Roma, 24 gen – Mario Gradi nacque esattamente 100 anni fa. Figura sconosciuta ai più, fu un giovane fascista della “prima ora”, che compì tutta la sua traiettoria politica all’interno del sindacato. Dopo un breve periodo come dirigente nel Guf romano, entrò nel settore sindacale con la carica di segretario dell’Unione provinciale dei lavoratori dell’industria, prima a Perugia e poi Bologna. Dopo aver partecipato alla guerra d’Etiopia, fu trasferito a Roma con incarichi di ancora maggiore rilievo: prima consigliere della Confederazione dell’acqua, gas ed elettricità e dopo consigliere nazionale della Camera dei Fasci e delle Corporazioni. Infine segretario dell’Unione provinciale dei lavoratori dell’industria a Roma, fino alle dimissioni il giorno dell’insediamento del governo Badoglio. Oltre a distinguersi per l’impegno in difesa dei lavoratori, fu molto attivo culturalmente scrivendo su periodici e riviste e pubblicando il libroFascismo, Rivoluzione del Lavoro (1938). Un’attività, questa, che continuerà anche nel dopoguerra, senza mai rinnegare i suoi ideali. Perché questa premessa? Perché interessarsi ad un personaggio come lui? Molto semplicemente perché «sapere di più su questi dirigenti medi è sempre necessario se si vuol capire questa realtà (del fascismo ndr) in modo articolato e in particolare la natura e la qualità del personale su cui il regime si fondava e le differenze fra esso ed il precedente periodo liberal-democratico», come ha scritto acutamente Renzo De Felice, nella prefazione alle Memorie di un altro sindacalista: Tullio Cianetti. Infatti, leggendo le testimonianze del Gradi (raccolte nel libro Formazione e vita di un sindacalista, 1987), non si può che rimanere stupiti ed arricchiti dalle sfumature che si possono cogliere su quel ventennio tanto lontano quanto ancora oggi discusso. I contributi di Francesco Perfetti (Lo stato fascista), Giuseppe Parlato (La sinistra fascista) e Alessio Gagliardi (Il corporativismo fascista) restano ad oggi migliori punti di partenza sul tema.
Mario Gradi descrive con passione l’entusiasmo (ed anche le velleità e le ingenuità) dei giovani fascisti nel primo dopoguerra, impegnati nella strenua difesa dei reduci e delle rivendicazioni della vittoria contro il disordine rosso e l’incapacità del parlamento. Anni travagliati, conclusisi con la presa del potere di Mussolini, al termine della quale si comincia ad entrare nel vivo della trattazione: l’evolversi delle istanze sindacali all’interno del fascismo, rievocate attraverso l’esperienza personale di Gradi. Il protagonista delinea con chiarezza e lucidità tutte le difficoltà dei dirigenti sindacali davanti al fallimento del “corporativismo integrale”voluto da Rossoni. Nel 1928, infatti, Mussolini opta per la “frantumazione” della Confederazione nazionale dei sindacati fascisti (che riuniva tutto il mondo fascista del lavoro) nelle sei Confederazioni dei lavoratori dell’attività produttiva (industria, agricoltura, commercio, trasporti, credito, gente del mare e dell’aria), con la conseguente riduzione d’importanza dell’elemento sindacale in favore della centralità del Partito. Il settore industriale accusa il colpo, non riuscendo a trovare negli anni immediatamente successivi una stabilità organizzativa ed un peso politico d’alto livello, come era riuscito, ad esempio, ai lavoratori agricoli magistralmente guidati da Luigi Razza. Gradi, impegnato al fianco dei lavoratori fino alla fine del regime, sottolinea inoltre le difficoltà salariali ed il permanere di «sacche di arretratezza» (soprattutto al Sud) nel suo settore. Ma ciò che emerge più negativamente è la resistenza al cambiamento di ampi settori economico-finanziari italiani, impegnati a frenare le riforme e mettere in primo piano l’interesse personale. Occorrono sforzi titanici da parte dei sindacalisti fascisti («in gran parte provenienti dallo squadrismo, quasi tutti dotati di una buona preparazione in campo economico e sociale, uno dei raggruppamenti maggiormente significativi e combattivi del regime, guardiani fedeli dei principi originari del fascismo», riferisce Gradi) per attutire i colpi inferti dagli industriali più conservatori, rappresentanti di quella “destra interna” che non vedeva di buon occhio la perdita dei propri privilegi. Proprio per questo la classe dirigente sindacale in diverse occasioni recupera elementi già distintisi nelle organizzazioni socialiste. Ed è già un primo elemento inaspettato. Ma accanto a questo se ne nota un altro: il libero sfogo ai risentimenti ad alle richieste da parte dei lavoratori nelle assemblee di base. L’intento del regime era quello di renderli critici e coscienti delle problematiche nel loro ambito, e di conseguenza inseriti organicamente (non passivamente) nel nuovo «spirito partecipativo» e nelle nuove strutture, come il Dopolavoro. Negli ultimi sette anni di carriera a Roma, a contatto con i vertici dell’organizzazione dei lavoratori dell’Industria, Gradi nota che la libertà e vivacità dei dibattiti è ancora più accentuata. Ciò traspare raramente all’esterno, dove invece viene sottolinea l’unanimità delle posizioni, ma è sufficiente scorrere i verbali della Confederazione per accorgersi della libertà di critica e del fecondo apporto dei rappresentanti dei lavoratori alla elaborazione di scelte e soluzioni in sede corporativa. Un tratto, forse il più difficile da accettare per la storiografia ufficiale, emerge prepotentemente: non si trattò di un sindacalismo di mera facciata. Pur tra innegabili difficoltà e nello «scarso decollo del sistema corporativo», il profilo tracciato dal Gradi è quello di un mondo sindacale consapevole dell’importanza delle riforme sociali e della modernizzazione, convinto a continuare le lotte nel nome della «Terza Via» e dell’emancipazione dei lavoratori.

Il sindacalista chiude poi enfaticamente l’opera, sottolineando «il carattere autenticamente democratico, nel senso sano, del regime. Tutta l’organizzazione sociale è stata predisposta e sistemata in modo tale che il cittadino e produttore non abbia mai a sentirsi isolato, smarrito, alla mercé del più forte, in una lotta per la vita senza quartiere e senza giustizia: il Partito lo accoglie cameratescamente nei suoi ranghi; l’organizzazione sindacale lo tutela nei suoi diritti e nei suoi interessi. (…) La vera democrazia non è nella verbosa demagogia dei parlamenti, ma nella eloquenza sincera delle opere: nelle strade aperte ai commerci; nelle terre bonificate restituite al lavoro; negli acquedotti; nelle scuole ampie aperte a ricevere in una gioia di aria e di sole la nuova gioventù d’Italia; nei moderni sanatori, negli ospedali. (…) A volte la tensione cui costringe quest’opera di ricostruzione è dura: ma essa appare sempre lieve se è certa la fede nella meta finale: un grande popolo, una Nazione potente».
Francesco Carlesi
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