venerdì 28 novembre 2014

Come e perché l’Inghilterra decise la fine delle Due Sicilie

La vera storia della spedizione dei mille

 

Come e perché l’Inghilterra decise la fine delle Due Sicilie


di Angelo Forgione
per napoli.com 


La spedizione garibaldina, per la storiografia ufficiale, ha il sapore di un’avventura epica quasi cinematografica, compiuta da soli mille uomini che salpano all’improvviso da nord e sbarcano a sud, combattono valorosamente e vincono più volte contro un esercito molto più numeroso, poi risalgono la penisola fino a giungere a Napoli, Capitale di un regno liberato da una tirannide oppressiva, e poi più su per dare agli italiani la nazione unita.
Troppo hollywoodiano per essere vero, e difatti non lo è. La spedizione non fu per niente improvvisa e spontanea ma ben architettata, studiata a tavolino nei minimi dettagli e pianificata dalle massonerie internazionali, quella britannica in testa, che sorressero il tutto con intrighi politici, contributi militari e cospicui finanziamenti coi quali furono comprati diversi uomini chiave dell’esercito borbonico al fine di spianare la strada a Garibaldi che agli inglesi non mancherà mai di dichiarare la sua gratitudine e amicizia.
I giornali dell’epoca, ma soprattutto gli archivi di Londra, Vienna, Roma, Torino e Milano e, naturalmente, Napoli forniscono documentazione utile a ricostruire il vero scenario di congiura internazionale che spazzò via il Regno delle Due Sicilie non certo per mano di mille prodi alla ventura animati da un ideale unitario.
Il Regno britannico, con la sua politica imperiale espansionistica che tanti danni ha fatto nel mondo e di cui ancora oggi se ne pagano le conseguenze (vedi conflitto israelo-palestinese), ebbe più di una ragione per promuovere la fine di quello napoletano e liberarsi di un soggetto politico-economico divenuto scomodo concorrente.
Innanzitutto furono i sempre più idilliaci rapporti tra il Regno delle Due Sicilie e lo Stato Pontificio a generare l’astio di Londra. La massoneria inglese aveva come priorità politica la cancellazione delle monarchie cattoliche e la cattolica Napoli era ormai invisa alla protestante e massonica Londra che mirava alla cancellazione del potere papale. I Borbone costituivano principale ostacolo a questo obiettivo che coincideva con quello dei Savoia, anch’essi massoni, di impossessarsi dei fruttuosi possedimenti della Chiesa per risollevare le proprie casse. Massoni erano i politici britannici Lord Palmerston, primo ministro britannico, e Lord Gladstone, gran denigratore dei Borbone. E massoni erano pure Vittorio Emanuele II, Garibaldi e Cavour.
In questo conflittuale scenario di potentati, la nazione Napoletana percorreva di suo una crescita esponenziale ed era già la terza potenza europea per sviluppo industriale come designato all’Esposizione Internazionale di Parigi del 1856. Un risultato frutto anche della politica di Ferdinando II che portò avanti una politica di sviluppo autonomo atto a spezzare le catene delle dipendenze straniere.
La flotta navale delle Due Sicilie costituiva poi un pericolo per la grande potenza navale inglese anche e soprattutto in funzione dell’apertura dei traffici con l’oriente nel Canale di Suez i cui scavi cominciarono proprio nel 1859, alla vigilia dell’avventura garibaldina.
L’integrazione del sistema marittimo con quello ferroviario, con la costruzione delle ferrovie nel meridione con cui le merci potessero viaggiare anche su ferro, insieme alla posizione d’assoluto vantaggio del Regno delle Due Sicilie nel Mediterraneo rispetto alla più lontana Gran Bretagna, fu motivo di timore per Londra che già non aveva tollerato gli accordi commerciali tra le Due Sicilie e l’Impero Russo grazie ai quali la flotta sovietica aveva navigato serenamente nel Mediterraneo, avendo come basi d’appoggio proprio i porti delle Due Sicilie.
Proprio il controllo del Mediterraneo era una priorità per la “perfida Albione” che si era impossessata di Gibilterra e poi di Malta, e mirava ad avere il controllo della stessa Sicilia quale punto più strategico per gli accadimenti nel mediterraneo e in oriente. L’isola costituiva la sicurezza per l’indipendenza Napolitana e in mano agli stranieri ne avrebbe decretata certamente la fine, come fece notare Giovanni Aceto nel suo scritto “De la Sicilie et de ses rapports avec l’Angleterre”.
La presenza inglese in Sicilia era già ingombrante e imponeva coi cannoni a Napoli il remunerativo monopolio dello zolfo di cui l’isola era ricca per i quattro quinti della produzione mondiale; con lo zolfo, all’epoca, si produceva di tutto ed era una sorta di petrolio per quel mondo. E come per il petrolio oggi nei paesi mediorientali, così allora la Sicilia destava il grande interesse dei governi imperialisti.
I Borbone, in questo scenario, ebbero la colpa di non fare tesoro della lezione della Rivoluzione Francese, di quella Napoletana del 1799 e di quelle a seguire, di considerarsi insovvertibili in Italia e di non capire che il pericolo non era da individuare nella penisola ma più in la, che nemico era alle porte, anzi, proprio in casa. Il Regno di Napoli e quello d’Inghilterra erano infatti alleati solo mezzo secolo prima, ma in condizione di sfruttamento a favore del secondo per via dei considerevoli vantaggi commerciali che ne traeva in territorio duosiciliano. Fu l’opera di affrancamento e di progressiva riduzione di tali vantaggi da parte di Ferdinando II a rompere l’equilibrio e a suscitare le cospirazioni della Gran Bretagna che si rivelò così un vero e proprio cavallo di Troia. Per questo fu più comodo per gli inglesi “cambiare” l’amicizia ormai inimicizia con lo stato borbonico con un nuovo stato savoiardo alleato.
Questi furono i motivi principali che portarono l’Inghilterra a stravolgere gli equilibri della penisola italiana, propagandando idee sul nazionalismo dei popoli e denigrando i governi di Russia, Due Sicilie e Austria. La mente britannica armò il braccio piemontese per il quale il problema urgente era quello di evitare la bancarotta di stampo bellico accettando l’opportunità offertagli di invadere le Due Sicilie e portarne a casa il tesoro.
Un titolo sul “Times” dell’epoca, pubblicato già prima della morte di Ferdinando II, è foriero di ciò che sta per accadere e spiega l’interesse imperialistico inglese nelle vicende italiane. “Austria e Francia hanno un piede in Italia, e l’Inghilterra vuole entrarvi essa pure”.
Lo sbarco a Marsala e l’invasione del Regno delle Due Sicilie sono a tutti gli effetti un “gravissimo atto di pirateria internazionale”, compiuto ignorando tutte le norme di Diritto Internazionale, prima fra tutte quella che garantisce il diritto all’autodeterminazione dei popoli. Il fatto che nessuna nazione straniera abbia mosso un dito mentre avveniva e si sviluppava fa capire quale sia stata la predeterminazione di un atto così grave.
Garibaldi è un burattino in mano a Vittorio Emanuele II Cavour, l’unico che può compiere questa invasione senza dichiarazione non essendo né un sovrano né un politico. E viene manovrato a dovere dal conte piemontese, dal Re di Sardegna e dai cospiratori inglesi, fin quando non diviene scomodo e arriva il momento di costringerlo a farsi da parte.
Di soldi, nel 1860, ne circolano davvero parecchi per l’operazione. Si parla di circa tre milioni di franchi francesi solo in Inghilterra, denaro investito per comprare il tradimento di chi serve allo scopo, ma anche armi, munizioni e navi. A Londra nasce il “Garibaldi Italian Fund Committee”, un fondo utile ad ingaggiare i mercenari che devono formare la “Legione Britannica”, uomini feroci che aiuteranno il Generale italiano nei combattimenti che verrano.
Garibaldi diviene un eroe in terra d’Albione con una popolarità alle stelle. Nascono i “Garibaldi’s gadgets”: ritratti, composizioni musicali, spille, profumi, cioccolatini, caramelle e biscotti, tutto utile a reperire fondi utili all’impresa in Italia.
In realtà, alla vigilia della spedizione dei mille, tutti sanno cosa sta per accadere, tranne la Corte e il Governo di Napoli ai quali “stranamente” non giungono mai quei telegrammi e quelle segnalazioni che vengono inviate dalle ambasciate internazionali. In Sicilia invece, ogni unità navale ha già ricevuto le coordinate di posizionamento nelle acque duosiciliane.
La traversata parte da Quarto il 5 Maggio 1860 a bordo della “Lombardo” e della “Piemonte”, due navi ufficialmente rubate alla società Rubattino ma in realtà fornite favorevolmente dall’interessato armatore genovese, amico di Cavour. Garibaldi non sa neanche quanta gente ha a bordo, non è una priorità far numero; se ne contano 1.089 e il Generale resta stupito per il numero oltre le sue stime. Sono persone col pedigree dei malavitosi e ne farà una raccapricciante descrizione lo stesso Garibaldi. Provengono da Milano, Brescia, Pavia, Venezia e più corposamente da Bergamo, perciò poi detta “città dei mille”. Ci sono anche alcuni napoletani, calabresi e siciliani, 89 per la precisione, proprio quelli sfrattati dalla toponomastica delle città italiane.

La rotta non è casuale ma già stabilita, come il luogo dello sbarco. Marsala non è la terra scorta all’orizzonte ma il luogo designato perché li c’è una vastissima comunità inglese coinvolta in grandi affari, tra cui la viticoltura.
Il 10 Maggio, alla vigilia dello sbarco, l’ammiragliato inglese a Londra dà l’ordine ai piroscafi bellici “Argus” e “Intrepid”, ancorati a Palermo, di portarsi a Marsala; ufficialmente per proteggere i sudditi inglesi ma in realtà con altri scopi. Ci arrivano infatti all’alba del giorno dopo e gettano l’ancora fuori a città col preciso compito di favorire l’entrata in rada delle navi piemontesi. Navi che arrivano alle 14 in punto, in pieno giorno, e questo dimostra quanta sicurezza avessero i rivoltosi che altrimenti avrebbero più verosimilmente scelto di sbarcare di notte.
L’approdo avviene proprio dirimpetto al Consolato inglese e alle fabbriche inglesi di vini “Ingham” e “Whoodhouse” con le spalle coperte dai piroscafi britannici che, con l’alibi della protezione delle fabbriche, ostacolano i colpi di granate dell’incrociatore napoletano “Stromboli”, giunto sul posto insieme al piroscafo “Capri” e la fregata a vela “Partenope”.
Le trattative che si intavolano fanno prendere ulteriore tempo ai garibaldini e sortiscono l’effetto sperato: I “mille” sbarcano sul molo. Ma sono in 776 perché i veri repubblicani, dopo aver saputo che si era andati a liberare la Sicilia in nome di Vittorio Emanuele II, si sono fatti sbarcare a Talamone, in terra toscana. Contemporaneamente sbarcano dall’Intrepid dei marinai inglesi anch’essi di rosso vestiti che si mischiano alle “camicie rosse”, in modo da impedire ai napoletani di sparare.
Napoli invia proteste ufficiali a Londra per la condotta dei due bastimenti inglesi ma a poco serve.
Garibaldi e i suoi sbarcano nell’indifferenza dei marsalesi e la prima cosa che fanno è saccheggiare tutto ciò che è possibile.
Il 13 Maggio Garibaldi occupa Salemi, stavolta nell’entusiasmo perché il barone Sant’Anna, un uomo potente del posto, si unisce a lui con una banda di “picciotti”. Da qui si proclama “dittatore delle Due Sicilie” nel nome di Vittorio Emanuele II, Re d’Italia”.
Il 15 Maggio è il giorno della storica battaglia di Calatafimi. I mille sono ora almeno il doppio; vi si uniscono “picciotti” siciliani, inglesi e marmaglie insorte, e sfidano i soldati borbonici al comando del Generale Landi. La storiografia ufficiale racconta di questo conflitto come di un miracolo dei garibaldini ma in realtà si tratta del risultato pilotato dallo stesso Generale borbonico, un corrotto accusato poi di tradimento.
I primi a far fuoco sono i “picciotti” che vengono decimati dai fucili dei soldati Napoletani.
Il Comandante borbonico Sforza, con i suoi circa 600 uomini, assalta i garibaldini rischiando la sua stessa vita e mentre il Generale Nino Bixio chiede a Garibaldi di ordinare la ritirata il Generale Landi, che già ha rifiutato rinforzi e munizioni a Sforza scongiurando lo sterminio delle “camicie rosse”, fa suonare le trombe in segno di ritirata. Garibaldi capisce che è il momento di colpire i borbonici in fuga e alle spalle, compiendo così il “miracolo” di Calatafimi. Una battaglia che avrebbe potuto chiudere sul nascere l’avanzata garibaldina se non fosse stato per la condotta di Landi che fu accusato di tradimento dallo stesso Re Francesco II e confinato sull’isola d’Ischia; non a torto perché poi un anno più tardi, l’ex generale di brigata dell’esercito borbonico e poi generale di corpo d’armata dell’esercito sabaudo in pensione, si presenta al Banco di Napoli per incassare una polizza di 14.000 ducati d’oro datagli dallo stesso Garibaldi ma scopre che sulla sua copia, palesemente falsificata, ci sono tre zeri di troppo. Landi, per questa delusione, è colpito da ictus e muore.
Garibaldi, ringalluzzito per l’insperata vittoria di Calatafimi, s’inoltra nel cuore della Sicilia mentre le navi inglesi, sempre più numerose, ne controllano le coste con movimenti frenetici. In realtà la flotta inglese segue in parallelo per mare l’avanzata delle camicie rosse su terra per garantire un’uscita di sicurezza.
Intanto sempre gli inglesi fanno arrivare in Sicilia corposi rinforzi, armi e danari per i rivoltosi e preziose informazioni da parte di altri traditori vendutisi all’invasore per fare del Sud una colonia. Le banche di Londra sono piene di depositi di cifre pagate come prezzo per ragguagli sulla dislocazione delle truppe borboniche e di suggerimenti dei generali corruttibili, così come di tante altre importantissime informazioni segrete.
Garibaldi entra a Palermo e poi arriva a Milazzo ormai rafforzato da uomini e armi moderne e l’esito della battaglia che li si combatte, a lui favorevole, é prevalentemente dovuto all’equipaggiamento individuale dei rivoltosi che hanno ricevuto in dotazione persino le carabine-revolver americane “Colt” e il fucile rigato inglese modello “Enfield ‘53”.
Quando l’eroe dei due mondi passa sul territorio peninsulare, le navi inglesi continuano a scortarlo dal mare e anche quando entra a Napoli da Re sulla prima ferrovia italiana ha le spalle coperte dall’Intrepid (chi si rivede) che dal 24 Agosto, insieme ad altre navi britanniche, si muove nelle acque napoletane.

Il 6 Settembre, giorno della partenza di Francesco II e del concomitante arrivo di Garibaldi a Napoli in treno, il legno britannico sosta vicino alla costa, davanti al litorale di Santa Lucia, da dove può tenere sotto tiro il Palazzo Reale. Una presenza costante e incombente, sempre minacciosa per i borbonici e rassicurante per Garibaldi, una garanzia per la riuscita dell’impresa dei “più di mille”. l’Intrepid lascia Napoli il 18 Ottobre 1860 per tornare definitivamente in Inghilterra dando però il cambio ad altre navi inglesi, proprio mentre Garibaldi, “dittatore di Napoli”, dona agli amici inglesi un suolo a piacere che viene designato in Via San Pasquale a Chiaia su cui viene eretta quella cappella protestante che Londra aveva sempre voluto costruire per gli inglesi di Napoli ma che i Borbone non avevano mai consentito di realizzare. Lo stesso accadrà a Palermo nel 1872.
Qualche mese dopo, la città di Gaeta che ospita Francesco II nella strenua difesa del Regno è letteralmente rasa al suolo dal Generale piemontese Cialdini, pagando non solo il suo ruolo di ultimo baluardo borbonico ma anche e soprattutto l’essere stato nel 1848 il luogo del rifugio di Papa Pio IX, ospite dei Borbone, in fuga da Roma in seguito alla proclamazione della Repubblica Romana ad opera di Giuseppe Mazzini, periodo in cui la città assunse la denominazione di “Secondo Stato Pontificio”.
Scompare così l’antico Regno di Ruggero il Normanno sopravvissuto per quasi otto secoli, non a caso nel momento del suo massimo fulgore.
Dieci anni dopo, nel Settembre 1870, la breccia di Porta Pia e l’annessione di Roma al Regno d’Italia decreta la fine anche dello Stato Pontificio e del potere temporale del Papa, portando a compimento il grande progetto delle massonerie internazionali nato almeno quindici anni prima, volto a cancellare la grande potenza economico-industriale del Regno delle Due Sicilie e il grande potere cattolico dello Stato Pontificio. Il Vaticano, proprio da qui si mondanizza per sopravvivenza e comincia ad affiancarsi alle altre supremazie mondiali che hanno cercato di eliminarlo.
Garibaldi, pochi anni dopo la sua impresa, è ospite a Londra dove viene accolto come un imperatore. I suoi rapporti con l’Inghilterra continuano per decenni e si manifestano nuovamente quando, intorno alla metà del 1870, il Generale è impegnato nell’utopia della realizzazione di un progetto faraonico per stravolgere l’aspetto di Roma: il corso del Tevere entro Roma completamente colmato con un’arteria ferroviaria contornata da aree fabbricabili. Da Londra si tessono contatti con società finanziarie per avviare il progetto ed arrivano nella Capitale gli ingegneri Wilkinson e Fowler per i rilievi e i sondaggi. È pronta a realizzare la remunerativa follia la società britannica Brunless & McKerrow che non vi riuscirà mai perché il progetto viene boicottato del Governo italiano.
L’ideologia nazionale venera i “padri della patria” che operarono il piano internazionale, dimenticando tutto quanto di nefasto si raccontasse di Garibaldi, un avventuriero dal passato poco edificante. L’Italia di oggi festeggia un uomo condannato persino a “morte ignominiosa in contumacia” nel 1834 per sentenza del Consiglio di Guerra Divisionale di Genova perché nemico della Patria e dello Stato, motivo per il quale fuggì latitante in Sud America dove diede sfogo a tutta la sua natura selvaggia.
In quanto a Cavour, al Conte interessava esclusivamente ripianare le finanze dello Stato piemontese, non certo l’unità di un paese di cui non conosceva neanche la lingua, così come Vittorio Emanuele II primo Re d’Italia, benché non a caso secondo di nome nel solco di una continuazione della dinastia sabauda e non italiana. Non a caso il 21 Febbraio 1861, nel Senato del Regno riunito a Torino, il nuovo Re d’Italia fu proclamato da Cavour «Victor-Emmanuel II, Roi d’Italie», non Re d’Italia.

 

http://www.informarmy.com/2014/04/come-e-perche-linghilterra-decise-la.html

martedì 25 novembre 2014

"QUEL PAZZO DI MUSSOLINI CHE CI PORTO’ IN GUERRA"


di Maurizio Barozzi

Questa frase, magari senza l’aggettivo “pazzo”, la sentiamo spesso anche da imbecilli di destra, secondo i quali se l’Italia restava neutrale, chissà quali vantaggi avrebbe avuto (ovviamente a questi dementi non gliene frega niente della fine che avrebbe fatto il fascismo, tanto per loro il fascismo poteva essere come Franco in Spagna e il suo lercio regime al servizio di capitalisti e preti).

VEDIAMO ALLORA DA UN PUNTO DI VISTA STORICO E STRATEGICO SE VERAMENTE L’ITALIA POTEVA RESTARE NEUTRALE IN UNA GUERRA CHE BEN PRESTO DIVENNE MONDIALE.


Per arrivare ad elementari conclusioni non c’è neppure bisogno di aver frequentato l’Accademia di studi strategici, basterebbero anche un poco di cognizioni storiche. Vediamo.

Al momento di entrare in guerra , 10 giugno 1940, l’Italia si trovava in una condizione di non belligeranza, resa obbligata dalla nostra deficienza militare e finanziaria. Ma fino a quando poteva durare, in una guerra che i tedeschi stavano mostrando di vincere clamorosamente dopo il crollo della Francia? 

Di fatto, i tedeschi, dopo essere arrivati al Brennero, erano arrivati anche nel Tirreno ed era sparita l’antemurale francese. 
E tutto questo per noi non era positivo, ed ovviamente peggio ancora in caso di vittoria degli inglesi, che consideravano il Mediterraneo un loro lago, e avremmo chiuso i nostri progetti in Africa., terreno imperiale riserva di caccia britannica.

Tralasciamo gli aspetti ideologici, che in guerra sono spesso secondari, e consideriamo che l’Italia, una piccola potenza nel Mediterraneo, agganciata anche nel continente ai suoi confini del nord e nord est, con interessi in Africa, poteva solo sperare che in Europa rimanessero in piedi certi equilibri, quel balance of power, affinchè nè tedeschi , nè inglesi, vincessero in modo totale. 
Era per questo che Mussolini da Stresa a Monaco si era sempre battuto per evitare la guerra.

Considerando il suo schieramento nell’Asse con i tedeschi, l’Italia oltre a questo equilibrio doveva anche augurarsi che inglesi e tedeschi non conseguissero quell’accordo totale che Hitler invitava sempre i britannici a sottoscrivere. 
Quell’accordo, per le leggi storiche, non poteva che essere per noi negativo in quanto tutti i nostri interessi geopolitici erano in contrasto con quelli britannici.

Come riferì Giuseppe Bottai, così Mussolini aveva riassunto la nostra situazione:
"Qui ci sono due imperi in lotta, due leoni. Non abbiamo interesse che stravinca nessuno dei due. Se vincesse l’Inghilterra, non ci lascerebbe che il mare per fare i bagni. Se vincesse la Germania, ne sentiremmo il peso. Si può desiderare che i due leoni si sbranino, fino a lasciare a terra le code, e caso mai, andare a raccoglierle".
Ma se questi erano gli aspetti geopolitici, ben peggio stava la situazione sul piano strategico.

SI FACCIA ATTENZIONE.
PREMESSO il considerare che la guerra si sarebbe estesa, coinvolgendo altre nazioni e gli Stati uniti, come poi avvenne, si tenga presente che il nostro paese è come una portaerei nel mediterraneo, con cui si controllano le rotte con l’Africa, mentre il nostro territorio si aggancia al Reich, nel suo “ventre molle”, ovvero risalendo la nostra penisola con delle forze corrazzate si potevano avere buone probabilità di sfondare il fronte verso la Germania. 
A questo si aggiunga che occupando i nostri aeroporti sarebbe stato possibile bombardare la Germania come infatti avvenne dal 1943 non appena gli anglo americani occuparono l’Italia del Sud. 

QUESTO PER DIRE CHE PROSEGUENDO ED ESTENDENDOSI LA GUERRA GLI ALLEATI AVREBBERO SICURAMENTE CERCATO DI OCCUPARE IL NOSTRO TERRITORIO, SENZA PENSARCI DUE VOLTE, E I TEDESCHI, PER IL MOTIVO OPPOSTO AVREBBERO DOVUTO CERCARE DI PRECEDERLI. 

Un pò quello che era accaduto con la Norvegia e la gara a chi la occupava prima.


Questa situazione la espose magnificamente Mussolini con un riservato “Memoriale panoramico al Re” del 31 marzo 1940, dove scrisse:

"…Se la guerra continua credere che l’Italia possa rimanere estranea fino alla fine è assurdo e impossibile. 
L’Italia non è accantonata in un angolo di Europa come la Spagna, non è semi asiatica come la Russia, non è lontana dai teatri di operazione come il Giappone o gli Stati Uniti; l’Italia è in mezzo ai belligeranti, tanto in terra, quanto in mare. 
Anche se l’Italia cambiasse atteggiamento e passasse armi e bagagli ai franco-inglesi, essa non eviterebbe la guerra immediata con la Germania, guerra che l’Italia dovrebbe sostenere da sola.... 
L’Italia non può rimanere neutrale per tutta la guerra, senza dimissionare dal suo ruolo, senza squalificarsi, senza ridursi al livello di un Svizzera moltiplicata per dieci.
Il problema non è quindi sapere se l’Italia entrerà in guerra o non entrerà in guerra, perché l’Italia non potrà fare a meno di entrare in guerra. 
Si tratta soltanto di sapere quando e come: si tratta di ritardare il più a lungo possibile, compatibilmente con l’onore e la dignità, la nostra entrata in guerra: a) per prepararci in modo tale che il nostro intervento determini la decisione; b) perché l’Italia non può fare una guerra lunga, non può cioè spendere centinaia di miliardi, come sono costretti a fare i paesi attualmente belligeranti".

Quindi Mussolini affermava che, escluso un nostro voltafaccia dell’alleanza con i tedeschi, non ci rimaneva che la possibilità di una “guerra parallela” con la Germania ed in funzione dei nostri interessi da riassumere in questi obiettivi:
"Libertà sui mari, finestra sull’oceano, L’Italia non sarà mai una nazione indipendente sino a quando avrà a sbarre della sua prigione mediterranea la Corsica, Biserta, Malta e, a mura della stessa prigione, Gibilterra e Suez. Risolto il problema della frontiere terrestri, se l’Italia vuole essere una Potenza veramente mondiale deve risolvere il problema delle sue frontiere marittime: la stessa sicurezza dell’Impero è legata alla soluzione di questo problema".

Come sappiamo Mussolini disse che inizialmente aveva previsto l’ingresso in campo dell’Italia all’incirca per la primavera del 1941, ma poi l’incalzare delle vicende belliche travolse ogni previsione e Mussolini fu costretto ad anticipare il progettato intervento per il settembre di quello stesso anno, ma adesso: 

"La situazione attuale non permette ulteriori indugi, perché altrimenti noi corriamo dei pericoli maggiori di quelli che avrebbero potuto essere provocati con un intervento prematuro... D’altra parte se tardassimo due settimane o un mese, non miglioreremmo la nostra situazione, mentre potremmo dare alla Germania l’impressione di arrivare a cose fatte, quando il rischio è minimo...".
Chi, ancora oggi, di fronte all’evidenza dei fatti, accusa Mussolini di megalomania e avventatezza, dovrebbe invece riflettere che le decisioni di Mussolini furono tutte ponderate, soppesate e impostate sull’eccesso di prudenza, addirittura a scapito della stessa opinione pubblica della nazione.


Nella primavera 1940 un rapporto riservato dell’OVRA, aveva infatti rilevato che opinione pubblica e classi dirigenti, avevano tutti il timore di “arrivare tardi”, a cose fatte, di perdere prestigio e posizioni (e ovviamente affari e interessi). 

Anche Vittorio Emanuele III confidava al suo aiutante di campo, generale Puntoni, che “Il più delle volte gli assenti hanno torto” e non lesinava neppure qualche battuta sul troppo esitante Mussolini.

Solo Mussolini, invece, di fronte ai fenomenali successi tedeschi, e nonostante l’intensificarsi delle provocazioni britanniche ai nostri danni, pur con la pressione “guerrafondaia” montante nel paese, cercava di rimanere il più razionale possibile.

Eppure a causa del blocco navale inglese ai nostri danni il presidente della Montecatini Guido Donegani era corso a Roma a sottolineare come la sospensione dei rifornimenti di carbone stava per causare l’arresto dell’industria determinando la catastrofe nella produzione e serie conseguenze sociali.

"Tra poco i cannoni spareranno da soli" inveì Mussolini, ed aggiunse costernato: 
"non è possibile che io, proprio io, sia diventato il ludibrio dell’Europa. Non faccio che subire umiliazioni".

Quando poi i travolgenti successi tedeschi in Francia stavano ubriacando tutti gli italiani il Duce così, significativamente, confidò a suo figlio Vittorio:

"Adesso tutti desiderano sparare il primo colpo di fucile. Il Re, lo Stato Maggiore, i gerarchi. Per quanto paradossale sembri, l’unico pacifista sono rimasto io, io solo!". 

Il 30 maggio, infine, Mussolini comunicava a Hitler la decisione di entrare in guerra.

Mussolini, aveva fatto il possibile per evitare la guerra, ma non perché non la ritenesse necessaria o non la volesse, sapeva bene che la guerra in certe situazioni è inevitabile, ma nel fare necessità virtù, come venne notato, cercò di applicare la furbizia di Bertoldo che accettò di essere impiccato a patto di scegliere lui stesso l’albero: che ovviamente non trovava mai. E così Mussolini, conveniva di entrare in guerra a patto di scegliere lui il momento, nella speranza che questo momento non avesse dovuto mai trovarlo.

IN CONCLUSIONE, PENSATECI SEMPRE DIECI VOLTE PRIMA DI ACCUARE MUSSOLINI DI AVERCI ROVINATO CON LA GUERRA

Le SS e la questione meridionale


Il rapporto sulla situazione interna dell’Italia fascista prima della guerra fu redatto dal colonnello Likus delle SS, funzionario del ministero degli Esteri alle dirette dipendenze di Ribbentrop, e fu scritto in italiano perché molto probabilmente doveva esser letto da Mussolini in persona (per quanto riguarda le vicende del rapporto e il personaggio di Likus, cfr. “Storia illustrata”, n.270, maggio 1980, pp. 13-14). Likus, come già detto, aveva un giudizio molto positivo sul popolo meridionale e per caratteristiche antropologiche e culturali lo riteneva del tutto uguale al popolo del resto d’Italia. La differenza però esisteva “nei ceti medi e nei dirigenti, gli unici che abbiano quei difetti che si imputano all’intero popolo (del Sud)”. “I benestanti e i dirigenti – afferma il colonnello – risentono dei costumi lasciati prima dagli angioini, poi dagli spagnoli: mancano di senso sociale e di responsabilità, di cultura e di onestà. Essi sono i maggiori denigratori del loro popolo, che taglieggiano volendo vivere senza far nulla”.

Anche i Borbone, secondo Likus, avrebbero avuto la loro parte di responsabilità nel tollerare le malefatte della classe dirigente meridionale. Ma questo, atteso quanto si è detto, non può esser condiviso per intero. Bisogna aggiungere che già gli Aragonesi avevano combattuto energicamente lo strapotere baronale nel XV secolo; che Carlo III di Borbone aveva contro di esso mobilitato tutte le risorse del dispotismo illuminato; che Ferdinando IV non aveva esitato a incamerare buona parte dei beni ecclesiastici, per creare quella Cassa Sacra che sarebbe servita a riparare le enormi distruzioni causate in Calabria dal terremoto catastrofico del 1783. Con ciò aveva intaccato il potere dei preti, che avevano nella classe dirigente delle Due Sicilie un ruolo rilevante quanto quello baronale. Da considerare anche il disprezzo che Ferdinando II nutriva, con rare eccezioni, verso gli aristocratici del regno. Quando si arrabbiava con loro, si racconta che si esprimesse con un gioco di parole che opponeva alla tracotanza aristocratica la minaccia di farsi giacobino: “Fo tutti baroni”, diceva stizzito. Non poteva poi assolutamente sopportare la genia dei “paglietti”, che erano gli avvocati napoletani, tutti per lui liberali e massoni incalliti, mestatori della peggior risma che si servivano della giurisprudenza non certo al servizio della vera giustizia. In realtà Ferdinando, con tutta la sua buona volontà, non poteva eliminare la tendenza alla sopraffazione e all’intrigo che era comune alla classe dirigente di tutta l’Italia, e non solo. Likus riconosce ciò che il fascismo aveva fatto per la modernizzazione del Sud: “Dove è sorta un’industria ben guidata sono anche cresciute maestranze intelligenti, capaci, oneste, laboriose e pulite. Il problema quindi è di creare delle gerarchie che non siano locali. Purtroppo il Duce è caduto nell’errore di alimentare l’immissione dei meridionali nella burocrazia. E’ notevole il caso della Sicilia, dove prefetti, magistrati, gerarchie sonno tutti siciliani”. Infine Likus nota amaramente che “attualmente il direttorio del partito è nella maggioranza meridionale”, e ciò ha causato “quelle deficienze che hanno minato l’opera del fascismo”.

fonte: rinascita

sabato 22 novembre 2014

Mussolini La Svizzera e la prima militanza

FOTO del 1902
Fino a novembre visse in Svizzera, spostandosi di città in città e svolgendo lavori occasionali, tra cui il garzone di una bottega di vini a Losanna. Venne espulso due volte dal paese: il 18 giugno1903 fu arrestato a Berna come agitatore socialista, trattenuto in carcere per 12 giorni, e poi espulso il 30 giugno dal Canton Berna, mentre il 9 aprile 1904 venne incarcerato per 7 giorni a Ginevra a causa del permesso di soggiorno falsificato, per poi essere espulso una settimana dopo dal Canton Ginevra.[17] Nel frattempo ricevette anche una condanna a un anno di carcere per renitenza alla leva militare. Venne protetto da alcuni socialisti e anarchici del Canton Ticino, tra cui Giacinto Menotti Serrati e Angelica Balabanoff, con la quale avviò una relazione sentimentale.[18] Nel periodo in cui Mussolini risiedette in Svizzera, abitò a Savosa, comune periferico a nord di Lugano, e partecipò al consolidamento dei muri sulla strada di Trevano, sulla Cassarate-Monte Brè e soprattutto alla costruzione della ferrovia Lugano-Tesserete.
Foto segnaletica di Mussolini nel periodo svizzero (1903), quando fu arrestato dalla polizia elvetica perché sprovvisto di documento d'identità. Il cartello riporta l'erronea dicituraMussolini Benedetto.
In Svizzera Mussolini ebbe la possibilità di avvicinarsi a Vilfredo Pareto, frequentandone le lezioni all'Università di Losanna, dove l'economista italo-francese insegnò per alcuni anni. Pareto (che definirà Mussolini "un grande statista")[19]inciterà il suo allievo a prendere il potere e organizzare la Marcia su Roma (inviando un telegramma dalla Svizzera in cui si diceva «ora o mai più»).[20][21] Mussolini utilizzò le idee di Pareto per rivedere la sua adesione al socialismo.
Sempre in Svizzera Mussolini collaborò con periodici locali d'ispirazione socialista (tra cui il Proletario) e inviò corrispondenze al giornale milanese l'Avanguardia socialista. L'attività di giornalista rese evidente sin dai suoi primi scritti l'avversione ideologica al positivismo, allora predominante nel socialismo italiano; Mussolini prese subito posizione contro questo orientamento e si schierò con l'ala rivoluzionaria del partito socialista, capeggiata da Arturo Labriola. Con il passare degli anni Mussolini sviluppa una sempre più aspra avversione verso i riformisti, tentando di diffondere e di imporre all'intero movimento socialista la propria concezione rivoluzionaria.[22] È in questo periodo che mostrò le maggiori affinità ideologiche con il sindacalismo rivoluzionario. Dalle discussioni con il pastoreevangelico Alfredo Taglialatela, Mussolini trasse una conclusione negativa sul problema dell'esistenza di Dio, sul quale tornò a riflettere molti anni dopo. Le sue opinioni saranno in seguito raccolte nell'opuscolo L'uomo e la divinità, una breve dissertazione sui motivi per i quali bisognerebbe negare l'esistenza di Dio.
Mussolini in questo periodo studiò assiduamente il francese e cercò di imparare il tedesco, avvalendosi in quest'ultimo caso dell'aiuto della Balabanoff.

venerdì 21 novembre 2014

L'illusione della democrazia moderna





Di Salvatore Santoru


Sin dalla più tenera età siamo stati condizionati a credere ciecamente nel dogma moderno della democrazia.
Essa, ci viene detto, è la forma migliore e più adatta al funzionamento della società e del mondo, e oltre ad essa non esistono alternative.
Ora, basta una piccola riflessione per rendersi conto che la democrazia, o perlomeno il sistema democratico moderno dominante, non sia quella panacea che ci hanno fatto credere.

Questo non significa assolutamente portare avanti un messaggio antidemocratico o illiberale, tutt'altro.

Difatti, la cosiddetta democrazia per come ci viene presentata, è solo un'illusione.

Essa, per quanto si affermi basata sulla sovranità popolare, è in realtà fondata sul potere di diverse lobby, e quelle egemoni si può ben dire che dirigano il "teatrino".

Per quanto riguarda la sovranità popolare, si può ben dire che con l'attuale democrazia c'entri ben poco, a meno che con essa non si intenda solo il voto, che senza una reale e consapevole partecipazione di un popolo informato, risulta poco più che un rituale che ha perso la sua efficacia.

Come disse Charles Bukowski :

" La differenza tra dittatura e democrazia è che in democrazia prima si vota e poi si prendono ordini, in dittatura non dobbiamo sprecare il nostro tempo andando a votare " .



Il fatto è che la democrazia moderna, piuttosto che sulla sovranità popolare, è basata sulla massificazione e la medio-crità, tanto che sarebbe più coretto chiamarla "mediocrazia".

Tale "massificazione" non è altro che l'antitesi di una reale e funzionale democrazia, che dovrebbe essere fondata sul primato della qualità, la partecipazione, l'educazione e l'elevazione del popolo, mentre nelle moderni democrazie tutto è diretto verso il basso, e tutto ciò che tende ad elevarsi è visto negativamente.

Per dirla in altre parole, la democrazia moderna è fondata su un livellamento omologante e totalizzante, un livellamento indistinto dove per forza di cose prevale la quantità sulla qualità, la forma rispetto alla sostanza e il numero sull'individuo.

La massificazione ovviamente risulta una condizione favorevole per l'instaurarsi di forme di potere oligarchiche, essendo una massa confusa e indebolita interiormente facilmente manipolabile, al contrario di un popolo cosciente dei propri diritti e del proprio volere.


Difatti è ciò che avviene oggi: grazie alle continue illusioni e armi di distrazioni di massa ( oggi perlopiù mass media ) usate per perpetuare il mito di una "democrazia" che praticamente non esiste nella realtà, in modo assai facile i gruppi di potere egemoni consolidano e aumentano il loro potere.

D'altronde Edward Bernays, il famoso pubblicitario fondatore delle moderne pubbliche relazioni e considerato come uno dei fondatori del sistema consumista, disse :

" La manipolazione consapevole e intelligente delle opinioni e delle abitudini organizzate delle masse costituisce un importante elemento di una società democratica. Coloro i quali manipolano questo impercettibile meccanismo sociale formano un Governo invisibile che costituisce il vero potere esecutivo del Paese " .

Oggi più che mai, il regime democratico dominante non è più sostenibile, e urge il passaggio a una democrazia matura, fondata su una reale sovranità popolare e tesa a valorizzare e elevare i membri della comunità, piuttosto che dirigerli verso l'omologante massificazione,  come avviene oggi .