martedì 28 aprile 2015

28 aprile 1945: ASSASSINARONO BENITO MUSSOLINI


Il 28 aprile 1945, tra le 9 e le 10 del mattino, contrariamente a quanto asserisce una falsa "vulgata" storica, a cui oramai non crede più nessuno, Benito Mussolini, dopo essere stato ferito con un colpo di pistola al fianco, nella stanza dove, inerme prigioniero, era rinchiuso, venne trascinato in canottiera mezze maniche nel cortile della casa dei contadini De Maria in quel di Bonzanigo (Tremezzina), ed ivi ammazzato come un cane con circa altri otto colpi di armi da fuoco.
Si compiva così l'invito di quei giorni di Sandro Pertini di «ammazzarlo come un cane tignoso». Il "compagno socialista" Pertini: ne riparleremo.

L'assassinio
Su questa sporca vicenda dell'assassinio di Mussolini, rimandiamo a tanti nostri articoli pubblicati su "Rinascita" ed esposti anche nel relativo Sito del giornale, ma anche in quello della FNCRSI (http://fncrsi.altervista.org/, sezione Notiziario) o meglio ancora in una nostra lunga intervista sul mistero della morte di Mussolini, concessa al "Corriere dei Caraibi": (http://www.corrierecaraibi.com/FIRME_MBarozzi_120611_Mistero-della-morte-di-Mussolini.htm). Anche la rivista Storia in Rete, uscirà in edicola, tra qualche giorno, con un ottimo "speciale" sulle ultime ore di Mussolini-
Qui possiamo solo dare un cenno, indicando che la verità più credibile sulla morte di Mussolini risulta dalla testimonianza della signora Dorina Mazzola, al tempo abitante a meno di 150 metri da quella casa, una testimonianza che, a differenza di tante altre versioni, strampalate e indimostrate, trova molti riscontri in alcuni rilievi di ordine tanatologico, balistico e del vestiario indosso al cadavere, nonchè è indirettamente confermata dall'incrocio di varie testimonianze tra cui un racconto di Savina Santi, la vedova di Guglielmo Cantoni (Sandrino), uno dei due partigiani che erano stati di guardia a Mussolini e la Petacci nascosti in quella casa.
Disse la signora Santi, a Giorgio Pisanò, che il marito gli aveva riferito:
«Mussolini e la Petacci non sono stati uccisi nel pomeriggio e davanti al cancello di Villa Belmonte. Mio marito mi disse che quella mattina lui si trovava di guardia alla stanza dove c'erano i prigionieri, quando vide salire le scale Michele Moretti e altri due partigiani che non aveva mai visto nè conosciuto. I tre gli ordinarono di restare sul pianerottolo fuori della stanza ed entrarono nel locale. Mio marito, restando sul pianerottolo, udì uno dei tre che diceva: "adesso vi portiamo a Dongo per fucilarvi", e un altro gridare: "No, vi uccidiamo qui!". Poi mio marito udì altre voci concitate, le urla della donna e colpi d'arma da fuoco..., ma non so dove li hanno uccisi con certezza...».
(Cfr.: G. Pisanò: "Gli ultimi cinque secondi di Mussolini", il Saggiatore 1996).
Oggi, con le strumentazioni moderne abbiamo avuto la certezza, analizzando la foto del cadavere in terra a Piazzale Loreto, che quel giaccone o pastrano indosso al cadavere del Duce è totalmente privo di fori o strappi che invece avrebbero dovuto esserci se fosse stato attinto da colpi di arma da fuoco. Ergo, Mussolini venne ucciso con altro abbigliamento, in altro orario e luogo e quindi buttato cadavere ai piedi del cancello di Villa Belmonte a Giulino di Mezzegra. Una prova oggettiva e irrefutabile.
Nel momento di essere ucciso l'ex Duce probabilmente gridò in faccia ai suoi assassini «Viva l'Italia» come fu, con doloroso e reticente parto, riferito nell'ottobre del 1990 dopo 45 anni di omertà e menzogne, da quel Michele Moretti (Pietro) il partigiano comunista presente ai fatti (Cfr.: Giorgio Cavalleri: "Ombre sul lago" Ed. Piemme 1995).
Il Moretti, pur ribadendo la solita versione comunista di Walter Audisio (la "vulgata" come la definì Renzo De Felice) oramai pienamente sconfessata, così riferì al giornalista, scrittore e amico Cavalleri, quei momenti:
«...Mussolini non apparve troppo sorpreso e, quando ebbe l'arma puntata contro di sé, gridò con foga: "Viva l'Italia!"».
E a domanda del giornalista aggiunse: «Mi ha disturbato il "Viva l'Italia!" del duce?
No, Perchè, si riferiva alla sua Italia, non alla mia...».
E quel grido si accorda con tutta la vita umana e politica di Mussolini, un rivoluzionario, un politico, un giornalista ed uno statista, che aveva speso tutta la sua gestione del potere ai fini della grandezza dell'Italia, senza perdere mai di vista, inoltre, il popolo e il suo intento di affermare una società socialista che infine riuscì a realizzare con la RSI, quando tre malefiche forze (Confindustria, Casa Savoia e Vaticano), espressione di immondi interessi, si trovarono, dopo l'8 settembre 1943, per la prima volta nella storia del nostro paese, fuori gioco e non poterono interferire.


Nell'interesse del popolo italiano
Si possono elevare ogni genere di accuse, si può non condividere il suo operato di governo, si può dire che la sua fu una politica errata e deleteria, ma si deve ammettere che Mussolini indirizzò ogni sforzo a fare dell'Italia una piccola, ma importante potenza in Europa, avendo sempre in primo piano il benessere del popolo.
Non è esagerato affermare (basterebbe guardare i filmati Luce dell'epoca, sulle grandi opere allora in essere, un compendio di capolavori che per numero, velocità di esecuzione e qualità superarono ogni precedente storico) che senza il ventennio di Mussolini, l'Italia sarebbe probabilmente rimasta come uno di quei paesi estremamente arretrati del sud Europa e dei Balcani.
E basterebbe dare una sbirciatina alle riforme sociali, di cui la più rivoluzionaria di tutte, quella sulla socializzazione delle aziende, emessa in piene vicende belliche, per rendersi conto che dal 1922 al 1945 agì nel nostro paese una volontà riformatrice e rivoluzionaria, a volte palese, a volte nascosta, a volte annacquata e distorta, spesso contraddittoria, ma sempre presente, nel pensiero, nella prassi e negli atti di governo di Mussolini.
Una volontà che venne stroncata con la guerra dalla criminale aggressione all'Europa da parte delle democrazie plutocratiche.
È indubbio che l'azione di governo di Mussolini è stata quella di un dirigismo statale (così come normalmente dovrebbe essere) per il quale vige l'assunto che nello Stato e per gli interessi dello Stato devono prevalere gli aspetti etici e politici su quelli economici e finanziari. Un principio ed una costante questa che la massoneria non gli perdonò mai e gli costò nel 1924 la vendetta delle cosche massoniche e di un "putrido ambiente politico-affaristico di capitalismo e finanza corrotta" (così come ebbe a definirlo lo stesso Mussolini), che per defenestrarlo gli gettarono ai piedi il cadavere di Matteotti e venti anni dopo lo portò dritto a Piazzale Loreto.


La geopolitica di Mussolini
Le contraddizioni apparenti, i tentennamenti e i sotterfugi che si riscontrano nei suoi rapporti internazionali, derivano semplicemente dal fatto che Mussolini era ben coscio che lo sviluppo, la grandezza e l'indipendenza della Nazione, purtroppo una nazione estremamente povera di materie prime ed economicamente e militarmente debole, potevano essere garantite solo a patto che in Europa, una delle due grandi forze antagoniste, quella della Gran Bretagna e quella della Germania, non prevalesse definitivamente sull'altra e quindi non dominasse il continente e neppure che si accordassero tra loro. Destreggiarsi in questo contesto, essendo al contempo consci che il vero nemico del fascismo e dell'Italia era la grande plutocrazia internazionale e la geopolitica britannica nel Mediterraneo, non era certo facile.
Gli inglesi, soprattutto, dopo l'apertura del canale di Suez a metà '800, e le successive necessità di controllare le rotte del petrolio, puntarono forte sul controllo del nostro paese, una portaerei naturale nel Mediterraneo, un grande mare che consideravano come un loro lago privato. Fu questo, per esempio, il principale motivo per il quale i britannici, attraverso la Massoneria e Casa Savoia, decisero di sostenere il Risorgimento.
La geopolitica di Mussolini quindi, da Locarno, a Stresa, a Monaco e fin nella "non belligeranza", nonchè nella conduzione di una "guerra parallela" con la Germania, fu sempre incentrata su questi presupposti.
Era una geopolitica sostanzialmente antibritannica, per il fatto che gli inglesi avevano i loro interessi in contrasto con i nostri nel Mediterraneo ed in Africa, e se ricostruita a posteriori e in più ampia prospettiva, possiamo dire che era una geopolitica Euro Asiatica, diversa da quella di Hilter, che era Euro Atlantica.
Ma questa geopolitica, allo stesso tempo peninsulare e insulare, doveva anche fare i conti con i tedeschi nel continente i quali, dopo il 1938 erano praticamente arrivati al Brennero.
Ed è così che, nel contingente, si ebbero non pochi nostri atteggiamenti ambigui, come ad esempio la febbrile costruzione del Vallo Littorio nel Nord Est di chiara intonazione antitedesca, ed una politica che nel mentre esaltava l'Asse Roma-Berlino, per altri versi si sottraeva a impegni più vincolanti con la Germania.
Il fatto è che le leggi della geopolitica non sempre seguono le ideologie e gli ideali di partito, come del resto avveniva nella prassi politica e militare di Hitler, dove il nazionalsocialismo era inteso soprattutto conforme agli interessi della Germania e del popolo tedesco. Non poche infatti sono le affermazioni importanti di Hitler ed altri esponenti tedeschi che indicavano chiaramente che il loro interesse primario era un grande accordo con i Britannici, che di fatto sarebbe andato contro i nostri interessi.
Oggi, a posteriori, gli intellettuali possono anche considerare quegli eventi da un punto di vista superiore, comprendendoli in un quadro ideologico nel quale troviamo analogie tra il fascismo e il nazionalsocialismo, anzi anche in un quadro metastorico dove troviamo la presenza nelle due ideologie e nella stessa guerra del sangue contro l'oro da esse intrapresa, un aspetto ricorrente della "Tradizione", ma la politica contingente, internazionale è tutta altra cosa.
Insomma l'operato di Mussolini fu sempre ed esclusivamente dettato dalla massima degli antichi romani per la quale: "la salvezza della Patria è la legge suprema".

Mussolini rivoluzionario
Come detto Mussolini fu certamente un "rivoluzionario" ed in effetti egli giunse ad una determinata ed originale visione dello Stato, della politica e della società attraverso le sue passate esperienze umane e politiche che lo portarono a superare il socialismo marxista internazionalista nel più naturale e praticabile "socialismo da realizzare nella nazione", non disgiunto dai valori del combattentismo interventista (aristocrazia delle trincee) e quindi arrivò, attraverso un costante e spregiudicato pragmatismo e il sincretismo di tanti altri valori, al fascismo.
Osservando oggi il nulla, rappresentato da tutto l'antifascismo, comunismo compreso, imploso e dissoltosi miseramente, un antifascismo come fallimento degli immortali principi, che oramai vive solo di "antifascismo viscerale", si riscontra come il fascismo aveva surclassato questo antifascismo in tutti i campi, compreso quello del consenso di massa e della giustizia sociale.
Da rivoluzionario Mussolini seppe controllare vittoriosamente il processo politico e insurrezionale che dalla costituzione dei Fasci di Combattimento nel 1919, lo portò al potere. Giocoforza dovette passare da un programma iniziale di chiara prospettiva di sinistra, che però risultò perdente alle elezioni del 1919, ad un graduale allineamento su posizioni idealistiche di carattere anche conservatore. Era quella una strada obbligata, visto che il fascismo cresceva anche negli scontri di piazza contro i "rossi" e il loro violento e velleitario tentativo di ripetere in Italia la rivoluzione bolscevica. Queste tensioni avvicinavano inevitabilmente al fascismo molte componenti delle classe medie e giovani idealisti.
Salito al potere dopo la marcia su Roma si rese però conto che poteva restare prigioniero delle forze reazionarie che lo avevano aiutato nell'ascesa. Il suo desiderio era quello di formare un governo socialmente avanzato, aperto ai popolari (con il Vaticano che gli aveva tolto di mezzo il pretaccio antifascista Don Sturzo), ai socialisti moderati, e all'ala moderata della CGL nella quale contava vecchi amici.
Disse, più o meno, al socialista Carlo Silvestri, che bisognava sbrigarsi ad ottenere l'accordo con i socialisti e i Confederati, perché altrimenti non avrebbe più potuto controllare le frange reazionarie del partito, i Ras e lo squadrismo, in particolare quello Toscano, armato e legato agli agrari. Gli disse anche che se non fosse riuscito a domare il fascismo, avrebbe preferito strozzare la sua creatura con le sue stesse mani.
Nel 1922 non riuscì in questo intento, poi dopo aver penato per ottenere un patto di pacificazione che mettesse fine alle violenze e al sangue della guerra civile, ci riprovò nel 1924. E questa volta il suo intento di una "apertura a sinistra" lo stroncarono definitivamente, buttandogli tra i piedi il cadavere di Matteotti.
Quello di Matteotti fu un delitto massonico affaristico (tutti quelli che vi risultavano implicati, anche se fascisti, avevano la tessera della massoneria), sostanzialmente contro Mussolini, come hanno sempre riconosciuto i figli del parlamentare socialista assassinato, che doveva adempiere a tre scopi:
1. Impedire a Matteotti di produrre documentazioni su grossi scandali, in particolare quello sul petrolio che chiamava in causa anche il Re Vittorio Emanuele III.
2. Stroncare definitivamente ogni tentativo di Mussolini di aprire ai socialisti e quindi
3.liquidarlo da Capo del governo, non più tollerato per il suo dirigismo politico che intralciava i traffici massonico - affaristici (Banca Commerciale compresa).
Non possiamo qui riassumere la vicenda Matteotti e quindi rimandiamo a un nostro articolo: (M. Barozzi: Il delitto Matteotti) pubblicato su "Rinascita", nel sito del "Correre dei Caraibi" e in quello della "FNCRSI"
Per le conseguenze del delitto Matteotti, Mussolini suo malgrado fu costretto a scivolare nella dittatura.
Fu un guaio perché i dittatori devono saper spargere il sangue e Mussolini ne era incapace. Ed infatti da allora cercò di governare essenzialmente con l'uso della sua arte politica, attraverso accordi, ammiccamenti, ricatti, pressioni, che gli garantirono un certo consenso, ma che poi, alla prova della guerra, si squagliarono come neve al sole.
Purtroppo dovette fare i conti con il materiale umano che questo paese gli metteva a disposizione e spesso a chi gli rimproverava la mancanza di un più energico intervento rivoluzionario, una cosiddetta "seconda ondata", rispondeva che «con il fango non si fanno le rivoluzioni», ma non usava la parola fango.
Il ventennio fascista, che oltretutto era una diarchia con la Monarchia, costrinse Mussolini a privilegiare ogni necessario programma per la crescita della nazione, sacrificando altri aspetti ideali. Il ventennio quindi fu un periodo dove la nazione venne inquadrata su posizioni conservatrici, di ordine e disciplina.
Ma c'è da dire che Mussolini volle e riuscì nonostante questi aspetti di "destra", per lui innaturali, a varare Leggi sociali e provvedimenti all'avanguardia per l'epoca e di enorme portata sociale che uniti alle Grandi Opere pubbliche, ne beneficiarono il popolo e le classi lavoratrici.
La vera svolta rivoluzionaria e socialista, il compimento anche ideologico del fascismo, avrebbe dovuto attendere, ma non mancò di arrivare, anche se in piena guerra, con la Repubblica Sociale Italiana.

La guerra
Subito una premessa: quando si parla di Seconda guerra mondiale, bisogna sempre tenere presente che venne preparata, perfidamente innescata e scatenata dalle grandi democrazie occidentali, ovvero dall'Alta Finanza internazionale dietro un preciso progetto di dominio mondiale, un progetto che, inceppatosi dopo la prima guerra mondiale, passava preliminarmente, sulla liquidazione dei fascismi in Europa.
In ogni caso se c'è un uomo a cui tutto può addebitarsi, tranne che la responsabilità della guerra, questi è Mussolini che fu letteralmente costretto ad entrare in un conflitto che non voleva, che paventava e che aveva fatto di tutto pe evitare. Non perché avverso alla guerra in sé, sapeva bene Mussolini come la guerra è spesso necessaria, ma perché era perfettamente conscio che l'Italia non era in grado di parteciparvi.
A malincuore, a guerra oramai accesa, aveva dovuto optare per la umiliante formula della "non belligeranza", posizione fruttifera in termini di guadagni senza rischi, ma pericolosa in quel contesto storico. Ma non c'era altro da fare.
Quando però a maggio del 1940 la Francia cadde così precipitosamente e la guerra sembrava possibile che si chiudesse con la vittoria della Germania, Mussolini, con i tedeschi oramai arrivati al Tirreno e in prospettiva di una definizione della guerra tra la Germania vittoriosa e l'Inghilterra, la cui definizione ci avrebbe tagliato fuori dai nostri interessi mediterranei, nei Balcani e in Africa, dovette giocoforza scendere in campo.
Così Mussolini aveva riassunto la nostra situazione a Giuseppe Bottai:
«Qui ci sono due imperi in lotta, due leoni. Non abbiamo interesse che stravinca nessuno dei due. Se vincesse l'Inghilterra, non ci lascerebbe che il mare per fare i bagni. Se vincesse la Germania, ne sentiremmo il peso. Si può desiderare che i due leoni si sbranino, fino a lasciare a terra le code, e caso mai, andare a raccoglierle».
Dopo il vertice al Brennero con Hitler, di metà marzo 1940, quando la guerra ancora non aveva investito lo scacchiere occidentale, Mussolini con un riservato "Memoriale panoramico al Re" del 31 marzo 1940, analizzo lucidamente la situazione:
«Se si avverrà la più improbabile delle eventualità, cioè una pace negoziata nei prossimi mesi, l'Italia potrà, malgrado la sua non belligeranza, avere voce in capitolo e non essere esclusa dalle negoziazioni: ma se la guerra continua credere che l'Italia possa rimanere estranea fino alla fine. È assurdo e impossibile. L'Italia non è accantonata in un angolo di Europa come la Spagna, non è semiasiatica come la Russia, non è lontana dai teatri di operazione come il Giappone o gli Stati Uniti; l'Italia è in mezzo ai belligeranti, tanto in terra, quanto in mare. Anche se l'Italia cambiasse atteggiamento e passasse armi e bagagli ai franco-inglesi, essa non eviterebbe la guerra immediata con la Germania, guerra che l'Italia dovrebbe sostenere da sola. È solo l'alleanza con la Germania, cioè con uno Stato che non ha ancora bisogno del nostro concorso militare e si contenta dei nostri aiuti economici e della nostra solidarietà morale, che ci permette il nostro attuale stato di non belligeranza... L'Italia non può rimanere neutrale per tutta la guerra, senza dimissionare dal suo ruolo, senza squalificarsi, senza ridursi al livello di un Svizzera moltiplicata per dieci. Il problema non è quindi sapere se l'Italia entrerà in guerra o non entrerà in guerra, perché l'Italia non potrà fare a meno di entrare in guerra. Si tratta soltanto di sapere quando e come: si tratta di ritardare il più a lungo possibile, compatibilmente con l'onore e la dignità, la nostra entrata in guerra: a) per prepararci in modo tale che il nostro intervento determini la decisione; b) perché l'Italia non può fare una guerra lunga, non può cioè spendere centinaia di miliardi, come sono costretti a fare i paesi attualmente belligeranti».
Quindi Mussolini affermava che, escluso un nostro voltafaccia dell'alleanza con i tedeschi, non ci rimaneva che la possibilità di una "guerra parallela" con la Germania ed in funzione dei nostri interessi che si potevano riassumere in questi obiettivi:
«Libertà sui mari, finestra sull'oceano, L'Italia non sarà mai una nazione indipendente sino a quando avrà a sbarre della sua prigione mediterranea la Corsica, Biserta, Malta e, a mura della stessa prigione, Gibilterra e Suez. Risolto il problema della frontiere terrestri, se l'Italia vuole essere una Potenza veramente mondiale deve risolvere il problema delle sue frontiere marittime: la stessa sicurezza dell'Impero è legata alla soluzione di questo problema».
Il 29 maggio 1940, all'indomani della resa del Belgio e con i franco-inglesi in totale rotta, Mussolini ottenne su delega del Re il comando delle forze armate. Si investiva quindi di un comando più che altro "formale", di grande prestigio se le cose fossero andate bene, ma la conduzione strategica ed operativa della guerra, con tutte le sue deficienze (e tradimenti) era di fatto nelle mani di Pietro Badoglio Capo di Stato Maggiore Generale, essere spregevole, avido e legato alla massoneria.
Molti si sono chiesti come abbia potuto Mussolini puntare su Badoglio di cui pur conosceva i suoi intrallazzi e le sue responsabilità ai tempi di Caporetto.
La risposta non è difficile, conoscendo Mussolini. Intanto il Duce non era un esperto di armamenti e di strategie militari, difetto questo, come disse una volta Hitler, che consentiva ai suoi generali di ingannarlo facilmente. Quindi Mussolini partì dalla valutazione errata che in quel poco di buona che passava il materiale umano delle nostre FF.AA., Badoglio, che invece era un incapace, gli potesse mettere in piedi un esercito moderno. Si sbagliava. Conosceva Badoglio e sapendo quanto era avido lo lasciò "ingozzarsi" oltre ogni limite, ritenendo in questo modo di averlo disponibile. Non tenne però conto che Badoglio era intimamente antifascista, era sotto botta massonica e quindi si ritrovò una serpe incontrollabile in seno.
Il 29 maggio 1940 a Badoglio e agli altri generali responsabili delle imminenti operazioni belliche (capi di stato Maggiore della Marina Domenico Cavagnari, dell'Aeronautica Francesco Pricolo e dell'Esercito Rodolfo Graziani), Mussolini disse che inizialmente aveva previsto l'ingresso in campo dell'Italia all'incirca per la primavera del 1941, ma poi l'incalzare delle vicende belliche aveva travolto ogni previsione. Infatti i tedeschi avevano in poco tempo vinto in Norvegia e Danimarca (aprile 1940) e Mussolini fu costretto ad anticipare il progettato intervento per il settembre di quello stesso anno, ma adesso:
«La situazione attuale non permette ulteriori indugi, perché altrimenti noi corriamo dei pericoli maggiori di quelli che avrebbero potuto essere provocati con un intervento prematuro... D'altra parte se tardassimo due settimane o un mese, non miglioreremmo la nostra situazione, mentre potremmo dare alla Germania l'impressione di arrivare a cose fatte, quando il rischio è minimo...».
Era questa la famosa riunione, tenuta nella stanza del Duce, in cui si decise ufficialmente la nostra entrata in guerra. Il resoconto stenografico ci informa anche che non ci furono assolutamente obiezioni di sorta da parte dei generali presenti!
Chi, ancora oggi, di fronte all'evidenza dei fatti, accusa Mussolini di megalomania e avventatezza, dovrebbe invece riflettere che le decisioni di Mussolini furono tutte ponderate, soppesate e impostate sull'eccesso di prudenza, addirittura a scapito della stessa opinione pubblica della nazione, nella quale, come rivelò un rapporto riservato dell'OVRA, nella primavera del 1940, "opinione pubblica e classi dirigenti, comprese quelle tendenzialmente anglofile, di fronte ai successi tedeschi, avevano tutti il timore di "arrivare tardi", a cose fatte, di perdere prestigio e posizioni" (e ovviamente affari e interessi).
Anche Vittorio Emanuele III confidava al suo aiutante di campo, generale Puntoni, che «Il più delle volte gli assenti hanno torto» e non lesinava neppure qualche battuta sul troppo esitanteMussolini.
Solo Mussolini, invece, di fronte ai fenomenali successi dei tedeschi e nonostante l'intensificarsi delle provocazioni britanniche ai nostri danni (soprattutto il gravissimo fermo delle navi carbonifere), pur con la pressione "guerrafondaia" montante nel paese, cercava di rimanere il più razionale possibile.
Eppure a causa del blocco navale inglese il presidente della Montecatini Guido Donegani era corso a Roma a sottolineare come la sospensione dei rifornimenti di carbone stava per causare l'arresto dell'industria determinando la catastrofe nella produzione e serie conseguenze sociali.
«Tra poco i cannoni spareranno da soli» inveì Mussolini, ed aggiunse costernato: «non è possibile che io, proprio io, sia diventato il ludibrio dell'Europa. Non faccio che subire umiliazioni».
Quando poi i travolgenti successi tedeschi stavano ubriacando tutti gli italiani e la Germania ci era anche venuta incontro sopperendo alla carenza delle forniture di carbone provocata dal blocco inglese, il Duce così, significativamente, confidò a suo figlio Vittorio:
«Adesso tutti desiderano sparare il primo colpo di fucile. Il Re, lo Stato Maggiore, i gerarchi. Per quanto paradossale sembri, l'unico pacifista sono rimasto io, io solo!».
Il 30 maggio, infine, Mussolini comunicava a Hitler la decisione di entrare in guerra indicando il giorno 5 giungo 1940 che fu poi, per richiesta tedesca, spostato al 10.
Se quindi appunto può essere fatto a Mussolini è una critica opposta, cioè quella di non aver operato con ferma decisione, con un repulisti di potenziali traditori, di non aver rinunciato ad ogni pur guardinga riserva verso i tedeschi e scatenare immediatamente le nostre poche forze per il colpo risolutivo della guerra. Ed invece tutte le contraddizioni, tutti i pesi, tutti i traditori che si portò dietro ritenendo di domarli o controllarli, a cominciare da Badoglio e di cui, pur non stimandoli, non arrivava mai a pensare che potessero tradire la Patria, gli precipitarono addosso il 25 luglio 1943 e gettarono le premesse per il tradimento totale della Patria l'8 settembre.
Ma chiediamoci: gli era possibile a Mussolini procedere risolutamente in questo senso essendo a capo di una nazione "riottosa" a certe scelte impegnative anche perché, erede del Risorgimento massonico, un paese che contava una industria, una finanza e buona parte di una cultura (tranne quella cattolica, per altro avversa in altro senso) in sintonia con gli anglo francesi e si aggiungano poi gli interessi non certo "italiani" di Casa Savoia e del Vaticano?
Purtroppo le conseguenze di questa complessa e precaria situazione si palesarono quasi subito, già dall'autunno del 1940, a pochi mesi dal nostro intervento, quando Mussolini, dopo i primi rovesci dell'esercito italiano, si trovò praticamente solo, a difendere gli interessi della nazione.
Basta leggere quanto poi egli ebbe a dire ad Hitler nel corso di un loro incontro presso la "Tana del Lupo", nell'agosto del 1941 nel pieno dell'offensiva contro la Russia.
In quell'occasione il Duce confidò al Führer che ne rimase sconvolto:
 «Mi dica cosa farebbe lei se avesse degli ufficiali che hanno dei dubbi sul regime e sulle sue ideologie... e che dicono, mentre lei parla della sua ideologia o della ragion di Stato, che loro sono monarchici e che devono lealtà solo al Re?».

Il capolavoro della RSI
Nel 1943, dopo lo sfacelo e l'ignominia dell'8 settembre, Mussolini sacrificò letteralmente la sua persona al fine di evitare che la vendetta tedesca sul nostro paese non assumesse le proporzioni che era facile prevedere, ma non fu solo questo il motivo della sua ultima discesa in campo: egli infatti, come accennato, volle realizzare la Repubblica Sociale Italiana con i suoi 18 punti del manifesto di Verona, che rappresentò, oltre che un grande evento rivoluzionario e sociale, anche una rottura totale e definitiva con quella caricatura di fascismo che fu il ventennio il cui spirito conservatore poi, purtroppo, nel dopoguerra si rincarnò nello pseudo neofascismo del MSI.
Per avere una idea della portata rivoluzionaria e socialista della RSI, alla quale partecipò non a caso Nicola Bombacci, già comunista, basti pensare che vennero socializzate le Imprese, facendo entrare il lavoro nella gestione delle Aziende e nella ripartizione degli utili, riformato il mercato immobiliare, con il fine di dare le case al popolo, quello dei settori alimentari e del vestiario, nei generi di prima necessità, al fine di sottrarli alle speculazioni del privato, venne commissariata la Banca d'Italia, si studiò una riforma del mercato borsistico, ed altro ancora.
Il 15 marzo 1945 in piazza De Ferrari a Genova, davanti a trentamila lavoratori, Nicola Bombacci illustrava la edificazione di una società socialista da parte di Mussolini, disse:
«Compagni! Guardatemi in faccia, compagni! Voi ora vi chiederete se io sia lo stesso agitatore socialista, il fondatore del Partito comunista, l'amico di Lenin che sono stato un tempo. Sissignori, sono sempre lo stesso! Io non ho mai rinnegato gli ideali per i quali ho lottato e per i quali lotterò sempre…»
Ed aggiunse: «Ero accanto a Lenin nei giorni radiosi della rivoluzionecredevo che il bolscevismo fosse all'avanguardia del trionfo operaio, ma poi mi sono accorto dell'inganno… Il socialismo non lo realizzerà Stalin, ma Mussolini che è socialista anche se per vent'anni è stato ostacolato dalla borghesia che poi lo ha tradito… ma ora Mussolini si è liberato di tutti i traditori e ha bisogno di voi lavoratori per creare il nuovo Stato proletario…».
Pragmatico e realista com'era Mussolini, perfettamente conscio che la guerra era perduta e che il fascismo sarebbe stato spazzato via dalla nazione, volle perseguire un ultimo tentativo disperato, nell'interesse del popolo italiano e conforme alla sua visione di fascista repubblicano e socialista: intendeva lasciare le audaci riforme socialiste e repubblicane della RSI ai socialisti e ai repubblicani, in modo che nel dopoguerra, quelle riforme, pur senza il fascismo, forse sarebbero rimaste in vigore salvandosi dalle imposizioni degli angloamericani e dalla ingordigia degli industriali.
Vediamo questa pagina di Storia poco conosciuta.
Il 22 aprile 1945 il Duce ricevette il socialista Carlo Silvestri. In quella occasione egli formalizzò una serie di appunti che consegnò al Silvestri pregandolo di inoltrarli alle forze moderate e socialiste della Resistenza. Racconto poi Silvestri della consegna ricevuta:
«Compagni socialisti. Benito Mussolini mi ha chiamato e mi ha dettato questa dichiarazione che mi ha autorizzato a ripetervi. Poichè la successione è aperta in conseguenza all'invasione anglo americana, Mussolini desidera consegnare la Repubblica Sociale Italiana ai repubblicani e non ai monarchici, la socializzazione e tutto il resto ai socialisti e non ai borghesi. Della sua persona non fa questione. Come contropartita chiede che l'esodo dei fascisti possa svolgersi tranquillamente. Nel proporre questa trasmissione dei poteri, egli si rivolge al partito Socialista, ma sarebbe lieto se l'idea fosse considerata ed accettata anche dal partito d'Azione nel quale, del resto, prevalgono le correnti socialiste. ... A quanto sopra sono autorizzato ad aggiungere che come contropartita Mussolini chiede: a) garanzia per l'incolumità dei fascisti e dei fascisti isolati che resteranno nei luoghi di loro abituale domicilio con l'obbligo della consegna delle armi nei termini stabiliti; b) indisturbato esodo delle formazioni militari fasciste, così come di quelle germaniche, nell'intento di evitare conflitti e disordine tra italiani e distruzione di impianti da parte dei tedeschi e nuove rovine e lutti nelle città e nelle campagne».
In uno di questi appunti, inoltre, Mussolini specificava a Silvestri che non si rivolgeva anche ai comunisti perché riteneva che nell'attuale situazione internazionale essi non potevano assumere in Italia atteggiamenti che sarebbero stati in contrasto con il riconoscimento dell'Italia come zona di influenza inglese.
Come sappiamo questo tentativo "politico" abortì subito per l'intransigenza di socialisti estremisti come Sandro Pertini, che misero in minoranza e isolarono i compagni socialisti che volevano accogliere quel passaggio di "consegne" e per la volontà e l'interesse di liquidare tutto il fascismo, comprese le sue conquiste sociali, in modo drastico e violento. Andò così a finire che gli Alleati imposero immediatamente la abrogazione di quelle Leggi sociali e la riconsegna delle Azienda agli Industriali.
In cambio i Sindacati ottennero beni immobili: i magnifici palazzi già appartenuti alla Gil , alla Onmi ai Dopolavori, ecc.
Come contentino, ai lavoratori, venne fatta elargire nel dicembre 1945, una gratifica straordinaria e una tantum, che gli Industriali furono ben felici di pagare.
Ma se le sinistre svendettero tutto il patrimonio sociale della RSI, in buona parte già codificato in Leggi, peggio ancora fecero i furfanti del MSI nel dopoguerra: legati mani e piedi ai circoli industriali, padronali e asserviti agli Atlantici, gettarono nell'oblio ogni aspetto socializzante della RSI, riservandone un bisbigliare solo nelle sezioni di partito, in sporadici opuscoli o in qualche comizio,, tanto per turlupinare i gonzi e racimolare voti.

Aprile 1945 la resa dei conti
Negli ultimi giorni di aprile '45 Mussolini dovette purtroppo fare i conti con le tante defezioni, se non tradimenti o comunque remore, dei suoi seguaci con i quali aveva messo in piedi la Repubblica Sociale Italiana.
Il 25 aprile '45, dopo che gli Alleati, oramai sfondato il fronte e superato Bologna, anche in virtù del fatto che i tedeschi oramai stavano trattando la resa, a insaputa degli italiani, in Svizzera, Mussolini decise l'ultima tattica possibile, quella temporizzatrice, ovvero di allontanarsi con il governo dalla Lombardia verso la Valtellina.
Quindi mentre egli si allontanava costantemente dalle zone dove stavano per arrivare le truppe Alleate e rifiuta di trincerarsi nelle grandi città per non esporle ad una sicura distruzione e per non cadere prigioniero del nemico (per avere un minimo di possibilità di trattare deve restare a piede libero) altri gerarchi, uomini del suo governo, molti pur fedeli fascisti, preferirebbero invece arrendersi al più presto agli Alleati, anche perchè permeati da quella forma mentis, in definitiva filo occidentale, che gli faceva magari sperare di potersi, non solo salvare, ma anche riciclare nel dopoguerra come anticomunisti e antisovietici.
In quelle ore drammatiche molti uomini del suo entourage speravano anche nell'ultima chance di un rifugio in Svizzera, mentre Mussolini, rimase sempre caparbiamente fermo nel proposito di restare sul suolo italiano, come la precisa e documentata ricostruzione di Marino Viganò, un ricercatore storico non certo di parte neofascista, ha dimostrato con il suo saggio: «Mussolini, i gerarchi e la "fuga" in Svizzera (1944-'45), Nuova Storia Contemporanea" N. 3, 2001».
E così andò a finire che Mussolini, lasciata Como all'alba del 26 aprile 1945, restò letteralmente imbottigliato in quel di Menaggio, circa 31 Km. più avanti sulla strada dell'alto lago, senza poter consumare la sua ultima e minimale strategia temporizzatrice che gli restava.
Come detto cercava di spostarsi verso la Valtellina o i confini del Reich, nella speranza di giocarsi le importantissime ed esplosive documentazioni che portava seco, al fine di trattare una resa, a piede libero, nella quale salvare la vita ai fascisti e per la nazione mitigare le conseguenze della sconfitta.
Ma i comandanti fascisti con le residue milizie armate, rimasero scelleratamente impantanati a Como, dove finirono per accettare una "resa" che ha dell'incredibile e del vergognoso.

Se Mussolini avesse voluto salvarsi
E pensare che se Mussolini lo avesse voluto si sarebbe potuto agevolmente salvare.
Già il 20 aprile '45, con la imminente presa di Bologna da parte degli Alleati (vi entreranno il giorno dopo) era oramai evidente che i tedeschi praticamente non combattevano più. Mussolini, volendo, avrebbe potuto mettersi in salvo e questo tanto più quando, il pomeriggio del 25 aprile all'Arcivescovado, venne ufficialmente a conoscenza che i tedeschi avevano raggiunto una intesa, all'insaputa degli italiani, per una imminente resa con gli Alleati, mettendo in crisi il ripiegamento dei fascistiDiveniva quindi evidente che l'unica possibilità di salvezza sarebbe stata quella di prendere il volo verso l'estero lanciando il si salvi chi può.
Il socialista Carlo Silvestri, suo acerrimo avversario ai tempi del delitto Matteotti, che gli fu vicino fino all'ultimo, riferì che Mussolini non pensava minimamente di mettersi in salvo, ma anzi il suo cruccio e il suo ultimo desiderio era proprio quello di sacrificarsi in qualche modo, affinché questo suo sacrificio personale potesse tornare vantaggioso per l'Italia.
Vediamo allora alcune vicende, quelle storicamente accertate, circa gli svariati piani di salvataggio del Duce, ideati da autorità della RSI, da settori del partito fascista o del suo entourage, dove si riscontra il ricorrente e totale rifiuto di Mussolini di aderire ad uno qualsiasi di questi progetti, tanto che c'era persino chi pensava di condurlo all'ultimo momento in salvo, narcotizzato o contro la sua volontà.
Buffarini Guidi, l'ex ministro degli interni, per esempio, parlando con Piero Cosmin, ex capo della provincia di Verona e Ugo Noceto, capitano dell'Aeronautica (come ha raccontato quest'ultimo a Marino Viganò nel 1995) ebbe a dirgli nel febbraio del 1945:
«Qui le cose si mettono male, ormai non c'è più niente da fare e bisogna cercare di salvare Mussolini in qualche modo. Lui non vuole, ma bisogna cercare in modo assoluto di salvarlo, perché se Mussolini è in salvo, o in Spagna o in Argentina, può far del bene all'Italia. Lui non vuole, ma volente o nolente, bisogna portarlo via».
Nel corso di questo colloquio sopraggiunse anche Vittorio Mussolini, il figlio del Duce, il quale messo a parte di queste intenzioni si disse d'accordo, ma aggiunse subito:
«Guardate che però mio padre non vuole».
Ed ancora, pur con qualche variante di dettaglio tra una versione e l'altra:
al figlio Vittorio, che proprio negli ultimissimi giorni gli propose di nascondersi in una garçoniere, Mussolini rispose ironicamente: «Non ti pare che le garçoniere servono per altri scopi?!».
Ma in altra occasione il padre, di fronte all'insistenza del figlio, ebbe anche a rispondergli duramente: «Nessuno ti ha pregato di interessarti della mia personale salvezza».
Noto è poi l'avanzatissimo progetto del generale Ruggero Bonomi, sottosegretario all'aviazione RSI, che aveva predisposto sul campo di Ghedi (Brescia), dei trimotori "Savoia Marchetti 79" (rimasti a disposizione fino agli ultimi giorni di Milano) adatti a raggiungere località come la Spagna dove risiedeva la moglie del segretario del Duce, Luigi Gatti, disposta ad accoglierlo. Al ché, saputolo, Mussolini, più o meno, osservò con ironia: «È questa di Bonomi la soluzione migliore per risolvere la nostra situazione? E tutti gli altri fascisti, poi, dove li metteremmo in quell'aereo?».
Racconta, un sia pur non molto attendibile, Virgilio Pallottelli, tenente pilota, che ebbe modo di vedere Mussolini il 25 aprile a sera in Prefettura dopo il ritorno dall'Arcivescovado:
«... di corsa salgo dal Duce, è pallido e nervoso. Imploro di andare subito a Linate e volare verso la Spagna. Rifiuta gridandomi che lui non scappa: "Virgilio, andremo anche noi sulle montagne, come i partigiani. No, Virgilio non scappo in volo. Andiamo in Valtellina ad aspettare gli Alleati"».
Un complesso piano, invece, con un sommergibile atlantico e/o un aereo venne studiato da Tullio Tamburini, capo della Polizia della RSI fino al giugno '44 ed ex prefetto di Trieste. Lo riferì lo stesso Tamburini a Ermanno Amicucci nel '50. Il progetto coinvolgeva anche Augusto Cosulich, l'amministratore dei cantieri dell'Alto Adriatico di Monfalcone dove si fabbricavano navi e sommergibili, ma anche aeroplani.
Come ricostruisce Marino Viganò, nell'articolo "Quell'aereo per la Spagna", Nuova Storia Contemporanea N. 3, 2001, alla fine Tamburini portò al Duce carte geografiche, progetti, cifre, disegni e gli espose il suo piano in ogni particolare [...]. Mussolini stette ad ascoltarlo, fra l'interessato e il divertito [...]. Fatto sta che il piano non lo mise di buon umore. Dopo aver accennato, con riso amaro, a Verne e a Salgari, disse a Tamburini: «Queste faccende non rientrano fra i vostri compiti. Non dovete più occuparvene. Ho il mio piano e provvederò io al momento opportuno. Non me ne parlate mai più».
In questo progetto era stato coinvolto anche l'ufficiale sommergibilista Enzo Grossi, medaglia d'oro RSI, che lo raccontò nel 1963, confermando i ricordi di Antonio Bonino vice segretario del PFR per la sede di Maderno e di Tamburini. Ricordò Grossi:
« ... [Tamburini] Mi spiegò che con il beneplacito dei Giapponesi sarebbe stato allestito un grosso sommergibile che al mio comando doveva prendere il mare, al momento opportuno, con a bordo la famiglia di Mussolini e i miei congiunti. Tutto era stato previsto per mantenere il segreto e per soddisfare le esigenze dei familiari dell'equipaggio; durata prevista della missione: un anno. Mi impegnai in senso affermativo. Tamburini si propose di parlarne a Mussolini. Qualche giorno dopo lo stesso Tamburini mi comunicava che tutto era andato a monte poiché il Duce si negava perentoriamente a quella che considerava una fuga. In occasione di un colloquio che ebbi nel mese di febbraio del 1945 Mussolini mi ringraziò per quanto ero disposto a fare e mi disse: comprendo perfettamente quali sentimenti hanno indotto Tamburini a progettare la nota missione sotto-marina e ringrazio anche voi su cui potrei fare il massimo affidamento, ma io non ho nessun interesse a vivere come un uomo qualunque» (vedesi: E. Amicucci, in: "Tempo" [Milano] 1950, N.. 19, e E. Grossi, "Dal Barbarigo a Dongo", "Un sommergibile per Mussolini", in: "Il Secolo d'Italia" 25 gennaio 1958).
In ogni caso, anche se non facile, ma certamente praticabile sarebbe stata la possibilità di porre in salvo il Duce sia in Spagna che in Sud America o forse in Svizzera o nasconderlo in qualche località segreta in Italia, anche se poi alquanto problematico sarebbe stato il "dopo" ovvero il "come" affrontare il dopoguerra, ma oltre 20 anni di segreti di Stato ed un compromettentecarteggio con Churchill, Roosevelt e anche lo stesso Stalin, gli avrebbero forse concesso la possibilità di salvare la pelle.
Ed invece, sul piano personale, si preoccupò unicamente di porre in salvo i suoi familiari mentre egli, con tutte le restanti autorità del governo repubblicano al seguito, andò incontro al suo destino.

Mussolini il "sanguinario"
Per concludere dobbiamo specificare, laddove sostenemmo che Mussolini era un rivoluzionario, che egli era prevalentemente un "rivoluzionario politico", dove la politica è anche l'arte del possibile, dell'inganno e del cinismo, e se pure egli non era un santo ed anzi utilizzò la violenza squadrista, mai mise mano ai plotoni d'esecuzione per il mantenimento del potere o fece ricorso all'assassinio per eliminare gli oppositori.
Chi storce la bocca al fatto che Mussolini utilizzò nella gestione del potere, gli Archivi dell'Ovra, spesso il ricatto, a volte la corruzione, per domare nemici e avversari, interni ed esterni al fascismo, dovrebbe sempre ricordare che, in alternativa, il monopolio del potere si può mantenere solamente con il sangue. Ma per Mussolini non era nella sua indole la risoluzione cruenta dei contrasti politici.
Ricorda la sorella Edvige come nel giugno 1934 egli inorridì alla notizia della eliminazione in Germania di Röhm e delle SA, mentre donna Rachele, la moglie, confidò che il Duce faceva la mascella feroce, ma era incapace di far del male ad una mosca.
Italo Balbo, nel giugno del 1925, parlando con Carlo Silvestri in merito alle conseguenze del delitto Matteotti, ebbe a fare una considerazione che si rivelò esatta:
«Ora invece per le conseguenze del delitto Matteotti Mussolini sarà costretto a fare il dittatore senza averne la stoffa. E saranno guai, perché un dittatore non deve avere paura del sangue.».
Su Mussolini così si espresse intelligentemente lo storico Attilio Tamaro:
«Il carattere dell'uomo non era nè quello di Cromwell, né quello di Stalin, perché non era né feroce, né inflessibile nella realizzazione delle sue idee. Era coerente più di quanto apparisse nei fini: non nei mezzi, né nelle idee, che stimava mezzi o strumenti».
Lo stesso Mussolini era conscio di questa sua inclinazione e debolezza ed ebbe a scrivere:
«La politica è un'arte difficilissima tra le difficili perchè lavora la materia inafferrabile, più oscillante, più incerta. La politica lavora sullo spirito degli uomini, che è una entità assai difficile da definirsi, perchè è mutevole. Mutevolissimo è lo spirito degli italiani.
Quando io non ci sarò più, sono sicuro che gli storici e gli psicologi si chiederanno come un uomo abbia potuto trascinarsi dietro per vent'anni un popolo come l'italiano. Se non avessi fatto altro basterebbe questo capolavoro per non essere seppellito nell'oblio. Altri forse potrà dominare col ferro e col fuoco, non col consenso come ho fatto io. (...) Tutti i dittatori hanno sempre fatto strage dei loro nemici. Io sono il solo passivo: tremila morti (tra le camice nere - n.d.r.) contro qualche centinaio.
Credo di aver nobilitato la dittatura. Forse l'ho svirilizzata, ma le ho strappato gli strumenti di tortura. Stalin è seduto sopra una montagna di ossa umane. È male? Io non mi pento di avere fatto tutto il bene che ho potuto anche agli avversari, anche nemici, che complottavano contro la mia vita, sia con l'inviare loro dei sussidi che per la frequenza diventavano degli stipendi, sia strappandoli alla morte. Ma se domani togliessero la vita ai miei uomini, quale responsabilità avrei assunto salvandoli? Stalin è in piedi e vince, io cado e perdo. La storia si occupa solamente dei vincitori e del volume delle loro conquiste ed il trionfo giustifica tutto. La rivoluzione francese è considerata per i suoi risultati, mentre i ghigliottinati sono confinati nella cronaca nera».
Negli ultimi mesi della RSI Mussolini era più che altro intento a decruentizzare la situazione, conscio che il vento sanguinario della guerra civile veniva da Londra, Mosca e New York.
Firmava praticamente ogni domanda di grazia gli venisse sottoposta ed era altresì intento a salvaguardare, impianti industriali, portuali, ecc. dalla furia della guerra e dalle possibili distruzioni dei tedeschi in ritirata.
Sperava che l'Italia in qualche modo potesse sopravvivere come nazione moderna es socialmente avanzata e si augurava, espletandone anche il 22 aprile 1945, un tentativo subito fallito, di poter tramandare le sue riforme sociali e repubblicane ai socialisti e ai repubblicani, perchè, come confidò il direttore del Corriere della Sera, Ermano Amicucci: "Mussolini voleva che gli anglo americani e i monarchici trovassero il nord Italia socializzato, avviato a mete sociali molto spinte; voleva che gli operai decidessero nei confronti dei nuovi occupanti e degli antifascisti, le conquiste sociali raggiunte con la RSI".
E a Carlo Silvestri, ancor più esplicitamente disse:
«Vi dico che il più grande dolore che potrei provare sarebbe quello di rivedere nel territorio della Repubblica sociale i carabinieri, la monarchia e la Confindustria. Sarebbe l'estrema delle mie umiliazioni. Dovrei considerare definitivamente chiuso il mio ciclo, finito».
Proprio questa umiliazione postuma, invece, gli riservarono i vincitori della guerra e i governi post ciellenisti, ma anche gli epigoni neofascisti, che nel dopoguerra perseguirono anni e anni di conservatorismo, reazione, filo americanismo e quant'altro e passo dopo passo, arrivarono ad edificare la cloaca della Destra Nazionale, con ex monarchici, liberali, ex papponi DC, ex tromboni trombati delle FF.AA. e dei Servizi, perfino ex venticiqueluglisti, infine, dopo tutto questo arrivarono persino a sostituirlo nei quadri nelle loro sezioni con il più consono Pinochet e le bandiere della sua macelleria cilena.
Ovviamente poi quegli epigoni missisti, finirono per rinnegarlo definitivamente definendo il fascismo il male assoluto.
Purtroppo la storia non consola e non ripaga, tanto è vero che il suo agire lo portò, come attestò e dimostrò Carlo Silvestri (ma anche Piero Parini, Renzo Montagna e altri collaboratori che lavorarono con lui) a salvare praticamente la vita a quasi tutti i capi della Resistenza, catturati dai tedeschi o ben individuati nei loro nascondigli, compresi Parri, Lombardi, Pertini, ecc., fu "ripagato" con le parole di Sandro Pertini, il partigiano estremista che in quei giorni di fine aprile '45 sbraitò alla radio che Mussolini «doveva essere ammazzato come un cane tignoso».
Proprio quello che avvenne.
Pertini, il partigiano estremista e di sinistra, che in quelle "radiose giornate" non mancava ad ogni comizio di aizzare le folle, già ebbre di sangue, nel dopoguerra divenne ligio interprete del "delicato" ruolo di Presidente della Camera (carica da assegnare a chi dà garanzie di sapersi destreggiare tra regolamenti e inciuci) e poi divenne il Presidente buono della Repubblica, difensore dell'Italia liberista e capitalista, subordinata agli USA, impegnandosi come un forsennato contro i brigatisti rossi, coloro che, di fatto, praticavano quella stessa guerriglia già partigiana e terrorista che fu dei Gap, ovvero lo sparare alle spalle e poi scappare, che il Pertini partigiano, a suo tempo aveva tanto esaltato.
- Mussolini che aveva debellato la Mafia, non tanto con il prefetto Mori, quanto con il suo Stato dove «nessun potere, nulla doveva essere fuori delle Stato», ci dice invece il "compagno" Pertini, cooperatore degli Alleati che La Mafia l'avevano riportata in Sicilia: deve morire come un cane tignoso.
- Mussolini che aveva mandato in "sonno" la Massoneria mettendola fuori legge, ci dice invece il "compagno" Pertini, quale Presidente di una Repubblica pullulante di Logge, dove lui finì gestito dalle mani del suo segretario al Quirinale, il "confratello" Antonio Maccanico: deve morire come un cane tignoso.
- Mussolini che aveva realizzato la società socialista in Italia, ci dice invece il "compagno" Pertini, lui che aveva realizzato l'Italia liberista, capitalista e riportato i lavoratori al rango di salariati: che deve morire come un cane tignoso.
- Mussolini che aveva combattuto la guerra del "sangue contro l'oro", ci dice invece il "compagno" Pertini, che aveva combattuto la guerra "dell'oro contro il sangue" in nome e per conto della City di Londra e di Wall Street di New York: che deve morire come un cane tignoso.
E Pertini mori nel suo letto d'ospedale a quasi 94 anni, avvolto dal conforto di quegli italiani scorderelli, beoti, insufflati di edulcorati e idilliaci immaginari collettivi partoriti dalla propaganda e dai mass media. Quegli italiani, quei lavoratori, ai quali per essere presi in giro bastano, non fatti, ma qualche parola di conforto, vuote enunciazioni di giustizia, pace e libertà, prive di ogni conseguenza realizzativa, che il "vecchio presidente buono", era cosi bravo a pronunciare con tanta enfasi e verve.
Mussolini invece finì ammazzato e appeso a Piazzale Loreto.
Questa è la Storia, ma tra qualche centinaio di anni siamo assolutamente certi che di Mussolini se ne parlerà ancora e nel Campidoglio ci sarà il posto che compete alla sua statua accanto ai padri della Patria, di pertini (il minuscolo è voluto) invece... fate voi.

2 commenti:

  1. tra 100anni l'italia non ci sarà più e di pertini non parlerà nessuno.
    di mussolini sicuramente si.

    RispondiElimina
  2. Bellissimo! Davvero complimenti​ a Maurizio Barozzi

    RispondiElimina