanhausen che abitava l’omonima villa alle Fratte dai fratelli Catello e Ignazio Scala.
Per soddisfare anche la curiosità di chi legge ricorderò che una carrozzella del cav. Scala si trovava nella stiva del transatlantico Andrea Doria quando affondò, per essere consegnata ad un magnate texano.
Viaggiatori stranieri
Il 13 marzo del 1832 Ferdinando II, su suggerimento di «S. E. il Cav. di Gran Croce Niccola Santangelo, Ministro Segretario di Stato degli Affari Interni», comandò che si costruisse una strada carrozzabile da Castellammare a Sorrento. Difatti prima di allora la penisola era raggiungibile per mare o a dorso di mulo. Solo per dare un piccolo assaggio dell'efficienza borbonica basterà dire che dopo appena due mesi l'ing. Luigi Giordano già presentava il progetto, come diremmo oggi, cantierabile. Il mese successivo:
«s'era già aperta una traccia cavalcabile sino a Meta» che «la Regina madre percorse in portantina, sorpresa dalle superate difficoltà, specialmente a Scutolo, dove sembrolle di trovarsi come per incantesimo, sulle nude rocce delle Elvetiche Alpi».
Finalmente il 14 giugno dell'anno successivo la strada fu inaugurata dal principe di Capua che la percorse:
«con coraggiosa intrepidezza, sopra un legnetto a quattro ruote ch'egli stesso guidava, con intenso giubilo e stupore delle popolazioni accorse in folla ad ammirare la gradevole novità».
Si badi bene non fu ampliato l'antico sentiero che si inerpicava tra i monti, ma fu tracciata ex novo una nuova strada che fu volutamente panoramica.
Per assicurare la frescura nei mesi estivi a chi la percorreva in carrozza, furono piantate due file di alberi, cioè le robinie e gli elci; e per imbrigliare il terreno franoso furono gettati abbondanti semi di ginestre e carrube «i quali mentrechè ricuopron di verde la costa formano colle folte radici un tessuto capace di tener ferma la fragil terra». Come vedete si teneva conto anche di quello che oggi prende il nome di "impatto ambientale".
Nel 1878 così la descrive Renato Fucini:
«Questa via per me è quella che contribuisce essenzialmente alla grandissima e giustificata fama delle bellezze di Sorrento …».
E così si esprime nel 1984 Arturo Fratta:
«… chi vede Sorrento per la prima volta, dai tornanti di Punta Scutolo come da una balconata, resta preso dall'immagine indistinta e quasi fiabesca della costa alta. Quell'effetto di luce è provocato, nelle ore antimeridiane, dalla posizione del sole che rende imprecisi i contorni. Dopo mezzogiorno la scena muta. Un senso di pace viene dal piano verde inondato di case, isolato a mezz'aria, distante e quasi protetto dal mare che si frange molti metri più sotto, lungo una linea che sembra tracciata armoniosamente a delimitare piccole marine e pareti di tufo a picco sull'acqua».
La costruzione di questa strada oltre ad incrementare il commercio, contribuì, e non poco, ad un grande afflusso di viaggiatori, stranieri in particolare, che giungevano in treno fino a Castellammare e poi raggiungevano la costiera sorrentina con l'ausilio di carrozze.
Nel 1845 lo scrittore Francesco Alvino, nel suo volume Viaggio da Napoli a Castellammare, così ci descrive la città:
«Questa città è fabbricata a riva di mare, ha larghe e pulite strade, fra le quali quella della marina si particolarizza per essere la più amena e ricercata... Nell'està offre Castellammare un rifugio benefico e pieno di molli delizie, allora ha l'aspetto d'una gran città popolatissima. Gli stranieri in folla vi accorrono; ed i nobili napoletani che, o per fuggire l'ardore della capitale, o pel bisogno delle acque minerali e de' bagni, la maggior parte ci passano dei mesi. Sorgente di ricchezze è per la popolazione».
E, quindi la città di Castellammare, in periodo borbonico, fu meta, solo per ricordare i maggiori, di personaggi del calibro di J. Wolfang Goethe, Walter Scott e Xavier de Maistre, John Ruskin e Alphonse de Lamartine, Charles Farlane e Herman Melville, Alessandro Dumas e John Fenimore Cooper, Theophile Gautier e Longfellow, Ibsen e Flaubert.
Ecco cosa scrisse, nel 1787, Goethe, di ritorno da una delle sue gite a Pompei e al Vesuvio, scrisse:
«Abbiamo fatto colazione a Torre Annunziata, mangiando proprio in riva al mare. Era una giornata incantevole; la vista di Castellammare e di Sorrento, che parevano a due passi, deliziosa. I napoletani poi si trovano come a casa loro: alcuni dicevano che, senza vedere il mare, non è possibile vivere. Quanto a me, mi basta di averne impressa l'immagine nell'anima e sono ormai disposto a ritornare tra le nostre montagne. »
E ci colpisce in modo particolare la citazione della nostra città nel Madame Bovary di Gustave Flaubert:
« ..a pochi passi da Emma (Bovary), un gentiluomo in abito blu parlava dell'Italia con una giovane fanciulla pallida ingioiellata di perle. Magnificavano l'imponenza del colonnato di San Pietro, Tivoli, il Vesuvio, Castellammare e le casine, le rose di Genova e il Colosseo al chiaro di luna ».
Senza dimenticare anche celebri pittori stranieri, che immortalarono la città sulle loro tele: Ducros, Dahl, Turpin de Crisse, Michallon, De Mercey, Coignet, Scedrin, Ivanof, Solizev, Duclere, solo per ricordare i maggiori.
Certo, oggi sembra incredibile sentir citata la nostra città insieme con la basilica di San Pietro, il Colosseo, Tivoli, il Vesuvio e San Remo, come le cose che più avevano colpito un grande scrittore come Flaubert. All'epoca, invece, era un fatto normale.
E, per concludere, la nostra città vista da Charles Dickens nel febbraio del 1845: [giunse in ferrovia a Rovigliano, tempo da Napoli: 1 ora]
«(...) Passiamo piacevolmente con la ferrovia (...) davanti a Castellammare col suo castello diroccato, oggi abitato da pescatori, che si erge su un ammasso di scogli in mezzo al mare. Qui la ferrovia si arresta, ma è possibile proseguire in carrozza, in un ininterrotto succedersi di golfi incantati e di splendidi panorami che degradano dalla più alta sommità di Monte Sant'Angelo (la più alta montagna della zona) fino alla riva del mare, in mezzo ai vigneti, alberi di ulivo, giardini d'aranci e limoni, frutteti, ammassi di rocce e gole qua e là verdeggianti fra le colline. Si costeggiano i pendii di cime innevate, si attraversano cittadine con belle donne brune sulle porte, si passa davanti a deliziose ville di campagna, finché‚ si raggiunge Sorrento, dove il poeta Tasso s'ispirò alla bellezza che lo circondava.
Al ritorno, possiamo salire su per le alture che dominano Castellammare e, guardando giù fra rami e foglie, vedere l'acqua increspata che scintilla al sole e grappoli di bianche case della lontana Napoli, che la grande distanza fa apparire minuscole come dadi. Al tramonto si ritorna in città, costeggiando nuovamente la spiaggia: con il sole che splende da un lato, e dall'altro la montagna che s'abbruna col suo fuoco e il suo fumo, è un modo sublime per chiudere una giornata memorabile ».

(Questo studio, letto per la prima volta ed in forma ridotta, alla conviviale del Rotary Club di Castellammare di Stabia (Hotel Stabia) la sera del 21 maggio 1999, é stato pubblicato, nell'attuale forma e con note, in «Domus de loco sano», Città di Castellammare di Stabia edit. 2002.

© Giuseppe D'Angelo 1999-2007
NOTA PER I LETTORI
Riproduzione vietata senza il consenso dell'autore.
(Ma se lo copiate, almeno, citate la fonte.)

I N D I C E
PREFAZIONE
CARLO III
SCAVI ARCHEOLOGICI
PALAZZO REALE DI QUISISANA
VILLA ACTON
VILLA LIEVEN - MOLITERNO
VILLA LUCIA
ANALISI ACQUE MINERALI (COTUGNO E VAIRO)
RAIMONDO DE MAIO
PIO TOMMASO MILANTE
MARTUCCI E DE ROGATIS
REAL TEATRO FRANCESCO I
REAL CANTIERE NAVALE
LE ANTICHE TERME
SVILUPPO DELLA CITTA’ – RIONE SPIAGGIA E INDUSTRIE
LA CARROZZELLA
VIAGGIATORI STRANIERI

tratto da:
http://www.liberoricercatore.it/Storia/lostorico/giuseppedangelo.htm 
 

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