venerdì 5 dicembre 2014

Fu l’Italia ad aggredire deliberatamente l’Etiopia?


di Francesco Lamendolla

5 Dicembre 1934 - 
A Ual Ual (Somalia) truppe abissine sconfinano, ma vengono respinte con gravi perdite: sarà lo spunto per la guerra d'Etiopia.

Stiamo analizzando da giorni i fatti che dimostrano che il colonialismo italiano di fatto iniziò molti anni prima del fascismo, addirittura il secolo prima come la sconfitta di Adua, o i primi del 900 come la vittoria sui turchi e la conseguente occupazione della Libia.

C'è una gran confusione indotta dall'antifascismo militante, il quale ha come scopo la creazione di una realtà artefatta dove dipinge il fascismo come aggressore e razzista, noi con la nostra calma continueremo a fare nel nostro piccolo un lavoro di rivalutazione della verità, tutti siamo andati a scuola quanto basta per capire che alcune cose come ad esempio "la provocazione di Ual Ual" non ci è stata raccontata a questo punto possiamo dire volutamente, perchè avrebbe fatto apparire il nostro intervento per quello che è, una giusta causa.

APPROFONDIMENTO

Siamo proprio sicuri che, nel 1935, fu l’Italia ad aggredire deliberatamente l’Etiopia?
Si è sempre detto e ripetuto che Mussolini, nel 1934, prese a pretesto l’incidente ai pozzi di Ual-Ual per muovere guerra all’Etiopia ed occuparla, “vendicando” così la sconfitta di Adua del 1896 e mirando alla fondazione dell’Impero, che avrebbe dato nuovo lustro al suo regime e avrebbe ancor più legato la monarchia alle sorti di quest’ultimo.

La storiografia italiana liberaldemocratica ha fatto propria, al pari di quella marxista, tale interpretazione dei fatti che condussero alla guerra italo-etiopica del 1935-36, secondo la quale la volontà di Mussolini era comunque di arrivare alla guerra e che l’Etiopia fu la vittima designata della sua politica imperialista.

Questa lettura è stata poi rafforzata dal comportamento di Hailè Selassè durante e dopo la seconda guerra mondiale, quando, a differenza del colonnello Gheddafi, si astenne da ogni rappresaglia ai danni dei coloni italiani e anzi si adoperò perché rimanessero nel Paese: cosa che ha rafforzato la leggenda bianca di un Negus “buono” e generoso e, per converso, la leggenda nera di un Mussolini cinico e guerrafondaio.

Ancora una volta, quindi, eventi “post rem” e pregiudizi “ante rem” contribuirono a convalidare un atteggiamento storiografico conformista, adagiato e appiattito sulle tesi dei vincitori della seconda guerra mondiale; in tale prospettiva, appariva scontato che il fascismo fosse il solo ed unico responsabile del conflitto italo-etiopico e che non vi fosse alcun bisogno di cercare altre cause, perché la cosa era evidente - per ragioni ideologiche - di per se stessa.

Del resto, la quasi totalità degli storici italiani non ha sempre sostenuto che l’intero capitolo delle imprese coloniali italiane non è stato altro che una lunga sequela di errori e di crimini e che la stessa politica italiana di espansione coloniale era sbagliata in partenza.

Basta leggere le monumentali opere del nostro massimo africanista, Angelo Del Boca, sulla politica coloniale italiana in Libia e in Africa orientale, per convincersi che tale è la sentenza, definitiva e inappellabile, emessa dai nostri storici di professione sul nostro stesso passato coloniale: una sorta di crociana “malattia” dalla quale ci ha guariti, fortunatamente, il Trattato di Parigi del 1947, spogliandoci di tutto il nostro impero coloniale.

Dopo il 1945, l’antifascismo militante, assurto alla dignità di dogma sovrano della Costituzione democratica, si è sposato con un antico vizio del carattere nazionale, quello dell’autodenigrazione e dell’autoflagellazione, che provoca in molti pseudo-intellettuali una sorta di discutibile voluttà: il poter dire che l’Italia sbaglia sempre, qualunque cosa faccia e sotto qualunque governo (ma specialmente sotto un governo di orientamento politico diverso da chi sentenzia e giudica); che gli Italiani non ne fanno mai una di giusta; fino all’assurdo di accusare di avidità colonialista l’Italia del 1935, senza badare al fatto che i due pilastri della Società delle Nazioni, la Francia e soprattutto la Gran Bretagna, avevano già fatto la parte del leone, sia in Africa che nel resto del mondo e pertanto, a stomaco ben sazio, potevano prendersi anche il lusso di fare la morale alle nuove nazioni emergenti, come la Germania, l’Italia o il Giappone.

Cioè: se il colonialismo è stato solo una pagina vergognosa della storia europea, perché non gettare il peso più grande di tale vergogna su quelle potenze, come la Francia e la Gran Bretagna, che di quella politica furono le maggiori artefici e le maggiori beneficiarie; perché prendersela solo con l’Italia che, arrivata ultima sul luogo della spartizione, cercò di afferrare quanto restava, prima che la tavola venisse sparecchiata?

Se, viceversa, il colonialismo non ebbe solo ombre, ma anche luci, perché non riconoscere che la politica coloniale italiana fu almeno altrettanto legittima di quella delle altre, più antiche potenze coloniali europee?

Dunque, tornando all’Etiopia: e se le cose stessero in maniera un po’ diversa da come le racconta la Vulgata storiografica democratica e antifascista? 

Se a provocare la guerra italo-etiopica fossero stati anche dei comportamenti aggressivi ben precisi e deliberati da parte del Negus Hailè Selassiè, a sua volta ispirati dalla sottile perfidia del britannico Foreign Office, sempre pronto a sobillare gli altri affinché si scannino nel suo esclusivo interesse, come quando rilascerà la folle garanzia in bianco alla Polonia, nel 1939, affrettando la catastrofe della seconda guerra mondiale?

Riflettiamo un momento.

È noto che l’incidente che provocò il punto di non ritorno nelle relazioni italo-etiopiche - a dispetto di un trattato di amicizia firmato solo nel 1928 e che avrebbe dovuto avere una durata ventennale - fu quello verificatosi presso l’Oasi di Ual Ual, nell’incerta zona di confine tra Etiopia e Somalia italiana, il 5 dicembre 1934.

Ebbene: l’Ogaden era una regione annessa all’Impero etiopico da Menelik, benché si trattasse di una regione abitata da popolazioni somale: sicché è coretto asserire che, fin dagli ultimi anni del XIX secolo, l’Etiopia era divenuta a sua volta una potenza imperialista e colonialista, che arraffava quanti più territori si trovavano alla sua portata e che certamente avrebbe arraffato anche l’Eritrea, se l’Italia non l’avesse preceduta in quella direzione; e si sa quanti morti provocherà poi la feroce guerra coloniale di sterminio condotta dall’Etiopia ai danni dell’Eritrea, fra il 1978 e il 1991, dopo che le nazioni Unite ebbero sancito, nel 1952, l’integrazione della seconda nei confini della prima, dopo la parentesi dell’occupazione britannica.

Altra ipocrisia degli storici: l’Italia è una potenza imperialista e colonialista quando si inserisce nello scenario dell’Africa orientale e sigla con Menelik il Trattato di Uccialli, che poi verrà disconosciuto dal Negus, provocando la guerra del 1895-96; ma non lo è l’Etiopia, che pure, con il supporto logistico francese, a sua volta intraprende una espansione imperialistica e colonialista verso regioni che non erano mai state comprese all’interno dei suoi confini storici e che erano abitate da popolazioni musulmane, poco propense ad accogliere con entusiasmo gli eserciti di un imperatore etiopico di religione cristiana e che, oltretutto, poggia il suo potere su un sistema sociale fondato sulla schiavitù.

Chissà perché, vengono usati due pesi e due misure; e, se Menelik si rimangia il Trattato di Uccialli e muove guerra agli Italiani, non ha fatto altro che esercitare una legittima difesa contro la minaccia straniera; mentre ai perfidi Italiani, che ambivano a stabilire il loro protettorato sull’Etiopia, senza però riuscirvi, non resta che la qualifica di “imperialisti straccioni”.

Comunque, nessuno ha mai potuto provare che, a Ual Ual, gli Italiani abbiano provocato un incidente con gli Etiopici; mentre è certo che furono questi ultimi a lanciare un attacco in piena regola contro le posizioni italiane.

Ancora: un mese prima dei fatti di Ual Ual, gli Etiopici avevano dato l’assalto al consolato italiano di Gondar, provocando la morte di alcuni soldati indigeni che lo difendevano. 

Sorge un legittimo interrogativo: chi era l‘aggredito e chi l’aggressore, visto che, fino a quel momento, dall’Italia non erano stati mandati rinforzi né in Eritrea, né in Somalia, il che rende problematico parlare di una volontà deliberata di guerra da parte italiana?

Gli storici italiani dell’epoca ebbero ben chiara questa situazione, così come ebbero chiaro l’interesse del governo conservatore britannico a spingere l’Etiopia in una politica ostile all’Italia, fatta di provocazioni militari e di sabotaggio della cooperazione tecnica ed economica prevista dal patto del 1928; ma la loro voce, dopo i tragici fatti del 1943-45, è stata completamente messa a tacere dal coro unanime della storiografia antifascista, propensa, come si è detto, a vedere ovunque la malafede di Mussolini e la sua volontà di provocare ad ogni costo, con machiavellico disprezzo delle norme internazionali, una guerra con l’Etiopia.

TESTIMONIANZA

Fra gli storici “fascisti” di cui sopra, dobbiamo ricordare, fra gli altri, don Alfonso Manaresi (già sacerdote, tornato allo stato laicale in seguito alla persecuzione antimodernista di Pio X, che lo aveva coinvolto), i cui manuali ad uso delle scuole superiori godettero di una vasta fama e di un meritato apprezzamento per la loro chiarezza didattica.
Scriveva, dunque, Alfonso Manaresi nel suo "Corso di storia per i Licei classici, scientifici e gli Istituti Magistrali" (Roma, Casa Editrice Luigi Trevisini, 1936, vol. 3, pp. 383-84):
"Il nuovo negus [Hailè Selassiè I] si accinse al riordinamento dell’Etiopia. Abbatté i ras più potenti e ribelli, e al loro posto mise governatori provinciali, da lui nominati, tentando di trasformare il vecchio impero feudale in uno Stato unitario e accentratore. Quindi annunciò un vastissimo programma di riforme, destinato poi a fallire per l’impreparazione dei dirigenti e per le resistenze di un popolo, barbaro da millenni.
Accorsero allora da ogni parte d’Europa sedicenti consiglieri, diplomatici falliti, tecnici di dubbia origine, ai quali vennero affidati posti di comando. 
E l‘Etiopia pullulò di “esperti” inglesi e americani, di ex ufficiali svedesi,belgi e turchi, di affaristi greci, di fuorusciti russi, di commercianti giapponesi, di avventurieri levantini. 
Addis Abeba e i principali centri dell’Etiopia presentarono la più caotica mescolanza di bianchi, di abissini, di negri: il più stridente contrasto fra i barbari usi tradizionali e le ingenue pretese di modernità e di civiltà, mentre i pochi giovani etiopici, che avevano visitato l’Europa, si univano in associazioni patriottiche, assumendo atteggiamenti nazionalistici e grottesche pose imperiali. E ciò in un Paese che aveva due milioni di schiavi, che usava ancora per punizione le più barbare mutilazioni, che non aveva scuole, strade, ospedali, nulla! In mezzo a tanta confusione di idee e di cose, il negus era riuscito a creare una sola istituzione abbastanza seria: l’esercito. Non numeroso, ma vestito e armato all’europea, esso era stato discretamente istruito da ufficiali mercenari svedesi e belgi, e costituiva l’unica forza, su cui potesse fondarsi l’autorità del governo centrale. Nella politica etiopica l’Inghilterra, coi suoi consiglieri e consiglieri, aveva finito per irretire il sovrano, mirando ad una lenta e graduale annessione del paese.
Nettamente osteggiata da Hailè Selassiè fu l’Italia. 
Il patto di amicizia del 1928 fu presto dimenticato; la cooperazione economica italiana venne costantemente avversata; ostacoli di ogni genere furono suscitati contro commercianti, imprenditori, tecnici italiani. 
La strada camionabile Dessiè-Addis Abeba, che doveva far convergere il commercio italo-etiopico verso Assab, non fu mai cominciata; la delimitazione dei confini sempre rimandata; tutte le proteste italiane ad Addis Abeba sistematicamente respinte. 
La politica anti-italiana del Negus incoraggiò allora i ras e i piccoli tirannelli della periferia dell’impero ad abbandonarsi ad atti criminali contro agenzie consolari italiane, a rappresaglie su nostri amici, a incursioni e rapine nei territori di frontiera. 
Il 4 novembre 1934 il Consolato italiano di Gondar fu brigantescamente assalito di notte: alcuni nostri ascari rimasero uccisi. 
Apertasi un’inchiesta, risultò che autore dell’aggressione era stato il capo della polizia municipale di Gondar e che agenti di polizia lo avevano seguito; i colpevoli, temporaneamente arrestati, furono subito posti in libertà; nessuna soddisfazione ottenne l’Italia, nonostante i replicati interventi della legazione italiana alla corte etiopica. 
Più grave conflitto avvenne presso il nostro posto di Ualual, nella zona di frontiera della Somalia orientale. 
Il 5 dicembre 1934 oltre 500 soldati regolari abissini, agli ordini del vice-governatore etiopico dell’Ogaden, attaccarono improvvisamente le nostre posizioni: noi avemmo 80 dubat tra morti e feriti. 
All’immediata protesta italiana il governo etiopico rispose ordinando la mobilitazione generale nell’Harar e nell’Ogaden. Ormai la sicurezza delle nostre colonie era seriamente minacciata: occorreva intervenire subito. 
Il Duce assunse personalmente la direzione del Ministero delle Colonie, nominò Alto Commissario per l’Africa Orientale il quadrumviro generale Emilio De Bono, affidandogli il compito di dare unità d’indirizzo all’azione civile e militare in Eritrea e in Somalia; quindi inviò a Mogadiscio il generale Rodolfo Graziani, nominato comandante militare della Somalia. 
Nuovi attacchi abissini lungo le zone di confine confermarono anche iùà sfacciatamente la volontà aggressiva dell’Etiopia, costringendo il governi italiano a iniziare il richiamo della classe 1911 e ad inviare subito truppe per la difesa dei punti più minacciati.
L’incidente di Ualual, benché gravissimo, avrebbe potuto essere risolto pacificamente, qualora l’Etiopia avesse acconsentito a discuterlo entro le norme del patto d’amicizia del 1928. Ma il negus, lusingato dall’aperto favore dell’Inghilterra, vi si rifiutò e pretese che la discussione dell’incidente fosse portata davanti alla Società delle Nazioni. 
Una controversia, di carattere nettamente coloniale, si trasformava così in una pericolosa competizione di carattere europeo, servendo di pretesto a una scandalosa (sebbene inefficace) levata di scudi contro l’Italia fascista per parte della Massoneria e dell’antifascismo internazionale. Ma l’Italia “tirava diritto” (come disse il Duce), senza incertezze. E intanto continuava a inviare soldati ed operai in Africa, ben sapendo che per garantire la sicurezza delle colonie e per tener a freno la protervia etiopica erano assai più efficaci i cannoni che le vane chiacchiere dei diplomatici ginevrini."
Certo, la prima parte di questo brano suona sgradevolmente razzista ai nostri sensibili orecchi di cittadini del post-colonialismo; ma bisogna avere l’onestà intellettuale di riconoscere che i libri scolastici inglesi e francesi non adoperavano affatto un linguaggio diverso, allorché giustificavano non solo le conquiste coloniali di quelle potenze, ma anche le guerre di sterminio e perfino gli atti di inaudita barbarie: come quando, tanto per fare un esempio fra i mille e mille, il vincitore della battaglia di Omdurman del 1898, lord Kitchener, fece disseppellire la testa del Mahdi per inviarla come trofeo alla regina Vittoria.

E non parliamo delle armi batteriologiche adoperate dai Britannici a danno dei Pellirosse del Nord America fin dal XVIII secolo o dei veri e propri genocidi compiuti dai loro governatori e dai loro colonizzatori, come quello perpetrato ai danni dei miti e inoffensivi Tasmaniani, per fare posto alle fattorie e agli allevamenti dei nuovi padroni. 

Gli Inglesi si indignavano e si indignano sempre per i genocidi compiuti dagli altri: di quelli commessi da loro, a quanto pare, non hanno alcuna consapevolezza, nemmeno ai nostri giorni.

Ma, tornando alla pagina di Alfonso Manaresi, restano i fatti relativi alla politica anti-italiana intrapresa da Hailè Selassiè e restano gli oscuri maneggi della diplomazia del governo conservatore britannico, intesi a spingere l’Etiopia contro l’Italia per creare difficoltà a Mussolini e anche per farsi applaudire dall’opinione pubblica inglese come il custode dell’ordine europeo e mondiale, in nome dei sacri principi del liberalismo e della democrazia.

Muatis mutandis, non si può dire che l’atteggiamento inglese (e americano) sia cambiato sostanzialmente, da allora ad oggi: basti osservare i continui interventi armati contro la Iugoslavia, contro l’Afghanistan, contro l’Iraq, contro la Libia; sempre si capisce, in difesa dei sacri principi del liberalismo e della democrazia e sempre, per carità, nel nobile intento di liberare dei popoli oppressi e di rovesciare qualche bieco dittatore che, poi, la Corte internazionale di giustizia si incaricherà di condannare a morte…

Da Arianna editrice
di Francesco Lamendolla


Aggiunto da SOCIALE un altro interessante articolo di 
Bruno Tomasich

Aggiungo al post di Secli un pezzo tratto dal mio libro "Il Contastorie" sui precedenti storici della guerra d'Etiopia: Ma qual’era la situazione del Corno d’Africa? Racconta PCD Sillavengo: “Già in novembre (1934, ndr) durante una riunione di frontiera, il colonnello britannico Clifford, consigliere del negus, aveva contestato al capitano Cimmaruta il possesso italiano di Ual Ual, dove il confine è indefinito. Il contegno dell’inglese era stato tanto provocatorio che il graduato capo dei dubat Salad Aled, aveva fieramente reagito. Il 5 dicembre sera si è pronunciato un attaco abissino in forze, con truppe regolari e irregolari, contro il nostro posto nella boscaglia. I nostri si sono difesi, ma Salad Alen e la maggior parte dei graduati somali sono caduti alle prime scariche. Un vero massacro. Dalla vicina Uardar, al rumore della fucileria, decollano due aerei, accorre il capitano Roberto Cimmaruta con i due carri veloci del tenente Osvaldo Mazzei. Il combattimento si sviluppa nella notte... e all’alba gli abissini sono volti in fuga lasciando oltre cento morti sul terreno”.
Diversamente da questa descrizione dell’incidente fatta da Paolo Caccia Dominioni, Angelo Del Boca da parte sua ci tiene a considerarlo “un episodio del tutto imprevisto” accogliendo, nel suo libro “La guerra d’Etiopia”, la tesi di Carlo Zaghi che osserva “che l’incidente di Ual Ual non era di per sé drammatico, né irremissibile” e fu Mussolini a far prevalere “l’interesse di sfruttarlo e di aggravarlo”. 
A me non pare affatto casuale il precedente dell’intervento del consigliere del negus, colonnello britannico Clifford, del quale gli storici, talvolta alquanto smemorati, non hanno alcun preciso ricordo, derubricanto l’accaduto a episodio di comune brigantaggio. 
Che Mussolini non nascondesse il suo interesse verso l’Etiopia è fuori discussione e il trattato del 1928 lo dimostra, ma al tempo stesso egli non poteva non osservare quanto fosse insistente la pressione esercitata dal Regno Unito per fare prevalere i propri interessi sul regno del negus. 
Interessi che risultano chiari da quanto scrive nel suo libro Del Boca: che fosse obbiettivo britannico “non la redenzione di un paese arretrato ed infelice, ma la sua inclusione nell’area di influenza inglese, per poter risolvere, in primo luogo, con il controllo del Lago Tana, l’annoso problema della regolamentazione e sfruttamento delle acque del Nilo”.
Per me è sufficiente questa spiegazione di Angelo Del Boca a rafforzare la mia convinzione che le sanzioni fossero “inique”, come furono definite allora in Italia.
Lascio quindi, per un momento, il diario di Sillavengo per andare “spigolando” nel libro di Angelo Del Boca e rilevarne alcune contraddizioni. 
Scrive Del Boca: “Nella storia dei rapporti italo-etiopici l’incidente di Ual Ual non è certo il primo e neppure il più grave. Se ne contano almeno cinquantuno di incidenti di frontiera soltanto fra il 1923 e il 1934”. E’ quindi un eufemismo pretendere da parte sua di considerarlo “un episodio del tutto imprevisto”.
Osserva ancora Del Boca “che quanto alla modernizzazione dell’esercito etiopico, essa ha inizio soltanto nel gennaio del 1930, quando giungono ad Addis Abeba, ingaggiati con un contratto di tre anni, sei ufficiali belgi, ai quali è affidato l’incarico di istituire la Guardia Imperiale, primo nucleo del futuro esercito permanente etiopico... Alla vigilia del conflitto con l’Italia, gli istruttori belgi, aumentati nel frattempo da sei a dodici, hanno già addestrato fra i 20 e i 30mila uomini”. 
Quando la guerra apparirà come una minaccia concreta una nutrita missione svedese di consiglieri militari svedesi affiancherà il negus fino a partecipare attivamente alla guerra a conflitto avviato. 
Pur affermando che fin dal 1925 Mussolini avesse mostrato il suo interesse nei confronti dell’Etiopia, lo stesso Del Boca osserva che “è soltanto nel 1932 che assume delle decisioni che si riveleranno poi irreversibili”. 
E’ quindi chiaro, e Del Boca non lo smentisce, che, malgrado il trattato con l’Italia del 1928, il Negus Hailé Selassié, non appena salito al potere nel 1930, si sia circondato di consiglieri e di mercanti d’armi Inglesi, Francesi, Belgi, Svedesi per il riordinamento e l'addestramento dell'esercito. 
Non era certo disinteressata quella collaborazione se si tiene presente che in Belgio aveva sede la “Fabrique Nationale de Herstal” (FN), un’azienda produttrice di armi da fuoco, famosa per la produzione dei fucili Mauser corti di cui furono dotate (guarda caso) le Guardie dell’Imperatore. 
La FN con sede a Herstal, vicino a Liegi, ha acquisito nel tempo la proprietà, tra le altre, delle fabbriche d’armi americane Winchester e Browning. 
Questo orientamento del Negus trovava riscontro anche nel fatto che venivano privilegiati accordi commerciali ed economici con il Regno Unito rispetto alle nostre insistenti offerte di cooperazione. 
Del Boca semplifica le ragioni della nostra entrata in guerra con l’Etiopia riducendola ad un’aggressione coloniale come tante, anzi peggio di tante altre, mentre, come storico, dovrebbe allargare lo sguardo allo scontro fra Italia e Inghilterra sui comuni ma contrastanti interessi nel Corno d’Africa. Dopo che Il ministro degli esteri inglese sir Anthony Eden, dopo che aveva pervicacemente fomentato una violenta campagna anti italiana, pensava di addomesticare l’Italia con delle false proposte di ridicole concessioni che furono respinte da Mussolini.
Eden apparentemente mostrava, con un cinismo tutto britannico, di voler scongiurare eventuali conflitti ma, tutto sommato, non gli spiaceva l’dea di una guerra dell’Italia contro l’Etiopia, essendo pienamente convinto che non esistesse esercito al mondo che potesse sconfiggere l’esercito abissino. E questa era l’opinione corrente nell’ambito della diplomazia internazionale. Gli stessi abissini, come scrive anche Paolo Caccia Dominioni, sono certi che il leone non li mangerà, perchè gli italiani, tanto riccamente armati in terra, in cielo e in mare, non potranno reggeregli sciami di cavallette temerarie che li spazzeranno al momento giusto e nei luoghi adatti che essi ignorano.
A mostrare i muscoli nel mare Mediterraneo già il 20 settembre 1935, alla vigilia del conflitto, gli inglesi concentrano la loro imponente flotta a Gibilterra. 
Più che un deterrente per Mussolini quella esibita concentrazione navale è una dimostrazione di forza per incoraggiare l’imperatore Hailè Selassiè.
Scrive Sillavengo: “Sotto l’alta rupe minacciosa, nella rada color cobalto, sono alla fonda cento unità: sei corazzate, sei incrociatori pesanti e undici leggeri, cinquantatrè cacciatorpediniere, undici sommergibili e tredici navi minori. L’ambasciatore di Gran Bretagna a Roma chiede udienza al capo del governo e gli comunica che la Home Fleet già naviga nel Mediterraneo. 
Mussolini risponde: Sono già al corrente. So anche che dipende da noi se la Home Fleet potrà uscirne”.
Una risposta dignitosa che non lascia dubbi.
Era accaduto in precedenza che mentre, nel 1934, la Società delle Nazioni, capeggiata dalle grandi potenze imperialiste e coloniali, osteggiavano la politica italiana verso l’Africa e si disinteressavano di ciò che accadeva in Europa, Mussolini schierava le divisioni italiane sul confine italo-austriaco per dimostrare con chiarezza che non avrebbe tollerato alcuna occupazione tedesca dell'Austria. Così Mussolini, da solo e nell’indifferenza del mondo intero, costringeva Hitler a dover rinunciare dal portare a termine la progettata occupazione dell’Austria.
Hitler potrà farlo più tardi, nel 1938, dopo avere assicurato a Mussolini l’intangibilità del confine del Brennero che solo l’8 settembre avrebbe reso vulnerabile. 
Da parte sua Mussolini si preoccupava, fin dal suo primo governo, di allontanare con fermezza ogni tentativo di turbare gli equilibri europei e, nell’aprile 1935, convocava la conferenza di Stresa con Francia e Inghilterra per risolvere per via diplomatica i problemi sul tappeto. 
Nel dicembre 1935 era stato elaborato, nella linea di Stresa il piano Hoare-Laval che avrebbe limitato l’estensione dell’occupazione italiana in Etiopia. Mussolini avrebbe accettato l’iniziale proposta anglo-francese ma Francia e Inghilterra la disattesero costringendo alle dimissioni i propri rappresentanti ufficiali, il Segretario di Stato per gli Affari Esteri inglese Samuel Hoare e il primo ministro francese Pierre Laval.
Vale la pena di ricordare che Laval appoggiava la politica di Mussolini nel Corno d’Africa in cambio di un impegno di aiuto in caso di aggressione tedesca alla Francia.
Intanto il 18 giugno dello stesso anno l’Inghilterra aveva segretamente concluso con la Germania nazista l'accordo navale bilaterale anglo-tedesco che faceva notevoli concessioni al riarmo navale della Germania, limitandone gli armamenti nei propri riguardi ma permettendo che essi superassero quelli di Francia e Italia, che erano state potenza vincitrici nel precedente conflitto.
Questa era la situazione politica generale al momento in cui si andava determinando l’avvio dell’impresa africana. Probabilmente se gli accordi fra Italia, Francia e Inghilterra fossero andati a buon fine lo stesso imperatore etiopico avrebbe accettato un piano che avrebbe posto fine alla guerra appena iniziata, soddisfatto l'Italia con l’acquisizione dei territori del Tigrai e Ogaden, lasciando all'Abissinia un territorio nazionale più facilmente governabile nell’ambito di una collaborazione economica con l’Italia.

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