Io sono entrato come socialista nella vita politica e come tale la lascerò. Già mio padre era un convinto socialista ed io mi nutrivo di queste idee quando prendevo ancora il latte materno e più tardi, crescendo, ho continuato a seguirle, a coltivarle e a svilupparle nella mia mente. Debbo molto a mio padre. La mia strada di socialista era già stata tracciata : non avevo che da seguirla, il che feci con profonda convinzione. Divenni molto giovane membro del partito socialista italiano, nel quale si convogliavano allora le speranze di molti, che in buona fede credevano ormai maturi i tempi per la riforma sociale. Anch’io ritenevo che il socialismo possedesse il magico < Apriti Sesamo > capace di schiudere le porte a un nuovo ordine sociale, a un nuovo periodo della storia, e dedicai tutte le mie energie per il raggiungimento di questa mèta fulgidissima. Ben presto mi accorsi però che la barca sulla quale navigavo mi avrebbe portato a un sicuro naufragio: gli operai, sui quali particolarmente si appoggiava il socialismo per conseguire i suoi fini politici e sociali, erano tutt’altro che maturi per così grande conquista. Mi formai inoltre il convincimento che un socialismo attuato secondo i concetti di Marx non avrebbe mai consentito di liberare effettivamente gli operai dalla loro schiavitù sociale. Malgrado ciò, dedicandovi molti degli anni più belli della mia vita, ho tentato con le parole, con gli scritti e con l’azione di pervenire alla migliore realizzazione dell’idea socialista; ma, ripeto, agli operai mancava la comprensione necessaria e soprattutto mancava loro lo spirito combattivo, senza il quale non è possibile ottenere alcun vero mutamento sociale.
Allorché soggiornai in Svizzera, quale rifugiato politico, frequentai per un certo tempo l’ambiente di Lenin ed ebbi subito la possibilità di rendermi conto che, ad eccezione di Lenin stesso che indubbiamente era un uomo di straordinaria intelligenza, tutti gli altri non erano che dei chiacchieroni e degli stupidi e che alcuni erano addirittura degni di essere rinchiusi in un manicomio. Cercai perciò un motivo per potermi staccare da questo ambiente e riprender la mia libertà di movimento. Seppi che, dopo che me n’ero andato, Lenin disse ai suoi compagni: Io invece ero contento di essermi liberato dalla tirannia che Lenin esercitava sui suoi compagni.
Ero ormai decisamente convinto che per poter mettere in pratica il vero socialismo, si dovevano gettare solide fondamenta nella coscienza degli uomini e che la classe operaia, come era allora, non avrebbe mai potuto costituire da sola la base per un nuovo ordine sociale.
Se le idee socialiste dovevano divenire una cosa reale, tutto il popolo e non solo una classe di esso, avrebbe dovuto partecipare con piena convinzione all’’idea della lotta di classe, e io stesso sentivo maturare in me, di anno in anno, la certezza che proprio l’idea della lotta di classe fosse sbagliata. Franava nella mia mente uno dei grandi pilastri del mio pensiero giovanile. Per tale motivo fui accusato di apostasia; i miei vecchi compagni socialisti mi danno del rinnegato perché oggi attuo ciò che ieri ho condannato e perché non ho conservato quella ch’essi chiamano coerenza di pensieri e di azioni, ossia quel vecchiume di metodi frusti e di idee sballate, ch’essi si aspettavano da me.
Io ritengo che questo sia un rimprovero stupido, poiché quando un uomo cammina senza mai fermarsi verso la mèta, non ha alcuna importanza la via che egli percorre per raggiungerla. Anche l’idea più rivoluzionaria può essere tradotta in pratica purché si sappia essere tanto elastici di mente da saper adottare metodi che almeno in apparenza siano rigidamente conservatori. Tutto sta nel sapersi adattare alle situazioni mutevoli e alle esigenze di ambiente, di epoca, di educazione; per restare fedeli alle premesse non è necessario irrigidirsi nel metodo.
Secondo me, uno degli errori principali del sistema marxista è quello di voler considerare il socialismo innanzi tutto come una questione puramente economica.
Noi vediamo ora nell’Unione Sovietica l’esperimento più grandioso e significativo della messa in pratica del marxismo puro. Quali ne sono gli effetti pratici? Non un progresso sociale della classe alla quale il marxismo avrebbe dovuto recare forza, decoro e prosperità, ma la decadenza totale delle masse, una decadenza morale e materiale della peggior specie. E non mi si dica che si tratta soltanto di uno stadio passeggero, poiché in tal caso bisogna dire che questo stadio passeggero dura da troppo tempo. In fin dei conti l’applicazione integrale del marxismo avrebbe dovuto già nella sua prima fase alleggerire notevolmente i gravami delle masse lavoratoci e migliorarne le condizioni sociali. Ciò però non si è verificato, e allora bisogna dedurre che anche nell’Unione Sovietica non si è fatto altro che promettere agli operai delusi, pressappoco come fa la Chiesa, un miglioramento futuro, per rinfocolare le loro speranze, ma che in sostanza da quasi trent’anni nulla di concreto ha realizzato il regime marxista per i lavoratori se non immobilizzarli con la forza brutale e l’impiego della polizia.
Dovrebbero ammettere apertamente i signori di Mosca di aver tolto agli uomini la gioia di vivere, permettendo loro soltanto di vegetare nelle peggiori condizioni economiche. Per mettere in atto la loro assurda formula comunista essi hanno allontanato tutte le persone veramente produttive di ogni categoria e di ogni professione, perché soltanto così avrebbero potuto imporre la loro volontà alle masse. E la questione è stata risolta in maniera radicale, uccidendo tutti coloro che la pensavano diversamente.
Qualsiasi osservatore intelligente di questi avvenimenti, che ora non possono più essere tenuti nascosti, dopo che milioni di uomini degli Stati dell’Europa occidentale hanno avuto la possibilità durante la guerra di vedere con i propri occhi cosa fosse il socialismo marxista dell’Unione Sovietica e di constatare con orrore la miseria delle masse, qualsiasi osservatore, dicevo, dovrebbe aver capito che questa forma di socialismo, malgrado tutte le promesse, non potrà mai portare a quel successo che i veri socialisti auspicavano.
È una cosa naturale che ogni uomo nel corso della sua vita desideri la parte a lui spettante di felicità, di proprietà e di libertà e che lotti per conseguire tutto questo. Se però io ostacolo questa naturale aspirazione dei miei simili, non potrò mai dire di me stesso che sono un socialista e che la felicità delle masse mi sta a cuore; sarò invece un tiranno, che mantiene a tutti i costi il potere soltanto con misure draconiane. E questo appunto è ciò che si è fatto nella Russia Sovietica. Peggio ancora è il voler sostenere che tutto questo è democrazia, una parola questa che suona come un’atroce beffa e che ha perduto ormai il suo vecchio valore nel mondo.
In ciò che i rappresentanti del marxismo e della democrazia si ostinano oggi a chiamare socialismo, c’è un errore fondamentale, di cui soltanto pochi si rendono conto; io però fin dagli anni della mia giovinezza mi sono fatto la convinzione che il socialismo non è né una questione puramente economica, né una questione di classe riguardante soltanto una certa parte del popolo; ma che è invece e innanzi tutto una questione di carattere. Pertanto, se si vuole veramente agire nell’interesse del popolo e del suo miglioramento sociale, non ci si deve limitare a imporre sic et simpliciter un nuovo sistema socialista quando mancano gli uomini probi e capaci che sappiano guidare quel popolo sulla via del progresso e delle conquiste sociali. Se il socialismo deve essere realizzato, esso presuppone che i suoi attuatori non lo abbiano concepito soltanto come idea, ma è necessario che essi siano passati attraverso una dura scuola, capace di innalzare gli uomini, anziché abbassarli. Perciò debbono essere educati prima di tutto gli uomini, che un giorno dovranno realizzare il nuovo socialismo e ciò non può essere naturalmente ottenuto in pochi anni.
È sbagliato sostenere che il socialismo, come generalmente si afferma, voglia arrivare a una stupida uguaglianza di valori, di capacità, di meriti. È vero il contrario. Il socialismo può essere tradotto in pratica soltanto quando gli uomini migliori e di carattere più forte di un popolo, anziché venire allontanati o soppressi, come è stato fatto in Russia, siano educati al servizio delle nuove idee affinché possano adoperare tutte le loro forze e la loro intelligenza non solo a loro proprio vantaggio, ma al servizio della comunità.
Dobbiamo creare dei caratteri che vedano nel raggiungimento delle idee sociali e nel sacrificio assoluto della propria personalità al servizio della comunità la loro massima fortuna e la mèta della loro vita. In altre parole dobbiamo creare dei capi permeati di sentimenti altruistici, idealistici. Tali uomini non si trovano soltanto in determinate classi e professioni, ma, secondo la mia esperienza, essi si distribuiscono in maniera uniforme in tutte le classi di una nazione, si trovano tanto fra gli operai che nella borghesia, come pure nelle così dette classi elevate. Generalmente è difficile identificare e accostare tali individualità, poiché simili caratteri sono fieri e chiusi e preferiscono lavorare silenziosamente, lontani dagli occhi e dal giudizio della gente. Ma quando si riesce a trovarli e a metterli al posto che loro spetta, essi contribuiscono in modo veramente esemplare alla propagazione delle idee sinceramente sociali ed al rapido progresso dell’umanità.
Bisogna aver fede nella bontà dell’uomo e nello sviluppo dell’umanità; soltanto allora si potrà concepire tutta la grandezza ed il significato delle idee socialiste. I pessimisti, che credono che il nostro mondo e gli uomini non possano essere migliorati, non potranno mai trovare la forza per mettersi al servizio di un’idea che renda felice l’umanità, e lasceranno passare innanzi a sé la vita restandone estranei.
Primo nostro dovere è dunque quello di trovare il mezzo di formare un nucleo-base di uomini superiori che sappiano con puro disinteresse mettersi al servizio della comunità, e soltanto allora potremo incominciare ad assolvere il compito di dare al mondo un nuovo ordine sociale. Io ho dovuto convincermi sempre di più quanto sia difficile trovare tali uomini. Non esito a dichiarare che più di una volta ho dovuto soffrire atrocemente per le delusioni cagionatemi dai miei errori, ma sarebbe stato assai peggio se io mi fossi fermato, se mi fossi dichiarato vinto e avessi lasciato che le cose continuassero come andavano. È contro questa mentalità che combatto con tutte le mie forze, poiché se non lo facessi, tanto sarebbe valso che non avessi mai cominciato e avessi pensato invece a crearmi un’esistenza certamente più tranquilla e meno faticosa, come giornalista e magari come professore in una delle tante università italiane. Poter mettere al servizio del popolo e dello Stato la mia energia e quella di coloro sui quali speravo di poter contare sino alla fine, è Stato uno dei motivi per i quali ho creato il movimento fascista. Ho tentato di migliorare il carattere di quegli uomini che mi avevano seguito spontaneamente, dando loro dei compiti ben determinati, ma oggi dovrei confessare di non essere riuscito in tale impresa.
Ho potuto constatare più volte che le buone qualità di un uomo si sviluppano maggiormente in proporzione alla grandezza e alle difficoltà del compito che gli si assegna: ed è anche per questa ragione che ho richiamato in vita gli emblemi dell’antico Impero romano, per mostrare al popolo che esso è custode di una grande tradizione e che potrà raggiungere la felicità e il benessere soltanto quando avrà la forza e la capacità di riprendere l’opera di ricostruzione al punto nel quale si è verificata la decadenza dell’Impero romano.
Se si da uno sguardo profondo agli avvenimenti che causarono il lento processo di inquinamento e di decadimento, si vedrà che la colpa non è delle dittature, ma bensì del così detto ordine democratico. Quanto più lo Stato romano si allontanava dal suo ordine aristocratico, tanto più aumentavano il disordine e la decadenza, sino a che tutto andò a finire nelle mani di individui incapaci che invano cercavano di coprirsi col mantello della monarchia. Gli errori ed i crimini della monarchia romana appaiono evidenti al lettore attento della nostra storia.Perciò io ho tentato di far rinascere nel fascismo le antiche virtù del popolo romano e cioè: la dedizione alla comunità, la fedeltà, il coraggio, lo spirito di sacrificio, sperando di poter ricostruire su di esse il nuovo impero.
Non ho perseguito queste idee e queste mète per cupidigia di potere o per sete di conquista, né tanto meno per farmi un nome nella storia; lo scopo delle conquiste fasciste era soltanto quello di raggiungere una prima mèta, da cui poter trarre i mezzi per la creazione di un nuovo ordine sociale in Italia. E quanto più il fascismo si propagava nel cuore e nel cervello di tutti gli italiani, divenendo parte della loro vita morale, tanto più si avvicinava il momento nel quale avrebbe dovuto nascere il socialismo del futuro. Poiché è giusto ch’io le confessi apertamente che non ho mai avuto l’intenzione di fare del fascismo una specie di religione eterna. Quanto più il fascismo si sviluppava, tanto più poteva diventare liberale, e oggi credo di aver raggiunto il punto in cui posso dare la mano a qualsiasi mio compatriota, che come me sia disposto a lavorare per il raggiungimento di un vero socialismo.
Secondo me, tutto ciò che oggi nel mondo viene chiamato socialismo, non potrebbe resistere ad una severa critica; tale mia affermazione le diventerà subito chiara se esaminerà gli aspetti economici del socialismo.
Come è noto, nell’Unione Sovietica anche le più piccole imprese sono state socializzate, cioè alla proprietà privata si è sostituita la proprietà comune. Da queste misure vennero colpiti non soltanto gli ex-proprietari e gli artigiani indipendenti, ma anche gli operai e gli impiegati che lavoravano al loro servizio. Considerando la questione da un punto di vista obiettivo, ci si deve domandare: che cosa ci guadagna l’operaio o il contadino o l’impiegato, dal fatto che l’azienda o la fabbrica presso cui lavora diventi proprietà dello Stato? Che cosa succede quando in luogo del capitale privato entra in azione il capitale dello Stato? La risposta è evidente e semplice: niente; al contrario la posizione dell’operaio peggiora.
Con il capitale privato l’operaio o l’impiegato aveva la possibilità di esprimere i suoi desideri e le sue pretese ad un singolo o ad un gruppo di interessati e poteva eventualmente costringerli a venire a un accordo soddisfacente. Trattandosi invece di una azienda statalizzata, al singolo proprietario si sostituisce una forza anonima, lo Stato, che non può esser individuato e col quale non si può raggiungere alcun accordo.
La burocrazia, della quale non si può fare a meno, cresce smisuratamente e ciò a danno dell’operaio, che non potrà più liberarsi dal suo stato di schiavitù. A tale riguardo è significativo che in Russia sia severamente proibito all’operaio di usare la sua arma usuale, cioè quella dello sciopero. Se tutto ciò viene chiamato socialismo, posso dire soltanto che: o non si sono seriamente studiati questi problemi, oppure che non si può realizzare una vera riforma. In realtà bisognerebbe, per fare del vero socialismo, superare lo stato di asservimento degli operai ad una forza anonima, sia questa il capitale privato o il capitale dello Stato.
I contrasti si acuiscono e invece di abolire le differenze di classe, si aprono nuove ferite e solchi più profondi, elevando una barriera tra lo Stato e la massa. È assolutamente inesplicabile come si sia giudicato possibile raggiungere uno sviluppo migliore delle masse lavoratrici con questo sistema.
L’operaio si trova indifeso di fronte ad una forza sostenuta da tutti i mezzi militari e polizieschi e la sua situazione diventa peggiore di quella del più povero bracciante di campagna, poiché ricade in una schiavitù eterna. Persine le rappresentanze delle forze lavoratrici nei parlamenti democratici non sono in grado di cambiare questo stato di cose, tanto che anche nei paesi più ricchi e progrediti l’operaio deve ancora pregare ed implorare, senza avere il diritto di partecipare agli utili prodotti dal suo lavoro.
Da quanto sopra risulta evidente che il sistema sociale oggi in atto non può continuare e che deve essere sostituito con altri ordinamenti. Lo Stato non ha il compito di adoperare la sua forza per mantenere il privilegio del capitale privato o del capitale dello Stato. Il miglior modo per governare un paese è quello di far sentire il meno possibile l’esistenza dello Stato e la sua azione. Alla socializzazione sono adatte soltanto quelle aziende e quegli impianti che servono a tutti i cittadini e che debbono essere in ugual misura a disposizione di tutti. Fanno parte di queste le ferrovie, le poste, i telegrafi, la radio, le società di navigazione, le linee aeree ed altre aziende industriali che possono svilupparsi soltanto nel libero gioco delle energie cooperanti e nell’ordine naturale di forti richieste; dovranno invece continuare col sistema attuale buona parte delle piccole e medie aziende indipendenti, che hanno a capo uomini di salda energia e di provata capacità e che sanno imporre anche alla grande industria i progressi della tecnica e che, con la loro concorrenza, costringono gli organismi industriali a sforzi produttivi sempre maggiori.
È inutile precisare che l’economia si troverebbe ben presto in difficoltà, qualora non ci fossero dei bravi operai specializzati, ed è quindi interesse della comunità di aiutare per quanto possibile l’istruzione di giovani operai con corsi di specializzazione. Ci si deve anche guardare dal limitare l’iniziativa privata nel campo della cultura, specialmente per quanto riguarda il teatro.
Lo Stato può benissimo dare l’esempio in tutti i campi culturali, però bisogna mettere ben in chiaro che non può essere che un esempio. Altrettanto valga per l’arte, che si basa soltanto sulla capacità del singolo individuo: anche qui lo Stato può aiutare gli elementi più promettenti affidando loro incarichi e compiti particolari e incoraggiandoli ad opere sempre migliori; ma qualsiasi altra intromissione dello Stato deve essere evitata.
I confini di un socialismo di Stato sono alquanto limitati e bisogna trovare una giusta via di mezzo tra capitale privato e capitale di Stato, se si vuole ottenere praticamente un nuovo ordine sociale. Nel sistema del capitale privato c’è una forza anonima, il denaro, che a mezzo delle banche e della borsa delimita i valori che possono o non possono essere prodotti in relazione agli interessi del capitale. Quindi non sono le necessità della massa che determinano lo sviluppo della produzione, poiché si ripeterà sempre il tentativo di ottenere a mezzo della rarefazione dei prodotti un aumento dei prezzi onde aumentare il reddito del capitale. Più di una volta si è verificato che, per ottenere un maggior reddito sui prodotti, si sia reso impossibile al produttore agricolo di vendere i suoi prodotti impedendone il trasporto. In luogo di questo sistema sorpassato e condannabile deve esserne escogitato uno più aderente agli interessi della nazione e tale nuovo sistema non consiste unicamente nella socializzazione delle grandi imprese industriali. È un fatto che anche l’impresa socializzata non può esistere senza capitale, poiché deve pagare gli operai, acquistare le materie prime, conquistare i mercati. Ma in questo caso non si tratta di un capitale anonimo, privato o statale, bensì di un capitale comune o di un capitale di fabbrica, su basi sociali che non rappresentano più interessi capitalistici privati, ma sta al servizio dell’azienda, a cui sono interessati tutti gli operai della fabbrica.
Soltanto quando si saranno raggiunti questi presupposti fondamentali, si potrà passare gradualmente la grande azienda industriale in proprietà degli operai ed impiegati, dal direttore generale al più umile lavoratore. L’indennizzo al proprietario, o alla società per azioni, già padroni dell’azienda, deve essere contenuto in limiti che siano sopportabili per l’azienda e sin da principio questo criterio dev’essere assolutamente chiaro. A socializzazione avvenuta, l’impresa diventa una cosa di interesse comune, al cui sviluppo è vivamente interessato qualsiasi dipendente, poiché la situazione economica di ogni singolo dipende dall’efficienza dell’impresa stessa: ciò darà inoltre ad ogni singolo il senso di responsabilità, non solo verso se stesso, ma verso tutti i suoi camerati.
Tutto questo è completamente nuovo e prevedo che potrà essere realizzato soltanto superando gravi difficoltà. Per quanto riguarda la forma finanziaria di un’azienda socializzata, io penso che la ricompensa dei singoli operai e impiegati deve essere basata su una certa tariffa. La tariffa deve essere scalare e deve corrispondere a ciò che ciascuno produce poiché sarebbe un errore se si volesse pagare in ugual misura tanto l’uomo che è responsabile di tutto l’andamento dell’azienda quanto quello che presta soltanto un modesto lavoro manuale.
Ove ciò non avvenisse si limiterebbe sino dall’inizio la spinta per raggiungere gradini sociali più elevati, e con ciò verrebbe eliminato pericolosamente uno dei principali fattori del progresso. Allorché tutte le spese aziendali saranno coperte, si potranno utilizzare gli eventuali utili superiori per scopi sociali. Tutte le aziende si preoccuperanno di procurarsi degli operai e degli impiegati fidati. Ciò si otterrà più facilmente, dando agli operai dimora stabile e abitazione propria. Perciò la direzione di una fabbrica provvederà alla costruzione di abitazioni in misura finora ignota. Essa cercherà di aggiudicarsi dei terreni adatti nelle vicinanze delle fabbriche per costruire le abitazioni e d’accordo con il comune provvederà alla sistemazione dei mezzi di trasporto, poiché buoni mezzi di comunicazione sono una delle prime necessità per l’attuazione di una ragionevole politica edilizia.
Il comune, che è sempre molto interessato all’ingrandimento del suo territorio, farà eseguire i lavori in compartecipazione con l’azienda per provvedere il nuovo quartiere aziendale delle fognature, della corrente elettrica e dell’acqua potabile, eccetera. Secondo un piano ben prestabilito si comincerà a costruire tenendo presente lo scopo di dare a ciascun operaio la propria casa con relativo giardino e con stalla (per piccolo bestiame).
Per entrare in possesso della sua casetta, l’operaio ammortizzerà ogni anno una piccola somma; finché la casa ed il giardino passino in suo possesso definitivo, egli la potrà anche vendere, ma soltanto d’accordo con l’azienda, mentre questa si riserverà il diritto di prelazione nell’acquisto della casa. Il denaro che affluirà alla cassa dell’azienda sarà utilizzato per costruire nuove case, finché tutti i dipendenti ne possederanno una.
È naturale che queste casette dovranno essere munite di tutti i comforts moderni.
Potranno lo Stato ed il comune aiutare questo progetto? Tale questione è della massima importanza e io credo di poter affermare che ciò sarebbe possibile.
Lo Stato ha il dovere di impedire qualsiasi intervento speculativo sul terreno scelto per la fabbricazione dei quartieri aziendali, poiché se questo fosse lasciato in mano al libero commercio la speculazione si impadronirebbe ben presto della cosa e tenterebbe di appropriarsi forti utili. Ciò deve essere evitato sin dall’inizio, con tutti i mezzi legali, e tutti coloro che tentassero di ottenere illeciti guadagni personali col sudore dei lavoratori dovranno essere puniti.
Un altro punto da evitare è il seguente: quando si esce da una qualsiasi città italiana, si può osservare come ai suoi margini si sviluppino aziende agricole che sfruttano anche il più piccolo pezzo di terreno. Ora, costruendo dei quartieri per operai, si verificherebbe contemporaneamente una diminuzione del terreno utilizzabile per l’agricoltura. Questa limitazione non potrebbe essere bilanciata dalla possibilità di una certa coltivazione negli orti del quartiere stesso; orbene la mia vecchia esperienza m’insegna che la modesta appezzatura agricola del piccolo privato non sopperisce neppure in piccola parte alle esigenze di una grande comunità e che l’approvvigionamento di una città viene assicurato unicamente dai prodotti agricoli e alimentari delle grandi proprietà agricole. Perciò è compito dello Stato di provvedere a sostituire quelle zone agricole periferiche, che dovessero essere assegnate a quartieri aziendali, con altri terreni viciniori. Ciò è facilmente comprensibile quando ci si immagini che in certi casi, come per esempio a Milano, si tratterebbe di costruire centinaia di migliaia di casette; il che accrescerebbe considerevolmente il territorio della città, ma diminuirebbe nello stesso tempo il terreno coltivabile.
I miei avversari, partigiani del capitale privato, hanno sempre sostenuto che con la socializzazione io creerei grandi difficoltà alle industrie e che gli operai e gli impiegati non sarebbero in grado di condurre con responsabilità una azienda. In merito a ciò io rispondo che il proprietario dell’azienda o il direttore generale può sempre rimanere, in qualità di impiegato, come membro dell’azienda e continuare a esercitare le sue funzioni qualora egli goda della fiducia dei suoi dipendenti. Per il resto, conoscendo bene gli operai, sono convinto che nei loro ranghi esistono elementi capaci e intelligenti, che forse non hanno mai avuto occasione di manifestare le proprie possibilità creative e industriali. In qualsiasi azienda socializzata si riveleranno quasi automaticamente coloro che possono occupare i primi posti e che sapranno far fiorire l’industria. Ci saranno sempre certamente dei casi di rivalità e di invidia, ma in fin dei conti questi sono difetti umani dei quali bisogna tener conto e non è nocivo allo sviluppo di un carattere se i posti più ambiti non gli vengono come un regalo del ciclo, perché alla fine saranno sempre i migliori ad imporsi. Secondo la mia esperienza, è proprio l’operaio che sa distinguere bene tra vera capacità e chiacchiere vane. E se i miei avversari sostengono che qualora io volessi mettere in pratica i miei piani, l’azienda diverrebbe un parlamentino di chiacchiere e il lavoro si ridurrebbe di giorno in giorno, risponderò che queste cose le può dire solo chi non conosce gli operai e crede che le grandi masse potrebbero lasciarsi abbindolare a lungo dalle stupide chiacchiere.
Effettivamente qualche volta vien fatto di meravigliarsi della pazienza angelica con la quale le masse sopportano anche le ingiustizie più grandi e si lasciano giocare. Ma un giorno anche la più grande pazienza si esaurisce, e allora guai a coloro che hanno scherzato con la pazienza delle masse lavoratrici. È possibile condurre pel naso per un certo tempo gli operai, ma guidarli si può soltanto quando essi hanno il sentimento che la persona che li guida non abbia unicamente buone intenzioni verso di loro, ma anche la capacità per farli avanzare sulla via giusta, poiché è proprio nella vita sociale che si distinguono presto le cose e gli uomini di valore da quelli senza valore.
Supponendo che una azienda sia riuscita a risolvere tutti i compiti ad essa imposti e sia riuscita a fiorire, c’è ancora un pericolo che la minaccia. Ho fatto l’esperienza che in un’azienda specializzata sovraccarica di ordinazioni, gli operai hanno spesso cercato di conseguire i massimi guadagni, aumentando il loro lavoro con ore straordinarie fino all’inverosimile. Ciò naturalmente non deve essere possibile nell’azienda socializzata, dove non sarà ammesso che si sfrutti oltre a un certo limite la capacità produttrice del singolo. Qualora il numero degli operai non si riveli più sufficiente per produrre tutto il lavoro necessario, l’azienda dovrà aprire le sue porte e accogliere nuove forze lavoratrici. Questi sono sacrifici che il singolo deve fare per la comunità, poiché socialismo significa anche essere pronti al sacrificio.
Per la prosperità dello Stato e quindi dei singoli individui che lo compongono è utile che gli operai rimangano fissi al loro posto di lavoro e che non si verifichi più la continua fluttuazione da un’officina all’’altra. In tal modo gli operai non avranno più tante difficoltà a formarsi la loro famiglia, come succede inevitabilmente a coloro che sono eternamente costretti a spostarsi periodicamente per trovare lavoro. C’è da tenere in considerazione anche il fatto che col nuovo ordine sociale l’operaio nullatenente diventa proprietario; che non è soltanto comproprietario di una grande azienda, ma che è anche possessore di un pezzo di terreno.
Come un filo rosso si trascina attraverso la nostra conoscenza della storia la convinzione esistente in ogni essere umano, di qualunque condizione e professione, che la sua felicità terrena consista soltanto nel diventare proprietario di un pezzo di terreno. È stata certamente una misura molto saggia quella presa dai vecchi capi militari dell’antica Roma di dare ai loro legionari, allorché venivano congedati dopo una battaglia vittoriosa, un pezzo di terreno, legandoli così anche per il futuro allo Stato e ai suoi interessi. Ora il singolo non dovrà più temere per il futuro dei suoi figli, perché dopo la sua morte essi diventano per diritto eredi; e non ci sarebbe motivo perché non dovesse esserci questa eredità anche per i beni guadagnati con l’industria, come è sempre stato per i beni agricoli. È vero che soltanto gli appartenenti alle aziende possono diventare gli eredi del padre, ma normalmente il figlio seguirà il padre se questi per l’avanzata età o per motivi di malattia dovrà abbandonare il lavoro, e in tal modo si formerà uno stretto vincolo tra l’azienda e le famiglie dei suoi impiegati e operai. Con ciò la famiglia raggiunge una base molto più solida di quanto non sia possibile oggi nell’attuale regime capitalistico.
Se tutta la responsabilità dell’azienda vien messa nelle mani degli operai e impiegati, è evidente che all’’azienda spetta di assumersi l’impegno di provvedere ai malati e agli invalidi. Probabilmente ciò verrà risolto creando delle casse per pensioni, alle quali dovrà essere depositata di volta in volta una parte del guadagno. Il capitale creato in questa maniera può essere lasciato all’azienda che ne godrà gli interessi. Se uno dei membri si ammala, la cassa malattia deve provvedere per lui. Le aziende più piccole probabilmente dovranno unirsi alle mutue statali, mentre quelle più grandi creeranno delle proprie mutue e, poiché ogni membro dell’azienda ha interesse di mantenere la sua capacità di lavoro e in caso di malattia di guarire il più presto possibile, le spese della cassa malattia saranno relativamente lievi, eccezion fatta per i casi di epidemie, e quindi anche i contributi potranno essere altrettanto bassi. Se uno dei membri diventa invalido anzitempo, l’assicurazione per l’invalidità dovrà provvedere affinché possa vivere serenamente per il resto dei suoi giorni. Ritengo indispensabile che ogni grande azienda abbia i suoi propri medici per controllare con visite regolari e periodiche lo stato di salute dei dipendenti per ragioni di igiene generale e per evitare il sorgere e il propagarsi di epidemie o di malattie infettive. Qualora uno dei membri dell’azienda non sia più in grado di compiere tutto il suo lavoro, egli sarà sottoposto a una visita medica di controllo che stabilirà il lavoro adatto alle forze dell’operaio o dell’impiegato. Il medico sarà responsabile del funzionamento degli impianti igienici dell’azienda che non dovranno consistere solamente nell’infermeria, nella farmacia e nei gabinetti di chirurgia e di specialità, ma anche negli impianti di riscaldamento, di aereazione, di docce, ecc. I giudizi del medico sono importantissimi per l’azienda e le innovazioni o i cambiamenti da lui proposti dovranno essere subito eseguiti. Le regolari visite di controllo daranno anche la possibilità di riconoscere in tempo il manifestarsi di malattie croniche, come per esempio la tubercolosi, e di far quindi curare tali malattie da medici specializzati, in ospedali o in sanatori. Sarà bene se la direzione dell’azienda stipulerà sin dall’inizio un contratto con degli ottimi sanatori per poter far ricoverare e curare i suoi dipendenti. Specialmente gli operai più anziani dovranno essere assistiti e vigilati dal medico, che interverrà prontamente ai primi sintomi di malattie reumatiche, poi-ché, come si sa, queste richiedono, data l’età, cure maggiori. Deve essere stroncato nel modo più assoluto lo sviluppo delle malattie veneree; qualora queste si verificassero, il medico deve provvedere perché i malati non vengano riammessi nell’azienda fintanto che qualsiasi possibilità di contagio non sia passata. Al lavoratore naturalmente non deve essere interdetto di scegliersi un medico di fiducia; il medico dell’azienda non deve essere anche il medico curante, ma sarà compito dell’azienda di stipulare un contratto con le organizzazioni mediche locali e con gli ospedali in merito al pagamento per le loro prestazioni ai dipendenti dell’azienda. Questo sistema di vigilanza sanitaria dovrebbe avere una benefica influenza sulla morale pubblica. Le forze spirituali e materiali dei lavoratori ne trarranno un notevole giovamento.
Il socialismo sarà il più forte strumento per la pace che sia mai esistito nel mondo: con la sua attuazione verrebbero a mancare tutte quelle cause che portano di solito alla guerra. Quando le masse sono contente non esistono più limiti al progresso degli uomini. Quando gli interessi capitalistici e le manovre di borsa non governeranno più l’economia, si raggiungerà quel livello ideale di prosperità comune che escluderà la possibilità di guerre.
Certo non bisognerà misurare tutte le persone con lo stesso metro: ci saranno sempre delle differenze, ci saranno sempre i pigri e i diligenti, gli stupidi e gli intelligenti, i più capaci e i meno capaci; ciascuno sarà padrone del proprio destino e potrà sviluppare al massimo tutte le sue capacità, ma entro quei limiti che non gli consentano di danneggiare la comunità. Una delle più importanti cause di guerra verrebbe a mancare: la lotta per i valori immaginari, come per esempio il denaro. Quando il valore del denaro dipenderà soltanto dal lavoro e dalla produzione, e non dall’oro e dalle azioni, il sistema capitalistico avrà completamente cessato di esistere. Con ciò una certa categoria di persone verrebbe esclusa dalla comunità e dalla società e forse distrutta, quelle persone per le quali il denaro è un dio; e all’umanità non potrà venirne che un gran bene. Io non ho mai potuto capire quelle sanguisughe che, pur possedendo già molto più di quanto non possano consumare, non si sentono sazie prima di avere aumentato ancora di milioni o di miliardi il loro patrimonio. Eliminare queste brutture umane sarà uno dei compiti del nuovo mondo socialista.
Avendo per mèta il raggiungimento di un ordine sociale, come quello del quale abbiamo parlato, io ho iniziato la mia attività di governo, ma non sono riuscito nel compito prefissomi perché mi si opposero fin da principio ostacoli che sembravano insormontabili. L’Italia è un paese molto povero e il suo popolo è costretto, come quasi nessun altro in Europa, a utilizzare tutto il guadagno della sua operosità produttiva per importare generi alimentari necessari alla sua vita. La produzione della nostra terra non è sufficiente per nutrire la popolazione in continuo aumento. Un terzo soltanto del nostro territorio può essere sfruttato dall’’agricoltura, mentre il resto è improduttivo. All’Italia mancano quasi completamente tutte le materie prime necessarie per l’industria e anche queste debbono essere importate e il loro costo grava sulle spalle dei lavoratori italiani dell’industria. Perciò volendo realizzare le mie idee sociali, dovetti pensare innanzi tutto a ingrandire il terreno coltivabile cercando nuove terre. Queste potevano essere trovate soltanto nelle colonie, che, allorché io andai al governo, erano di scarso valore e di nessun vantaggio economico. Dovetti perciò guardare lontano e cercare la possibilità di dare all’Italia il necessario spazio vitale, ma, non appena allungai la mano verso una zona africana di sfruttamento, cominciarono subito le difficoltà internazionali. Non soltanto venni attaccato personalmente, ma esisteva anche una totale incomprensione per le sacrosante necessità del mio paese. Malgrado ciò, non ho desistito mai dai miei piani; ma non fu per vanità o, come mi si rimprovera, per imporre la mia volontà al mondo, che attuai la mia politica interna ed estera, bensì per creare le basi indispensabili all’attuazione del nuovo ordine sociale. Ho sempre ritenuto legittimo cercare nuove colonie, come altri paesi fecero prima dell’Italia, anche perché gli italiani sono stati sempre dei maestri nell’arte della colonizzazione; essi hanno reso prosperi e fiorenti con il loro lavoro e la loro capacità tutti quei territori, nei quali si recarono.
Un esempio è dato dalle colonie francesi di Tunisi ed Algeri, che in realtà sono delle colonie italiane sotto bandiera francese e le cui grandi ricchezze non avvantaggiano, come sarebbe giusto, il popolo italiano, bensì i francesi, i quali possiedono un grandissimo spazio vitale, che non sono in grado di sfruttare.
Nonostante tutte le difficoltà e tutte le manovre con le quali si tentò di impedire la mia opera, riuscii a realizzare con successo una parte dei miei piani coloniali. Quanto il genio e il lavoro italiani hanno fatto nelle colonie dell’Africa settentrionale e più tardi nell’Abissinia non può essere scritto che a caratteri d’oro nella storia coloniale del mondo intero. Credo di avere ottenuto lo spazio vitale minimo necessario per poter realizzare con successo le mie idee sociali. Non posso giudicare in questo momento se più tardi, qualora la popolazione italiana continuasse ad aumentare nella stessa misura, saranno necessarie altre conquiste. La conquista delle colonie ci è costata, come il mondo sa, sacrifici e guerre sanguinose. È stato molto duro per me dover chiedere al popolo italiano questi sacrifici, ma l’ho fatto con la consapevolezza di agire nel suo interesse e per la sua prosperità futura, con la convinzione che i posteri e la storia avrebbero sanzionato le mie azioni. Che cos’altro avrei potuto fare, se non prendere con la forza ciò che un mondo incomprensivo e stupido mi negava?
Se dovrò scomparire dalla scena prima che le mie idee socialiste possano avere piena attuazione, sono convinto che, sia pure dopo altri errori, il nuovo ordine del mondo sarà creato nel senso da me indicato. Si dica quello che si vuole, le mie idee sono le sole che tengano conto degli interessi e delle necessità delle grandi masse lavoratrici e perciò esse saranno vittoriose, malgrado tutti gli ostacoli. Allora, e solo allora, il mondo cambierà aspetto. Al mio socialismo apparterrà il mondo e non al comunismo o al socialismo di Stato. L’uomo superiore di Nietzsche, come lo immagino io, e la comunità produttrice, non saranno più degli avversari.
Allorché soggiornai in Svizzera, quale rifugiato politico, frequentai per un certo tempo l’ambiente di Lenin ed ebbi subito la possibilità di rendermi conto che, ad eccezione di Lenin stesso che indubbiamente era un uomo di straordinaria intelligenza, tutti gli altri non erano che dei chiacchieroni e degli stupidi e che alcuni erano addirittura degni di essere rinchiusi in un manicomio. Cercai perciò un motivo per potermi staccare da questo ambiente e riprender la mia libertà di movimento. Seppi che, dopo che me n’ero andato, Lenin disse ai suoi compagni:
Ero ormai decisamente convinto che per poter mettere in pratica il vero socialismo, si dovevano gettare solide fondamenta nella coscienza degli uomini e che la classe operaia, come era allora, non avrebbe mai potuto costituire da sola la base per un nuovo ordine sociale.
Se le idee socialiste dovevano divenire una cosa reale, tutto il popolo e non solo una classe di esso, avrebbe dovuto partecipare con piena convinzione all’’idea della lotta di classe, e io stesso sentivo maturare in me, di anno in anno, la certezza che proprio l’idea della lotta di classe fosse sbagliata. Franava nella mia mente uno dei grandi pilastri del mio pensiero giovanile. Per tale motivo fui accusato di apostasia; i miei vecchi compagni socialisti mi danno del rinnegato perché oggi attuo ciò che ieri ho condannato e perché non ho conservato quella ch’essi chiamano coerenza di pensieri e di azioni, ossia quel vecchiume di metodi frusti e di idee sballate, ch’essi si aspettavano da me.
Io ritengo che questo sia un rimprovero stupido, poiché quando un uomo cammina senza mai fermarsi verso la mèta, non ha alcuna importanza la via che egli percorre per raggiungerla. Anche l’idea più rivoluzionaria può essere tradotta in pratica purché si sappia essere tanto elastici di mente da saper adottare metodi che almeno in apparenza siano rigidamente conservatori. Tutto sta nel sapersi adattare alle situazioni mutevoli e alle esigenze di ambiente, di epoca, di educazione; per restare fedeli alle premesse non è necessario irrigidirsi nel metodo.
Secondo me, uno degli errori principali del sistema marxista è quello di voler considerare il socialismo innanzi tutto come una questione puramente economica.
Noi vediamo ora nell’Unione Sovietica l’esperimento più grandioso e significativo della messa in pratica del marxismo puro. Quali ne sono gli effetti pratici? Non un progresso sociale della classe alla quale il marxismo avrebbe dovuto recare forza, decoro e prosperità, ma la decadenza totale delle masse, una decadenza morale e materiale della peggior specie. E non mi si dica che si tratta soltanto di uno stadio passeggero, poiché in tal caso bisogna dire che questo stadio passeggero dura da troppo tempo. In fin dei conti l’applicazione integrale del marxismo avrebbe dovuto già nella sua prima fase alleggerire notevolmente i gravami delle masse lavoratoci e migliorarne le condizioni sociali. Ciò però non si è verificato, e allora bisogna dedurre che anche nell’Unione Sovietica non si è fatto altro che promettere agli operai delusi, pressappoco come fa la Chiesa, un miglioramento futuro, per rinfocolare le loro speranze, ma che in sostanza da quasi trent’anni nulla di concreto ha realizzato il regime marxista per i lavoratori se non immobilizzarli con la forza brutale e l’impiego della polizia.
Dovrebbero ammettere apertamente i signori di Mosca di aver tolto agli uomini la gioia di vivere, permettendo loro soltanto di vegetare nelle peggiori condizioni economiche. Per mettere in atto la loro assurda formula comunista essi hanno allontanato tutte le persone veramente produttive di ogni categoria e di ogni professione, perché soltanto così avrebbero potuto imporre la loro volontà alle masse. E la questione è stata risolta in maniera radicale, uccidendo tutti coloro che la pensavano diversamente.
Qualsiasi osservatore intelligente di questi avvenimenti, che ora non possono più essere tenuti nascosti, dopo che milioni di uomini degli Stati dell’Europa occidentale hanno avuto la possibilità durante la guerra di vedere con i propri occhi cosa fosse il socialismo marxista dell’Unione Sovietica e di constatare con orrore la miseria delle masse, qualsiasi osservatore, dicevo, dovrebbe aver capito che questa forma di socialismo, malgrado tutte le promesse, non potrà mai portare a quel successo che i veri socialisti auspicavano.
È una cosa naturale che ogni uomo nel corso della sua vita desideri la parte a lui spettante di felicità, di proprietà e di libertà e che lotti per conseguire tutto questo. Se però io ostacolo questa naturale aspirazione dei miei simili, non potrò mai dire di me stesso che sono un socialista e che la felicità delle masse mi sta a cuore; sarò invece un tiranno, che mantiene a tutti i costi il potere soltanto con misure draconiane. E questo appunto è ciò che si è fatto nella Russia Sovietica. Peggio ancora è il voler sostenere che tutto questo è democrazia, una parola questa che suona come un’atroce beffa e che ha perduto ormai il suo vecchio valore nel mondo.
In ciò che i rappresentanti del marxismo e della democrazia si ostinano oggi a chiamare socialismo, c’è un errore fondamentale, di cui soltanto pochi si rendono conto; io però fin dagli anni della mia giovinezza mi sono fatto la convinzione che il socialismo non è né una questione puramente economica, né una questione di classe riguardante soltanto una certa parte del popolo; ma che è invece e innanzi tutto una questione di carattere. Pertanto, se si vuole veramente agire nell’interesse del popolo e del suo miglioramento sociale, non ci si deve limitare a imporre sic et simpliciter un nuovo sistema socialista quando mancano gli uomini probi e capaci che sappiano guidare quel popolo sulla via del progresso e delle conquiste sociali. Se il socialismo deve essere realizzato, esso presuppone che i suoi attuatori non lo abbiano concepito soltanto come idea, ma è necessario che essi siano passati attraverso una dura scuola, capace di innalzare gli uomini, anziché abbassarli. Perciò debbono essere educati prima di tutto gli uomini, che un giorno dovranno realizzare il nuovo socialismo e ciò non può essere naturalmente ottenuto in pochi anni.
È sbagliato sostenere che il socialismo, come generalmente si afferma, voglia arrivare a una stupida uguaglianza di valori, di capacità, di meriti. È vero il contrario. Il socialismo può essere tradotto in pratica soltanto quando gli uomini migliori e di carattere più forte di un popolo, anziché venire allontanati o soppressi, come è stato fatto in Russia, siano educati al servizio delle nuove idee affinché possano adoperare tutte le loro forze e la loro intelligenza non solo a loro proprio vantaggio, ma al servizio della comunità.
Dobbiamo creare dei caratteri che vedano nel raggiungimento delle idee sociali e nel sacrificio assoluto della propria personalità al servizio della comunità la loro massima fortuna e la mèta della loro vita. In altre parole dobbiamo creare dei capi permeati di sentimenti altruistici, idealistici. Tali uomini non si trovano soltanto in determinate classi e professioni, ma, secondo la mia esperienza, essi si distribuiscono in maniera uniforme in tutte le classi di una nazione, si trovano tanto fra gli operai che nella borghesia, come pure nelle così dette classi elevate. Generalmente è difficile identificare e accostare tali individualità, poiché simili caratteri sono fieri e chiusi e preferiscono lavorare silenziosamente, lontani dagli occhi e dal giudizio della gente. Ma quando si riesce a trovarli e a metterli al posto che loro spetta, essi contribuiscono in modo veramente esemplare alla propagazione delle idee sinceramente sociali ed al rapido progresso dell’umanità.
Bisogna aver fede nella bontà dell’uomo e nello sviluppo dell’umanità; soltanto allora si potrà concepire tutta la grandezza ed il significato delle idee socialiste. I pessimisti, che credono che il nostro mondo e gli uomini non possano essere migliorati, non potranno mai trovare la forza per mettersi al servizio di un’idea che renda felice l’umanità, e lasceranno passare innanzi a sé la vita restandone estranei.
Primo nostro dovere è dunque quello di trovare il mezzo di formare un nucleo-base di uomini superiori che sappiano con puro disinteresse mettersi al servizio della comunità, e soltanto allora potremo incominciare ad assolvere il compito di dare al mondo un nuovo ordine sociale. Io ho dovuto convincermi sempre di più quanto sia difficile trovare tali uomini. Non esito a dichiarare che più di una volta ho dovuto soffrire atrocemente per le delusioni cagionatemi dai miei errori, ma sarebbe stato assai peggio se io mi fossi fermato, se mi fossi dichiarato vinto e avessi lasciato che le cose continuassero come andavano. È contro questa mentalità che combatto con tutte le mie forze, poiché se non lo facessi, tanto sarebbe valso che non avessi mai cominciato e avessi pensato invece a crearmi un’esistenza certamente più tranquilla e meno faticosa, come giornalista e magari come professore in una delle tante università italiane. Poter mettere al servizio del popolo e dello Stato la mia energia e quella di coloro sui quali speravo di poter contare sino alla fine, è Stato uno dei motivi per i quali ho creato il movimento fascista. Ho tentato di migliorare il carattere di quegli uomini che mi avevano seguito spontaneamente, dando loro dei compiti ben determinati, ma oggi dovrei confessare di non essere riuscito in tale impresa.
Ho potuto constatare più volte che le buone qualità di un uomo si sviluppano maggiormente in proporzione alla grandezza e alle difficoltà del compito che gli si assegna: ed è anche per questa ragione che ho richiamato in vita gli emblemi dell’antico Impero romano, per mostrare al popolo che esso è custode di una grande tradizione e che potrà raggiungere la felicità e il benessere soltanto quando avrà la forza e la capacità di riprendere l’opera di ricostruzione al punto nel quale si è verificata la decadenza dell’Impero romano.
Se si da uno sguardo profondo agli avvenimenti che causarono il lento processo di inquinamento e di decadimento, si vedrà che la colpa non è delle dittature, ma bensì del così detto ordine democratico. Quanto più lo Stato romano si allontanava dal suo ordine aristocratico, tanto più aumentavano il disordine e la decadenza, sino a che tutto andò a finire nelle mani di individui incapaci che invano cercavano di coprirsi col mantello della monarchia. Gli errori ed i crimini della monarchia romana appaiono evidenti al lettore attento della nostra storia.Perciò io ho tentato di far rinascere nel fascismo le antiche virtù del popolo romano e cioè: la dedizione alla comunità, la fedeltà, il coraggio, lo spirito di sacrificio, sperando di poter ricostruire su di esse il nuovo impero.
Non ho perseguito queste idee e queste mète per cupidigia di potere o per sete di conquista, né tanto meno per farmi un nome nella storia; lo scopo delle conquiste fasciste era soltanto quello di raggiungere una prima mèta, da cui poter trarre i mezzi per la creazione di un nuovo ordine sociale in Italia. E quanto più il fascismo si propagava nel cuore e nel cervello di tutti gli italiani, divenendo parte della loro vita morale, tanto più si avvicinava il momento nel quale avrebbe dovuto nascere il socialismo del futuro. Poiché è giusto ch’io le confessi apertamente che non ho mai avuto l’intenzione di fare del fascismo una specie di religione eterna. Quanto più il fascismo si sviluppava, tanto più poteva diventare liberale, e oggi credo di aver raggiunto il punto in cui posso dare la mano a qualsiasi mio compatriota, che come me sia disposto a lavorare per il raggiungimento di un vero socialismo.
Secondo me, tutto ciò che oggi nel mondo viene chiamato socialismo, non potrebbe resistere ad una severa critica; tale mia affermazione le diventerà subito chiara se esaminerà gli aspetti economici del socialismo.
Come è noto, nell’Unione Sovietica anche le più piccole imprese sono state socializzate, cioè alla proprietà privata si è sostituita la proprietà comune. Da queste misure vennero colpiti non soltanto gli ex-proprietari e gli artigiani indipendenti, ma anche gli operai e gli impiegati che lavoravano al loro servizio. Considerando la questione da un punto di vista obiettivo, ci si deve domandare: che cosa ci guadagna l’operaio o il contadino o l’impiegato, dal fatto che l’azienda o la fabbrica presso cui lavora diventi proprietà dello Stato? Che cosa succede quando in luogo del capitale privato entra in azione il capitale dello Stato? La risposta è evidente e semplice: niente; al contrario la posizione dell’operaio peggiora.
Con il capitale privato l’operaio o l’impiegato aveva la possibilità di esprimere i suoi desideri e le sue pretese ad un singolo o ad un gruppo di interessati e poteva eventualmente costringerli a venire a un accordo soddisfacente. Trattandosi invece di una azienda statalizzata, al singolo proprietario si sostituisce una forza anonima, lo Stato, che non può esser individuato e col quale non si può raggiungere alcun accordo.
La burocrazia, della quale non si può fare a meno, cresce smisuratamente e ciò a danno dell’operaio, che non potrà più liberarsi dal suo stato di schiavitù. A tale riguardo è significativo che in Russia sia severamente proibito all’operaio di usare la sua arma usuale, cioè quella dello sciopero. Se tutto ciò viene chiamato socialismo, posso dire soltanto che: o non si sono seriamente studiati questi problemi, oppure che non si può realizzare una vera riforma. In realtà bisognerebbe, per fare del vero socialismo, superare lo stato di asservimento degli operai ad una forza anonima, sia questa il capitale privato o il capitale dello Stato.
I contrasti si acuiscono e invece di abolire le differenze di classe, si aprono nuove ferite e solchi più profondi, elevando una barriera tra lo Stato e la massa. È assolutamente inesplicabile come si sia giudicato possibile raggiungere uno sviluppo migliore delle masse lavoratrici con questo sistema.
L’operaio si trova indifeso di fronte ad una forza sostenuta da tutti i mezzi militari e polizieschi e la sua situazione diventa peggiore di quella del più povero bracciante di campagna, poiché ricade in una schiavitù eterna. Persine le rappresentanze delle forze lavoratrici nei parlamenti democratici non sono in grado di cambiare questo stato di cose, tanto che anche nei paesi più ricchi e progrediti l’operaio deve ancora pregare ed implorare, senza avere il diritto di partecipare agli utili prodotti dal suo lavoro.
Da quanto sopra risulta evidente che il sistema sociale oggi in atto non può continuare e che deve essere sostituito con altri ordinamenti. Lo Stato non ha il compito di adoperare la sua forza per mantenere il privilegio del capitale privato o del capitale dello Stato. Il miglior modo per governare un paese è quello di far sentire il meno possibile l’esistenza dello Stato e la sua azione. Alla socializzazione sono adatte soltanto quelle aziende e quegli impianti che servono a tutti i cittadini e che debbono essere in ugual misura a disposizione di tutti. Fanno parte di queste le ferrovie, le poste, i telegrafi, la radio, le società di navigazione, le linee aeree ed altre aziende industriali che possono svilupparsi soltanto nel libero gioco delle energie cooperanti e nell’ordine naturale di forti richieste; dovranno invece continuare col sistema attuale buona parte delle piccole e medie aziende indipendenti, che hanno a capo uomini di salda energia e di provata capacità e che sanno imporre anche alla grande industria i progressi della tecnica e che, con la loro concorrenza, costringono gli organismi industriali a sforzi produttivi sempre maggiori.
È inutile precisare che l’economia si troverebbe ben presto in difficoltà, qualora non ci fossero dei bravi operai specializzati, ed è quindi interesse della comunità di aiutare per quanto possibile l’istruzione di giovani operai con corsi di specializzazione. Ci si deve anche guardare dal limitare l’iniziativa privata nel campo della cultura, specialmente per quanto riguarda il teatro.
Lo Stato può benissimo dare l’esempio in tutti i campi culturali, però bisogna mettere ben in chiaro che non può essere che un esempio. Altrettanto valga per l’arte, che si basa soltanto sulla capacità del singolo individuo: anche qui lo Stato può aiutare gli elementi più promettenti affidando loro incarichi e compiti particolari e incoraggiandoli ad opere sempre migliori; ma qualsiasi altra intromissione dello Stato deve essere evitata.
I confini di un socialismo di Stato sono alquanto limitati e bisogna trovare una giusta via di mezzo tra capitale privato e capitale di Stato, se si vuole ottenere praticamente un nuovo ordine sociale. Nel sistema del capitale privato c’è una forza anonima, il denaro, che a mezzo delle banche e della borsa delimita i valori che possono o non possono essere prodotti in relazione agli interessi del capitale. Quindi non sono le necessità della massa che determinano lo sviluppo della produzione, poiché si ripeterà sempre il tentativo di ottenere a mezzo della rarefazione dei prodotti un aumento dei prezzi onde aumentare il reddito del capitale. Più di una volta si è verificato che, per ottenere un maggior reddito sui prodotti, si sia reso impossibile al produttore agricolo di vendere i suoi prodotti impedendone il trasporto. In luogo di questo sistema sorpassato e condannabile deve esserne escogitato uno più aderente agli interessi della nazione e tale nuovo sistema non consiste unicamente nella socializzazione delle grandi imprese industriali. È un fatto che anche l’impresa socializzata non può esistere senza capitale, poiché deve pagare gli operai, acquistare le materie prime, conquistare i mercati. Ma in questo caso non si tratta di un capitale anonimo, privato o statale, bensì di un capitale comune o di un capitale di fabbrica, su basi sociali che non rappresentano più interessi capitalistici privati, ma sta al servizio dell’azienda, a cui sono interessati tutti gli operai della fabbrica.
Soltanto quando si saranno raggiunti questi presupposti fondamentali, si potrà passare gradualmente la grande azienda industriale in proprietà degli operai ed impiegati, dal direttore generale al più umile lavoratore. L’indennizzo al proprietario, o alla società per azioni, già padroni dell’azienda, deve essere contenuto in limiti che siano sopportabili per l’azienda e sin da principio questo criterio dev’essere assolutamente chiaro. A socializzazione avvenuta, l’impresa diventa una cosa di interesse comune, al cui sviluppo è vivamente interessato qualsiasi dipendente, poiché la situazione economica di ogni singolo dipende dall’efficienza dell’impresa stessa: ciò darà inoltre ad ogni singolo il senso di responsabilità, non solo verso se stesso, ma verso tutti i suoi camerati.
Tutto questo è completamente nuovo e prevedo che potrà essere realizzato soltanto superando gravi difficoltà. Per quanto riguarda la forma finanziaria di un’azienda socializzata, io penso che la ricompensa dei singoli operai e impiegati deve essere basata su una certa tariffa. La tariffa deve essere scalare e deve corrispondere a ciò che ciascuno produce poiché sarebbe un errore se si volesse pagare in ugual misura tanto l’uomo che è responsabile di tutto l’andamento dell’azienda quanto quello che presta soltanto un modesto lavoro manuale.
Ove ciò non avvenisse si limiterebbe sino dall’inizio la spinta per raggiungere gradini sociali più elevati, e con ciò verrebbe eliminato pericolosamente uno dei principali fattori del progresso. Allorché tutte le spese aziendali saranno coperte, si potranno utilizzare gli eventuali utili superiori per scopi sociali. Tutte le aziende si preoccuperanno di procurarsi degli operai e degli impiegati fidati. Ciò si otterrà più facilmente, dando agli operai dimora stabile e abitazione propria. Perciò la direzione di una fabbrica provvederà alla costruzione di abitazioni in misura finora ignota. Essa cercherà di aggiudicarsi dei terreni adatti nelle vicinanze delle fabbriche per costruire le abitazioni e d’accordo con il comune provvederà alla sistemazione dei mezzi di trasporto, poiché buoni mezzi di comunicazione sono una delle prime necessità per l’attuazione di una ragionevole politica edilizia.
Il comune, che è sempre molto interessato all’ingrandimento del suo territorio, farà eseguire i lavori in compartecipazione con l’azienda per provvedere il nuovo quartiere aziendale delle fognature, della corrente elettrica e dell’acqua potabile, eccetera. Secondo un piano ben prestabilito si comincerà a costruire tenendo presente lo scopo di dare a ciascun operaio la propria casa con relativo giardino e con stalla (per piccolo bestiame).
Per entrare in possesso della sua casetta, l’operaio ammortizzerà ogni anno una piccola somma; finché la casa ed il giardino passino in suo possesso definitivo, egli la potrà anche vendere, ma soltanto d’accordo con l’azienda, mentre questa si riserverà il diritto di prelazione nell’acquisto della casa. Il denaro che affluirà alla cassa dell’azienda sarà utilizzato per costruire nuove case, finché tutti i dipendenti ne possederanno una.
È naturale che queste casette dovranno essere munite di tutti i comforts moderni.
Potranno lo Stato ed il comune aiutare questo progetto? Tale questione è della massima importanza e io credo di poter affermare che ciò sarebbe possibile.
Lo Stato ha il dovere di impedire qualsiasi intervento speculativo sul terreno scelto per la fabbricazione dei quartieri aziendali, poiché se questo fosse lasciato in mano al libero commercio la speculazione si impadronirebbe ben presto della cosa e tenterebbe di appropriarsi forti utili. Ciò deve essere evitato sin dall’inizio, con tutti i mezzi legali, e tutti coloro che tentassero di ottenere illeciti guadagni personali col sudore dei lavoratori dovranno essere puniti.
Un altro punto da evitare è il seguente: quando si esce da una qualsiasi città italiana, si può osservare come ai suoi margini si sviluppino aziende agricole che sfruttano anche il più piccolo pezzo di terreno. Ora, costruendo dei quartieri per operai, si verificherebbe contemporaneamente una diminuzione del terreno utilizzabile per l’agricoltura. Questa limitazione non potrebbe essere bilanciata dalla possibilità di una certa coltivazione negli orti del quartiere stesso; orbene la mia vecchia esperienza m’insegna che la modesta appezzatura agricola del piccolo privato non sopperisce neppure in piccola parte alle esigenze di una grande comunità e che l’approvvigionamento di una città viene assicurato unicamente dai prodotti agricoli e alimentari delle grandi proprietà agricole. Perciò è compito dello Stato di provvedere a sostituire quelle zone agricole periferiche, che dovessero essere assegnate a quartieri aziendali, con altri terreni viciniori. Ciò è facilmente comprensibile quando ci si immagini che in certi casi, come per esempio a Milano, si tratterebbe di costruire centinaia di migliaia di casette; il che accrescerebbe considerevolmente il territorio della città, ma diminuirebbe nello stesso tempo il terreno coltivabile.
I miei avversari, partigiani del capitale privato, hanno sempre sostenuto che con la socializzazione io creerei grandi difficoltà alle industrie e che gli operai e gli impiegati non sarebbero in grado di condurre con responsabilità una azienda. In merito a ciò io rispondo che il proprietario dell’azienda o il direttore generale può sempre rimanere, in qualità di impiegato, come membro dell’azienda e continuare a esercitare le sue funzioni qualora egli goda della fiducia dei suoi dipendenti. Per il resto, conoscendo bene gli operai, sono convinto che nei loro ranghi esistono elementi capaci e intelligenti, che forse non hanno mai avuto occasione di manifestare le proprie possibilità creative e industriali. In qualsiasi azienda socializzata si riveleranno quasi automaticamente coloro che possono occupare i primi posti e che sapranno far fiorire l’industria. Ci saranno sempre certamente dei casi di rivalità e di invidia, ma in fin dei conti questi sono difetti umani dei quali bisogna tener conto e non è nocivo allo sviluppo di un carattere se i posti più ambiti non gli vengono come un regalo del ciclo, perché alla fine saranno sempre i migliori ad imporsi. Secondo la mia esperienza, è proprio l’operaio che sa distinguere bene tra vera capacità e chiacchiere vane. E se i miei avversari sostengono che qualora io volessi mettere in pratica i miei piani, l’azienda diverrebbe un parlamentino di chiacchiere e il lavoro si ridurrebbe di giorno in giorno, risponderò che queste cose le può dire solo chi non conosce gli operai e crede che le grandi masse potrebbero lasciarsi abbindolare a lungo dalle stupide chiacchiere.
Effettivamente qualche volta vien fatto di meravigliarsi della pazienza angelica con la quale le masse sopportano anche le ingiustizie più grandi e si lasciano giocare. Ma un giorno anche la più grande pazienza si esaurisce, e allora guai a coloro che hanno scherzato con la pazienza delle masse lavoratrici. È possibile condurre pel naso per un certo tempo gli operai, ma guidarli si può soltanto quando essi hanno il sentimento che la persona che li guida non abbia unicamente buone intenzioni verso di loro, ma anche la capacità per farli avanzare sulla via giusta, poiché è proprio nella vita sociale che si distinguono presto le cose e gli uomini di valore da quelli senza valore.
Supponendo che una azienda sia riuscita a risolvere tutti i compiti ad essa imposti e sia riuscita a fiorire, c’è ancora un pericolo che la minaccia. Ho fatto l’esperienza che in un’azienda specializzata sovraccarica di ordinazioni, gli operai hanno spesso cercato di conseguire i massimi guadagni, aumentando il loro lavoro con ore straordinarie fino all’inverosimile. Ciò naturalmente non deve essere possibile nell’azienda socializzata, dove non sarà ammesso che si sfrutti oltre a un certo limite la capacità produttrice del singolo. Qualora il numero degli operai non si riveli più sufficiente per produrre tutto il lavoro necessario, l’azienda dovrà aprire le sue porte e accogliere nuove forze lavoratrici. Questi sono sacrifici che il singolo deve fare per la comunità, poiché socialismo significa anche essere pronti al sacrificio.
Per la prosperità dello Stato e quindi dei singoli individui che lo compongono è utile che gli operai rimangano fissi al loro posto di lavoro e che non si verifichi più la continua fluttuazione da un’officina all’’altra. In tal modo gli operai non avranno più tante difficoltà a formarsi la loro famiglia, come succede inevitabilmente a coloro che sono eternamente costretti a spostarsi periodicamente per trovare lavoro. C’è da tenere in considerazione anche il fatto che col nuovo ordine sociale l’operaio nullatenente diventa proprietario; che non è soltanto comproprietario di una grande azienda, ma che è anche possessore di un pezzo di terreno.
Come un filo rosso si trascina attraverso la nostra conoscenza della storia la convinzione esistente in ogni essere umano, di qualunque condizione e professione, che la sua felicità terrena consista soltanto nel diventare proprietario di un pezzo di terreno. È stata certamente una misura molto saggia quella presa dai vecchi capi militari dell’antica Roma di dare ai loro legionari, allorché venivano congedati dopo una battaglia vittoriosa, un pezzo di terreno, legandoli così anche per il futuro allo Stato e ai suoi interessi. Ora il singolo non dovrà più temere per il futuro dei suoi figli, perché dopo la sua morte essi diventano per diritto eredi; e non ci sarebbe motivo perché non dovesse esserci questa eredità anche per i beni guadagnati con l’industria, come è sempre stato per i beni agricoli. È vero che soltanto gli appartenenti alle aziende possono diventare gli eredi del padre, ma normalmente il figlio seguirà il padre se questi per l’avanzata età o per motivi di malattia dovrà abbandonare il lavoro, e in tal modo si formerà uno stretto vincolo tra l’azienda e le famiglie dei suoi impiegati e operai. Con ciò la famiglia raggiunge una base molto più solida di quanto non sia possibile oggi nell’attuale regime capitalistico.
Se tutta la responsabilità dell’azienda vien messa nelle mani degli operai e impiegati, è evidente che all’’azienda spetta di assumersi l’impegno di provvedere ai malati e agli invalidi. Probabilmente ciò verrà risolto creando delle casse per pensioni, alle quali dovrà essere depositata di volta in volta una parte del guadagno. Il capitale creato in questa maniera può essere lasciato all’azienda che ne godrà gli interessi. Se uno dei membri si ammala, la cassa malattia deve provvedere per lui. Le aziende più piccole probabilmente dovranno unirsi alle mutue statali, mentre quelle più grandi creeranno delle proprie mutue e, poiché ogni membro dell’azienda ha interesse di mantenere la sua capacità di lavoro e in caso di malattia di guarire il più presto possibile, le spese della cassa malattia saranno relativamente lievi, eccezion fatta per i casi di epidemie, e quindi anche i contributi potranno essere altrettanto bassi. Se uno dei membri diventa invalido anzitempo, l’assicurazione per l’invalidità dovrà provvedere affinché possa vivere serenamente per il resto dei suoi giorni. Ritengo indispensabile che ogni grande azienda abbia i suoi propri medici per controllare con visite regolari e periodiche lo stato di salute dei dipendenti per ragioni di igiene generale e per evitare il sorgere e il propagarsi di epidemie o di malattie infettive. Qualora uno dei membri dell’azienda non sia più in grado di compiere tutto il suo lavoro, egli sarà sottoposto a una visita medica di controllo che stabilirà il lavoro adatto alle forze dell’operaio o dell’impiegato. Il medico sarà responsabile del funzionamento degli impianti igienici dell’azienda che non dovranno consistere solamente nell’infermeria, nella farmacia e nei gabinetti di chirurgia e di specialità, ma anche negli impianti di riscaldamento, di aereazione, di docce, ecc. I giudizi del medico sono importantissimi per l’azienda e le innovazioni o i cambiamenti da lui proposti dovranno essere subito eseguiti. Le regolari visite di controllo daranno anche la possibilità di riconoscere in tempo il manifestarsi di malattie croniche, come per esempio la tubercolosi, e di far quindi curare tali malattie da medici specializzati, in ospedali o in sanatori. Sarà bene se la direzione dell’azienda stipulerà sin dall’inizio un contratto con degli ottimi sanatori per poter far ricoverare e curare i suoi dipendenti. Specialmente gli operai più anziani dovranno essere assistiti e vigilati dal medico, che interverrà prontamente ai primi sintomi di malattie reumatiche, poi-ché, come si sa, queste richiedono, data l’età, cure maggiori. Deve essere stroncato nel modo più assoluto lo sviluppo delle malattie veneree; qualora queste si verificassero, il medico deve provvedere perché i malati non vengano riammessi nell’azienda fintanto che qualsiasi possibilità di contagio non sia passata. Al lavoratore naturalmente non deve essere interdetto di scegliersi un medico di fiducia; il medico dell’azienda non deve essere anche il medico curante, ma sarà compito dell’azienda di stipulare un contratto con le organizzazioni mediche locali e con gli ospedali in merito al pagamento per le loro prestazioni ai dipendenti dell’azienda. Questo sistema di vigilanza sanitaria dovrebbe avere una benefica influenza sulla morale pubblica. Le forze spirituali e materiali dei lavoratori ne trarranno un notevole giovamento.
Il socialismo sarà il più forte strumento per la pace che sia mai esistito nel mondo: con la sua attuazione verrebbero a mancare tutte quelle cause che portano di solito alla guerra. Quando le masse sono contente non esistono più limiti al progresso degli uomini. Quando gli interessi capitalistici e le manovre di borsa non governeranno più l’economia, si raggiungerà quel livello ideale di prosperità comune che escluderà la possibilità di guerre.
Certo non bisognerà misurare tutte le persone con lo stesso metro: ci saranno sempre delle differenze, ci saranno sempre i pigri e i diligenti, gli stupidi e gli intelligenti, i più capaci e i meno capaci; ciascuno sarà padrone del proprio destino e potrà sviluppare al massimo tutte le sue capacità, ma entro quei limiti che non gli consentano di danneggiare la comunità. Una delle più importanti cause di guerra verrebbe a mancare: la lotta per i valori immaginari, come per esempio il denaro. Quando il valore del denaro dipenderà soltanto dal lavoro e dalla produzione, e non dall’oro e dalle azioni, il sistema capitalistico avrà completamente cessato di esistere. Con ciò una certa categoria di persone verrebbe esclusa dalla comunità e dalla società e forse distrutta, quelle persone per le quali il denaro è un dio; e all’umanità non potrà venirne che un gran bene. Io non ho mai potuto capire quelle sanguisughe che, pur possedendo già molto più di quanto non possano consumare, non si sentono sazie prima di avere aumentato ancora di milioni o di miliardi il loro patrimonio. Eliminare queste brutture umane sarà uno dei compiti del nuovo mondo socialista.
Avendo per mèta il raggiungimento di un ordine sociale, come quello del quale abbiamo parlato, io ho iniziato la mia attività di governo, ma non sono riuscito nel compito prefissomi perché mi si opposero fin da principio ostacoli che sembravano insormontabili. L’Italia è un paese molto povero e il suo popolo è costretto, come quasi nessun altro in Europa, a utilizzare tutto il guadagno della sua operosità produttiva per importare generi alimentari necessari alla sua vita. La produzione della nostra terra non è sufficiente per nutrire la popolazione in continuo aumento. Un terzo soltanto del nostro territorio può essere sfruttato dall’’agricoltura, mentre il resto è improduttivo. All’Italia mancano quasi completamente tutte le materie prime necessarie per l’industria e anche queste debbono essere importate e il loro costo grava sulle spalle dei lavoratori italiani dell’industria. Perciò volendo realizzare le mie idee sociali, dovetti pensare innanzi tutto a ingrandire il terreno coltivabile cercando nuove terre. Queste potevano essere trovate soltanto nelle colonie, che, allorché io andai al governo, erano di scarso valore e di nessun vantaggio economico. Dovetti perciò guardare lontano e cercare la possibilità di dare all’Italia il necessario spazio vitale, ma, non appena allungai la mano verso una zona africana di sfruttamento, cominciarono subito le difficoltà internazionali. Non soltanto venni attaccato personalmente, ma esisteva anche una totale incomprensione per le sacrosante necessità del mio paese. Malgrado ciò, non ho desistito mai dai miei piani; ma non fu per vanità o, come mi si rimprovera, per imporre la mia volontà al mondo, che attuai la mia politica interna ed estera, bensì per creare le basi indispensabili all’attuazione del nuovo ordine sociale. Ho sempre ritenuto legittimo cercare nuove colonie, come altri paesi fecero prima dell’Italia, anche perché gli italiani sono stati sempre dei maestri nell’arte della colonizzazione; essi hanno reso prosperi e fiorenti con il loro lavoro e la loro capacità tutti quei territori, nei quali si recarono.
Un esempio è dato dalle colonie francesi di Tunisi ed Algeri, che in realtà sono delle colonie italiane sotto bandiera francese e le cui grandi ricchezze non avvantaggiano, come sarebbe giusto, il popolo italiano, bensì i francesi, i quali possiedono un grandissimo spazio vitale, che non sono in grado di sfruttare.
Nonostante tutte le difficoltà e tutte le manovre con le quali si tentò di impedire la mia opera, riuscii a realizzare con successo una parte dei miei piani coloniali. Quanto il genio e il lavoro italiani hanno fatto nelle colonie dell’Africa settentrionale e più tardi nell’Abissinia non può essere scritto che a caratteri d’oro nella storia coloniale del mondo intero. Credo di avere ottenuto lo spazio vitale minimo necessario per poter realizzare con successo le mie idee sociali. Non posso giudicare in questo momento se più tardi, qualora la popolazione italiana continuasse ad aumentare nella stessa misura, saranno necessarie altre conquiste. La conquista delle colonie ci è costata, come il mondo sa, sacrifici e guerre sanguinose. È stato molto duro per me dover chiedere al popolo italiano questi sacrifici, ma l’ho fatto con la consapevolezza di agire nel suo interesse e per la sua prosperità futura, con la convinzione che i posteri e la storia avrebbero sanzionato le mie azioni. Che cos’altro avrei potuto fare, se non prendere con la forza ciò che un mondo incomprensivo e stupido mi negava?
Se dovrò scomparire dalla scena prima che le mie idee socialiste possano avere piena attuazione, sono convinto che, sia pure dopo altri errori, il nuovo ordine del mondo sarà creato nel senso da me indicato. Si dica quello che si vuole, le mie idee sono le sole che tengano conto degli interessi e delle necessità delle grandi masse lavoratrici e perciò esse saranno vittoriose, malgrado tutti gli ostacoli. Allora, e solo allora, il mondo cambierà aspetto. Al mio socialismo apparterrà il mondo e non al comunismo o al socialismo di Stato. L’uomo superiore di Nietzsche, come lo immagino io, e la comunità produttrice, non saranno più degli avversari.
(Benito Mussolini)
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«Vi dico che il più grande dolore che potrei provare sarebbe quello di rivedere nel territorio della Repubblica Sociale i carabinieri, la monarchia e la Confindustria. Sarebbe l’estrema delle mie umiliazioni. Dovrei considerare definitivamente chiuso il mio ciclo, finito». [Benito Mussolini a Carlo Silvestri, 22 aprile 1945]
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