lunedì 15 giugno 2015

OPERAZIONE BARBAROSSA



“italiasociale dà la possibilità ai propri lettori di leggere alcune pagine dell’interessante libro d Stafano Fabei sulla Campagna di Russia” – Ed .Mursia.
OPERAZIONE BARBAROSSA   22 GIUGNO 1941
 Stefano Fabei
 PREFAZIONE
Quando si scrive di storia non ha alcuna importanza che sia piacevole o spiacevole; se teniamo in considerazione ciò che piace o non piace, ciò che serve o non serve, usciamo subito dall’ambito della disciplina per entrare in quello della propaganda. Chi ama indagare il passato con metodi scientifici deve cercare di fare chiarezza su ciò che è successo.
Ciò premesso, insieme alla convinzione che non occorra un libro per sostenere le tesi e la validità di un altro, mi soffermerò brevemente sul perché di questo saggio. Quando nel 2000 uscì in Italia il libro di Viktor Suvorov, Stalin, Hitler: la rivoluzione bolscevica mondiale, da me letto con grande curiosità e interesse, ma anche con piacere per l’esemplare semplicità e chiarezza unite a uno stile asciutto e privo di retorica, incominciai a pormi alcuni quesiti sulle possibili ragioni per cui si era rotto il patto di alleanza che avrebbe, forse, permesso a quei due dittatori di spartirsi il mondo. Da allora mi promisi di leggere – uscendo periodicamente dalle letture e dagli studi propedeutici ai miei libri – alcune biografie di Hitler e Stalin oltre ai saggi sul patto di non aggressione firmato dai ministri degli Esteri russo e tedesco il 23 agosto 1939, a Mosca.
Suvorov, nello scrivere la sua opera, si era avvalso non di archivi o di fonti dei servizi segreti ma di pubblicazioni ufficiali, accessibili a tutti come manuali diffusi nelle scuole delle forze armate, riviste militari, quotidiani, come la “Pravda” e “Krasnaja Zvezda”, il giornale dell’Armata Rossa, periodici e altri scritti, fra cui l’opera omnia di Stalin, di Lenin e Marx, i discorsi dei marescialli sovietici, Zukov, Konev, Rokossovskij. L’ex funzionario dei servizi segreti militari sovietici capovolgeva così l’opinione comune allora diffusa sull’origine della Seconda guerra mondiale, analizzando il ruolo del dittatore georgiano nella sua lunga progettazione e nel suo sviluppo. Facendo un dettagliato esame della preparazione militare ed ideologica della guerra e dell’apparato bellico sovietico, l’autore si chiedeva come fosse potuto accadere che, di fronte a questa mole di materiali, nessuno avesse capito l’effettivo svolgersi del conflitto, il progetto, la tattica e la strategia dell’Unione Sovietica. La sua tesi era che Stalin, fin dagli anni Venti, avesse auspicato e preparato la guerra, considerandola, sulla scia di Lenin, adatta ad innescare quella rivoluzione proletaria per la quale Hitler avrebbe svolto inconsapevolmente la funzione di “nave rompighiaccio”; in sintesi, il dittatore tedesco sarebbe stato un utile burattino nelle mani del suo omologo sovietico il cui progetto era l’invasione e l’occupazione dell’Europa. Suvorov spiegava, inoltre, l’abilità di Stalin, l’effettivo iniziatore della guerra, nel riuscire ad apparire come una parte lesa sedendosi poi, nelle trattative, dalla parte dei vincitori.
Leggendo il libro risultava infranto il cliché della “lotta antifascista” guidata dal socialismo e veniva confermata l’idea che sulla guerra tra Germania e Unione Sovietica non fosse ancora stata scritta tutta la verità, che alcuni suoi aspetti fossero stati deliberatamente nascosti per non infrangere il manicheismo imperante, dato che la storia la scrivono sempre i vincitori, per cui i perdenti sono, per forza, quanto meno criminali oltre che i principali, se non esclusivi, responsabili dell’accaduto.
Secondo la tesi rivoluzionaria di Suvorov – pseudonimo di Vladimir Bogdanovic Rezun, nato nel 1947, figlio di un ufficiale dell’Armata Rossa, studi all’Accademia Suvorov e alla Scuola militare superiore di Kiev, dopo aver preso parte all’invasione della Cecoslovacchia nel 1968, nel 1970 è entrato nei servizi segreti e in questa veste ha vissuto a Ginevra dal 1974 al 1978, anno in cui ha chiesto asilo politico in Inghilterra ed è stato condannato a morte in Unione Sovietica – l’attacco “a sorpresa” di Hitler all’URSS sarebbe stato in realtà un’estrema reazione per prevenire l’imminente invasione dell’Europa da parte di Stalin, ragione per cui l’opposizione di quest’ultimo al Terzo Reich sarebbe stata soltanto strumentale: la premessa di uno scontro più vasto con le democrazie occidentali.
Una tesi del genere comportava un vero e proprio sconvolgimento della storiografia novecentesca, che ritiene l’opposizione dell’Unione Sovietica e, in genere, la lotta antifascista della sinistra come il nodo cruciale del XX secolo.
Dopo aver consentito ad Hitler la conquista dell’Europa, usandolo come un rompighiaccio, Suvorov sostiene che Stalin avrebbe dato il via alla sua guerra di conquista e che la data prevista per l’invasione era stata fissata per il 6 luglio 1941. Il Fuhrer, tuttavia, sarebbe riuscito a scoprire il progetto sovietico precedendolo di due settimane. L’incapacità dei russi di difendersi sul proprio territorio sarebbe stata determinata dal fatto che erano stati preparati ad una guerra offensiva e non difensiva quale fu quella cui li aveva costretti il Terzo Reich. Conferme a queste tesi furono trovate anche in documenti segreti conservati negli archivi, come ad esempio, tanto per citarne uno, il piano del maresciallo Zukov per l’attacco alla Germania, datato 15 maggio 1941. Secondo quanto ha più recentemente affermato Constantin Pleshakov, sulla base delle ricerche da lui condotte negli archivi sovietici, Stalin preparava la guerra per il 1942. Quest’ultimo sapeva che prima o poi Hitler avrebbe attaccato l’URSS, ma non si aspettava che l’aggressione sarebbe avvenuta così presto.
Il piano del dittatore georgiano affondava le sue radici, prima ancora che in Lenin, in Marx, per il quale la rivoluzione socialista non poteva che essere mondiale. La Terza Internazionale costituiva lo stato maggiore della rivoluzione planetaria e il suo fondatore era convinto che dovesse necessariamente vincere o l’uno o l’altro fronte, non potendo l’URSS coesistere a lungo con entità statali ispirate a principi diversi. Su ciò concordava anche Stalin, che riteneva una necessità improrogabile la diffusione del regime comunista in tutto il mondo, pena la disintegrazione dell’Unione Sovietica. La storia sembra aver dimostrato come fossero fondati quei sospetti: la globalizzazione in corso è, infatti, non quella auspicata dai sostenitori dell’ideologia comunista ma quella ispirata ai principi e ai metodi del capitalismo.
Non solo nel 1941 ma anche quattro anni dopo, per Suvorov, Stalin era convinto che la guerra fosse persa, tanto che rifiutò di assistere alla parata della vittoria, rispondendo a chi gliene chiedeva la ragione, che l’URSS si sarebbe disintegrata non essendo riuscita a conquistare “neanche l’Europa”. Per decenni si è ritenuto che mettere in luce le responsabilità del totalitarismo sovietico sarebbe equivalso a scusare o giustificare quello nazionalsocialista. Oggi però che i due totalitarismi non esistono più con quelle dimensioni, occorre cercare di comprendere più compiutamente il passato. E’ quanto ho cercato di fare. Con l’amplia bibliografia presente in fondo al testo ho voluto offrire uno strumento a chi voglia approfondire l’argomento.

OPERAZIONE BARBAROSSA
         A tre mesi dalla firma del Patto d’acciaio con cui a Berlino, il 22 maggio 1939, i ministri degli Esteri Galeazzo Ciano e Joachim von Ribbentrop avevano sancito l’alleanza politica e militare tra l’Italia e la Germania, il 23 agosto il Terzo Reich e l’Unione Sovietica firmarono un accordo di non aggressione e un protocollo segreto in cui non solo era definita la spartizione della Polonia ma anche riconosciuto, da parte tedesca, il diritto della Russia a inserire gli Stati baltici e la Besserabia nella propria sfera d’influenza.
         Dell’andamento dei colloqui tra Mosca e Berlino l’Italia era stata informata nel corso degli incontri avuti da Ciano con Ribbentrop e Hitler tra l’11 e il 13 agosto. In Giappone la notizia della firma del documento, in aperta violazione delle clausole segrete del Patto Anticomintern (novembre 1936) che impegnava i contraenti a consultarsi in caso di accordi con l’Unione Sovietica, provocò una crisi politica determinando un temporaneo raffreddamento nelle relazioni con la Germania.
         Anche sul fronte antifascista il patto firmato da Molotov, il commissario sovietico per gli Esteri, con Ribbentrop, ebbe un effetto disorientante e dirompente, causando la spaccatura dell’unità d’azione tra comunisti e socialisti. Come prevedibile, l’opinione pubblica mondiale rimase non solo sorpresa, ma anche alquanto scettica sull’efficacia e la durata del patto stesso.
         Al di là delle divergenze, e delle somiglianze, esistenti sul piano politico e statuale tra i due regimi, l’accordo tra Hitler e Stalin apparve come un espediente tattico da cui entrambi i dittatori si proponevano di trarre una serie di vantaggi (1).
         Il Fuhrer – temendo la guerra su due fronti, già responsabile della sconfitta tedesca nel Primo conflitto mondiale – voleva avere mano libera per condurre il suo blitzkrieg contro la Polonia e le potenze occidentali. Garantendosi ad est, avrebbe potuto concentrare le sue forze per raggiungere gli obiettivi immediati sul fronte occidentale, rinviando ad un secondo momento la conquista del lebensraum, lo “spazio vitale” necessario non solo a garantire l’esistenza ed il naturale aumento della popolazione tedesca ma anche per imporre l’”ordine nuovo”. Dal patto Stalin si proponeva di ottenere, invece, oltre a una serie di guadagni territoriali per consolidare la sua posizione politica e militare, anche un arco di tempo abbastanza lungo indispensabile al perfezionamento della sua macchina bellica, impegnata in una radicale riorganizzazione dei vertici, decapitati dalle purghe, e nell’introduzione di nuove armi e di nuove tecniche d’impiego.
         Con una certa determinazione, Berlino e Mosca, negli ultimi mesi del 1939 e nel 1940, procedettero quindi alla realizzazione dei propri programmi. La Germania, sconfitta la Polonia, invase Danimarca, Norvegia, Belgio, Olanda, Lussemburgo e Francia.
         La Russia, dopo essersi annessa la Polonia orientale nel 1939, i Paesi baltici, la Besserabia e la Bucovina settentrionale nel 1940, attaccò la Finlandia. Con il conseguimento di questi risultati, nella primavera del 1941 il patto Molotov – Ribbentrop aveva perso quei caratteri di opportunismo per cui era stato sottoscritto due anni prima in una situazione molto diversa. Si tornava pertanto a una situazione di sospetti, diffidenze reciproche e di contrasto.
         Hitler, sfumato il piano d’invasione dell’Inghilterra (operazione Leone Marino), aveva dovuto prendere atto di come lo scontro con l’impero britannico stesse assumendo i caratteri di una vera e propria guerra di logoramento che si prospettava lunga e complessa in quanto combattuta non con l’enorme apparato bellico terrestre che il Reich aveva a sua disposizione, ma soprattutto con forze aeree e subacquee. Alla frontiera orientale iniziava intanto a determinarsi una grave frizione che prevedibilmente avrebbe potuto assumere le caratteristiche di un vero e proprio scontro armato.
         Il fatto che Mosca sembrasse sempre meno disponibile a fornire a Berlino le risorse pattuite, mentre, al contempo, stava ammassando truppe lungo la linea di contatto, spinse Hitler a scatenare preventivamente l’attacco che avrebbe non solo permesso di togliere alla Gran Bretagna un possibile alleato continentale, ma anche di acquisire a oriente il controllo e la disponibilità di grandi risorse agricole, minerarie e industriali, necessarie al Reich per opporsi efficacemente al Commonwealth britannico in uno sforzo ormai destinato a protrarsi nel tempo. Va da sé che una guerra preventiva non può basarsi su fatti solo oggettivi; prepararla, come vedremo, implica necessariamente, da parte dell’aggressore, il sentimento, il sospetto di essere subito minacciato.
         Questo sviluppo degli eventi era anche il completamento di un progetto ideologico, di un obiettivo politico-strategico che il Fuhrer aveva elaborato fin dagli anni Venti e perseguito dal suo avvento al potere nel 1933: la conquista della Russia occidentale, per creare un grande impero germanico nell’Europa continentale.
         L’idea iniziale risaliva ad almeno quindici anni prima, al periodo della stesura del Mein Kampf in cui aveva testualmente affermato: “Noi, nazionalsocialisti, tiriamo una riga sulla politica estera tedesca dell’anteguerra, e la cancelliamo. Noi cominciamo là, dove si terminò sei secoli fa. Mettiamo termine all’eterna marcia germanica verso il sud e l’ovest dell’Europa e volgiamo lo sguardo alla terra situata all’est. Chiudiamo finalmente la politica coloniale e commerciale dell’anteguerra e trapassiamo alla politica territoriale dell’avvenire. Ma quando, oggi, parliamo di nuovo territorio in Europa, dobbiamo pensare in prima linea alla Russia, o agli Stati marginali ad essa soggetti. Sembra che il destino stesso ci voglia indicare queste regioni…Il colossale impero orientale è maturo per il crollo. E la fine del dominio ebraico è maturo per il crollo. E la fine del dominio ebraico in Russia sarà pure la fine della Russia come Stato” (2).
         Quest’idea covava nella mente di Hitler e il patto con Stalin non gliel’aveva fatta cambiare, rinviandone soltanto l’attuazione.
         Dopo la rapida sconfitta della Francia nel maggio-giugno del 1940, convinto che il potenziale militare sovietico fosse trascurabile e che l’Armata Rossa, sulla base della sua debolezza presunta da ogni parte in occidente, fosse al momento assolutamente incapace di sferrare una grande offensiva, Hitler decise d’invadere l’Unione Sovietica, i cui territori avrebbero servito anche da serbatoio inesauribile di materie prime per sostenere lo sforzo bellico contro le potenze marittime anglosassoni.
         Secondo Andreas Hillgruber, lo storico tedesco specialista di relazioni internazionali, a questo programma ideologico di Hitler ne corrispondeva per la verità uno, altrettanto lungimirante, maturato da Stalin anch’esso nella metà degli anni Venti, attuabile comunque solo in un quadro di conflitto tra gli Stati occidentali. Adesso l’attacco tedesco alla Polonia il 1 settembre 1939 – favorito dal precedente patto Ribbentrop-Molotov e seguito, il 17 settembre, dall’invasione sovietica della Polonia orientale – aveva provocato il 3 settembre l’entrata in guerra contro la Germania della Gran Bretagna e della Francia e realizzato le condizioni politiche da lui auspicate (3).
         Grazie al patto di non aggressione e al successivo trattato di “amicizia e frontiera” del 28 settembre, garante di un reciproco aiuto economico-industriale, e dell’assetto dei confini, Stalin aveva potuto annettere all’URSS la sua fetta di Polonia ottenendo basi militari nei Paesi baltici, e consolidando in tal modo una cintura strategica di sicurezza al confine centro-occidentale sovietico (4). Con gli accordi dell’agosto-settembre 1939, Lettonia, Estonia, Lituania e Finlandia rientravano nell’orbita russa. Il dittatore georgiano doveva, quindi, soltanto mantenersi in posizione equidistante d’attesa fino alla conclusione delle ostilità: allora avrebbe potuto senza grandi difficoltà impadronirsi dei territori europei ritenuti militarmente necessari, rafforzando al contempo il prestigio politico dell’Unione Sovietica.
         Nell’estate del 1940, mentre il Fuhrer era impegnato nella campagna d’occidente, Stalin cominciò ad approfittare delle preoccupazioni hitleriane per invadere gli Stati baltici e penetrare nei Balcani. In apparenza le relazioni fra i due dittatori erano amichevoli e il commissario sovietico per gli Esteri, come portavoce di Stalin, sfruttava ogni occasione per lodare e adulare i tedeschi dopo ogni loro atto di conquista. Quando il 9 aprile 1940 la Germania invase la Norvegia e la Danimarca, Molotov si affrettò a dichiarare all’ambasciatore a Mosca, Friedrich Werner von der Schulenburg, che il suo governo si rendeva conto delle misure che la Germania era stata costretta a prendere, augurandole un pieno successo. Allorché, un mese dopo, l’ambasciatore del Reich informò Molotov dell’attacco della Wehrmacht a ovest, spiegandogli che esso era imposto alla Germania da un’imminente offensiva anglo-francese verso la Ruhr attraverso il Belgio e l’Olanda, Stalin espresse il proprio compiacimento. Schulenburg telegrafò a Berlino che Molotov aveva accolto la notizia con spirito di comprensione perché si rendeva conto che la Germania doveva cautelarsi contro un attacco anglo-francese, e che non nutriva dubbi circa il successo tedesco.
         Quando il 17 giugno Parigi chiese l’armistizio, Molotov espresse a Schulenburg le più vive congratulazioni del suo governo per gli splendidi successi della Wehrmacht, informandolo al contempo dell’azione sovietica contro gli Stati baltici divenuta necessaria per mettere fine agli intrighi con cui l’Inghilterra e Francia avevano cercato di disseminare la discordia e la sfiducia fra la Germania e l’URSS per quanto riguardava quell’area. Proprio per eliminare tale “discordia” il governo di Mosca aveva inviato “speciali emissari” nei tre Paesi baltici che di lì a poco sarebbero stati invasi dall’Armata Rossa e assorbiti dall’Unione Sovietica. “In imprese del genere”, scrive il giornalista e storico statunitense William Shirer, “Stalin poteva essere brutale e spietato quanto Hitler, era anzi più cinico di lui…Adolf Hitler si sentì umiliato, ma tutte le sue energie erano rivolte a organizzare l’invasione dell’Inghilterra, e non poteva fare nulla. Le note di protesta contro l’aggressione russa trasmesse a Berlino dagli ambasciatori dei tre Stati baltici, furono respinte per ordine di Ribbentrop. A umiliare ancor più i tedeschi, Molotov in agosto li invitò bruscamente a “liquidare” entro due settimane le legazioni di Kaunas, Riga e Tallin e a chiudere, per il 1° settembre, i consolati nei Paesi baltici. I tre stati di cui si era così impossessato non calmarono l’appetito di Stalin. Il crollo sorprendentemente rapido degli eserciti anglo-francesi lo spronò a prendersi tutto quel che poteva finché le circostanze gli erano favorevoli. Ovviamente egli pensava che non v’era tempo da perdere” (5). Le pretese russe continuarono a manifestarsi con la convinzione che la Germania non avrebbe ostacolato, ma anzi sostenuto, l’azione di Stalin.
         E’ innegabile, come afferma lo storico tedesco Ernst Nolte nel suoNazionalsocialismo e bolscevismo, la violazione da parte dell’Unione Sovietica dello spirito e della lettera dei trattati in diverse circostanze. Aveva chiesto alla Romania la Bucovina; aveva costruito in Lituania non soltanto basi d’appoggio  ma concentrato un numero considerevole di divisioni. Era certo inconciliabile con il patto di amicizia il fatto che la Russia avesse appoggiato il colpo di Stato jugoslavo e concluso un accordo con il nuovo governo di Dusan Simovic (6). Nella legazione sovietica di Belgrado i tedeschi avevano trovato documenti che rivelavano in maniera molto chiara le intenzioni ostili nei confronti della Germania (7).
         Avendo intuito già dal 1940 i piani di Stalin, Hitler mosse guerra alla Russia temendo di dover sottostare, perdurando il conflitto, a una tattica di ricatto dal momento che proprio la copertura strategica sovietica, oltre all’aiuto economico accordato alla Germania, gli aveva consentito la vittoria sulla Polonia e il concentramento delle armate contro la Francia. Tale atto permise in seguito ai russi di mascherare le loro mire espansionistiche in Europa, presentandole come una giustificata reazione difensiva all’attacco nazista.
         Quest’ultimo si frappose al piano del dittatore sovietico – il quale aveva creato e rafforzato la “cintura di sicurezza”ottenuta con gli accordi con Hitler nell’Europa centro-orientale – di restare lontano, fino alla fase finale, della guerra “imperialistica” tra le potenze occidentali e la Germania e solo in seguito, correndo il minimo rischio possibile, di impadronirsi di quei territori che, considerando il prevedibile aumento di potenza degli Stati anglosassoni nell’Europa occidentale, gli sembravano necessari alla sicurezza strategica dell’URSS e al rafforzamento del suo peso politico. L’inizio dell’operazione Barbarossa costrinse la Russia all’abbandono della sua posizione d’attesa e alla lotta per la propria esistenza in un momento in cui Stalin non riteneva l’Armata Rossa, nonostante gli sforzi compiuti, ancora pronta per una guerra su vasta scala.
         “Nel 1940-41”, scrive Hillgruber, “si trovarono di fronte due ‘programmi’-obiettivi militari, ideologici e politici che si escludevano a vicenda non solo per questioni di principio ma anche a causa delle loro direzioni di spinta, che si incrociavano nell’Europa centro-orientale. Con ciò la realizzazione del ‘programma’ nazionalsocialista, che era stato promosso febbrilmente da Hitler e che doveva sfruttare l’effetto sorpresa e la maggior velocità possibile nello svolgimento delle singole tappe, si mosse cronologicamente prima della realizzazione, prevista nella politica d’attesa di Stalin tesa a evitare rischi solo per una data successiva, del ‘programma’ bolscevico, che perciò fu mascherato, in seguito modificato nei dettagli per adattarlo alla nuova situazione e in complesso presentato da parte sovietica come una semplice reazione all’attacco tedesco. Esso però, nel suo obiettivo principale, che era quello di allargare la sfera di influenza sovietica in Europa – dopo la sconfitta della Germania – in un confronto con le potenze marittime anglosassoni, era già stato fissato nell’autunno del 1940 e da allora in poi, fino alla fine della seconda guerra mondiale, rimase immutato di là di tutti i cambiamenti intervenuti nella tattica politica” (8).
         Sulla campagna di Russia nella cerchia del Fuhrer si manifestavano opinioni contrastanti; Ribbentrop era convinto che non ci fosse alternativa; il generale Walter von Brauchitsch, comandante in capo dell’esercito, non vi si opponeva; Alfred Jodl, capo dell’ufficio operazioni dell’OKW (OberKommando der Wehrmacht, il comando supremo delle forze armate tedesche), la riteneva inevitabile. Il feldmaresciallo Wilhelm Keitel, l’unico decisamente contrario, era stato messo a tacere, mentre Hermann Goring ed Erich Raeder, rispettivamente comandanti in capo dell’aviazione e della marina, avanzavano logiche obiezioni. Forse il più vicino alle posizioni di Hitler era il Reichsfuhrer Heinrich Himmler, come risulta da un discorso tenuto in novembre ai funzionari di partito: “Fino a questo momento, approfittando del patto (di amicizia russo-tedesca), l’Unione Sovietica a soggiogato interi Paese e nazioni, Finlandia esclusa, senza tirar fuori la spada dal fodero, e ha notevolmente allargato le sue frontiere occidentali e meridionali. Il suo appetito minacciava di crescere in modo abnorme, perciò abbiamo avvertito la necessità di meglio definire, entrambi, i nostri reciproci interessi. Nella sua molto ritardata visita a Berlino, Molotov ha ricevuto le necessarie indicazioni. Se ciò che ho udito è vero, a Stalin per il momento non è possibile cominciare una guerra perché le nostre armi gli infliggerebbero un severo castigo. Il nostro atteggiamento sarà efficace sia per i suoi(dell’Unione Sovietica) aggressivi progetti nei confronti della Finlandia, sia per qualsiasi progetto essa possa avere a sud o a sud-est. Le sarà possibile dare il via a delle operazioni militari soltanto con l’espresso consenso del Fuehrer. Per dare forza alla nostra volontà, abbiamo schierato tante truppe lungo la nostra frontiera orientale quante bastano perché lo zar rosso di Mosca ci prenda sul serio…Militarmente l’Unione Sovietica è innocua. Il suo corpo ufficiali è così scadente da non poter essere messo a confronto neppure con i nostri sottufficiali, e il suo esercito è tanto male equipaggiato quanto mal addestrato. Non possono essere pericolosi per noi” (9).
         Pochi giorni dopo questo discorso risultò chiaro che gli obiettivi sovietici erano inconciliabili con quelli di Hitler. Ribbentrop aveva sottoposto a Mosca una proposta di trattato ricalcante quelle già fatte verbalmente da Hitler a Molotov: l’espansione territoriale tedesca sarebbe avvenuta nell’Africa centrale, quella dell’Italia nell’Africa settentrionale, quella del Giappone in Estremo Oriente e quella dell’Unione Sovietica in direzione dell’Oceano Indiano. Il 25 novembre il ministro degli Esteri di Stalin presentò quattro condizioni che, se accettate da Berlino, avrebbero consentito all’URSS di firmare. Le prime due, è cioè la richiesta che Hitler evacuasse dalla Finlandia le truppe mandate nell’agosto del 1940 e che la Bulgaria concludesse un patto con l’Unione Sovietica garantendole basi militari in vicinanza del Bosforo, erano inaccettabili per il Fuhrer, che infatti ordinò a Ribbentrop di non dare alcuna risposta.
         Quella, negativa, di Molotov alle proposte di Hitler giunse a fine novembre e dissolse qualsiasi dubbio del dittatore tedesco circa l’attacco alla Russia. Allora egli “formulò la decisione che corrispondeva all’essenza della sua personalità, alla sua idea di fondo con tanta impazienza perseguita, nonché alla sopravvalutazione delle proprie forze, di cui era preda all’epoca: dare il via il più presto possibile alla guerra contro l’Unione Sovietica” (10). In questa decisione ebbero un ruolo determinante la rielezione di Franklin Delano Roosevelt a presidente degli Stati Uniti e il recente colloquio con Molotov; il giorno dopo la sua partenza Hitler dichiarò che quello con l’URSS non sarebbe stato nemmeno un matrimonio d’interesse, ordinando al contempo di individuare, in Oriente, un luogo adatto per installarvi suo quartier generale e costruire al più presto tre basi operative, al centro, al nord e al sud.
         Il 3 dicembre, in occasione di un’altra breve visita al generale Fedor von Bock – già comandante del gruppo d’armate nord nella campagna di Polonia e del gruppo d’armate B in quella di Francia, nonché futuro comandante del gruppo d’armate di centro nell’operazione Barbarossa – Hitler dichiarò che il “problema orientale” stava ormai arrivando a un punto critico e questo rendeva più probabile un’alleanza anglo-russa:“Se i sovietici saranno eliminati, la Gran Bretagna non avrà alcuna speranzadi sconfiggerci in Europa” (11). Due giorni più tardi Hitler annunciò a Brauchitsch che l’egemonia in Europa sarebbe stata decisa dalla lotta contro l’Unione Sovietica. “In tre settimane saremo a Leningrado!” lo sentì dire Rudolf Schmundt, il suo aiutante in campo per la Wehrmacht. (12). La tabella di marcia strategica del Fuhrer strava quindi prendendo forma in un clima di ottimismo eccessivo e non sempre fondato, anche perché dell’Armata Rossa si sapeva ben poco – un’accurata indagine negli archivi della Francia, Paese alleato dell’URSS, non aveva rivelato niente – ma Hitler era convinto della propria superiorità in mezzi militari (soprattutto carri armati): “Il sovietico in se stesso è inferiore. Il suo esercito non ha dei capi…Una volta che l’esercito sovietico sarà stato battuto. Il collasso dell’intera Unione Sovietica seguirà in modo inevitabile” (13).
         Il 18 dicembre Jodl portò a Hitler la stesura finale della direttiva per la campagna di Russia, adesso ribattezzata Barbarossa (14), in cui si ordinava alla Wehrmacht di tenersi pronta a schiacciare l’Unione Sovietica con un rapido attacco da scatenare prima della fine della guerra contro la Gran Bretagna: la sconfitta dell’URSS avrebbe costretto gli inglesi a sottomettersi: “Si arrenderanno solo quando avremo distrutto questa loro ultima speranza in Europa”. Il popolo britannico non era pazzo, disse Hitler: certo capiva che se avesse perso quella guerra non avrebbe più avuto il prestigio necessario per tenere insieme il suo impero. “D’altro canto, se riescono a cavarsela e a mettere insieme quaranta o cinquanta divisioni, e se gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica li aiuteranno, la Germania verrà a trovarsi in una precaria situazione…E’ per questo che l’Unione Sovietica deve essere sconfitta subito. E’ vero, le forze armate sovietiche sono un colosso d’argilla senza testa, ma chi può sapere come si svilupperanno in futuro? (15)
         La vittoria sui russi doveva essere rapida e definitiva: per nessun motivo essi dovevano avere la possibilità di riprendersi dopo il primo, violento attacco.
         A quanto riferisce il generale Franz Halder, capo di stato maggiore dell’esercito tedesco, già alcuni mesi prima, mentre si stava allontanando la prospettiva di invadere l’Inghilterra, nel corso di una conferenza tenutasi l’ultimo giorno di luglio del 1940 al Berghof, sulle Alpi bavaresi, Hitler, adesso definitivamente deciso ad attaccare l’Unione Sovietica nella successiva primavera, aveva dichiarato: “L’Inghilterra ripone le sue speranze nella Russia e nell’America. Se le sue speranze nella Russia svaniranno, cadranno anche quelle nell’America, perché l’eliminazione della Russia accrescerà enormemente la potenza del Giappone in Estremo Oriente”.
         Il Fuhrer si dichiarava convinto che l’ostinazione degli inglesi a continuare la guerra si doveva al fatto che la Gran Bretagna contava sull’Unione Sovietica: “In Inghilterra erano già completamente a terra. Ora si sono rimessi in piedi. Sono state intercettate delle conversazioni. La Russia è inquieta e scontenta a causa dei rapidi sviluppi (delle nostre operazioni) nell’Europa occidentale. Basta che la Russia faccia comprendere all’Inghilterra che essa non desidera una Germania troppo potente, e gli inglesi – così come chi sta per annegare si afferra a tutto – spereranno di nuovo che fra sei o otto mesi la situazione cambierà completamente. Ma se la Russia verrà schiacciata, l’ultima speranza dell’Inghilterra svanirà. Allora la Germania sarà la padrona dell’Europa e dei Balcani. Decisione: in base a queste considerazioni, bisogna liquidare la Russia. Primavera 1941. Quanto prima la Russia sarà schiacciata, tanto meglio” (16).
         La strategia hitleriana si basava sul presupposto che l’URSS sarebbe stata annientata in un blitzkrieg di pochi mesi. Ma l’8 febbraio, nel momento in cui la prima ondata di divisioni si stava lentamente muovendo verso la frontiera con l’Unione Sovietica: la seconda avrebbe cominciato a muoversi a metà marzo, la terza in aprile – Keitel fu informato dai suoi collaboratori che, mentre la Luftwaffe e la Kriegsmarine avrebbero avuto riserve di carburante sufficienti sino all’autunno, le scorte di benzina e nafta per i carri armati e per i veicoli da trasporto della Wehrmacht non sarebbero durate oltre la metà di agosto, a meno che si fossero raggiunti in tempo i campi petroliferi del Caucaso. Anche riguardo la gomma c’era poco da stare tranquilli perché molte forniture erano giunte in Germania dall’Estremo Oriente attraverso la Transiberiana, ma la guerra con la Russia, tagliando quel collegamento, avrebbe lasciato disponibili solo le limitate e insicure quantità trasportate dalle navi che forzano il blocco inglese.
         Se conoscevano i loro limiti e le loro possibilità i tedeschi non erano molto informati dai propri servizi segreti (poco coinvolti più che inefficienti) sulle potenzialità del nemico: l’industria aeronautica sovietica era qualcosa di sconosciuto, anche se alcune indicazioni recenti dicevano che si stava espandendo con una rapidità sconcertante. Goring, per esempio, temeva che l’aviazione sovietica potesse dimostrarsi ben più forte di quanto risultava dai dati dei servizi segreti. Il 3 febbraio Franz Halder, capo di stato maggiore dell’esercito, avrebbe ottimisticamente informato Hitler che la superiorità numerica dell’Armata Rossa era molto limitata (155 divisioni), ma all’inizio di aprile tale cifra sarebbe salita a 247 divisioni, e quattro mesi dopo – troppo tardi per fare marcia indietro – sarebbe risultato che le divisioni di Stalin impegnate erano 360.

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