Durante la Repubblica Sociale, Mussolini
pensò di coronare il progetto - tenuto a bagnomaria durante il Regime - di
rivoluzionare il tessuto sociale ed economico italiano attraverso la cogestione
delle aziende. Nella RSI la socializzazione avanzò però a fatica, osteggiata da
ambienti dello stesso Fascismo, dagli industriali, dai tedeschi, dagli
antifascisti. Tuttavia alcuni passi vennero fatti creando precedenti clamorosi
- confinati nell’obblio nel dopoguerra - di collaborazione tra fascisti,
comunisti e socialisti. Esperienze che le stesse sinistre - ufficialmente
ostili alla socializzazione - cercarono di riproporre nel dopoguerra. Ma il
vento era ormai cambiato per sempre. –
di Stefano Fabei
Il caos assoluto in cui l'8 settembre 1943 si ritrovo
l'Italia costituì l'evento fondamentale di un processo storico che vide
sciogliersi i legami della società politica con la società civile, dello Stato
con la Nazione, determinando non solo la successiva divisione del Paese in due
parti, ma anche l'esplosione della guerra civile.
Il tragico momento costituì tuttavia per il Fascismo
l'occasione per rilanciare con maggior forza, nel territorio della Repubblica
Sociale Italiana, il progetto di rappresentare una “terza via” tra capitalismo e Comunismo: un ritorno alle
origini rivoluzionarie.
Nel mondo del lavoro la parola d’ordine fu “socializzazione”.
Il termine, emerso già nei primi mesi della RSI e nel
programma del Partito fascista repubblicano che nel novembre del 1943 aveva
tenuto a Verona il suo primo, e ultimo, congresso, fu in modo ufficiale
adottato, anche su sollecitazione di Nicola Bombacci, il 13 gennaio 1944,
quando il Consiglio dei ministri di Salo approvi una “Premessa fondamentale per la creazione della
nuova struttura dell'economia italiana”.
La repubblica del
Duce prevedeva la partecipazione integrale del popolo in modo organico e
permanente, alla vita dello Stato e il suo contributo “alla determinazione
delle direttive, degli istituti e degli atti idonei al raggiungimento dei fini
della Nazione con il suo lavoro, con la sua attività politica e sociale”.
Secondo il 12°punto
del Manifesto di Verona, in ogni azienda (industriale, privata, parastatale,
statale) le rappresentanze dei tecnici e degli operai avrebbero dovuto
cooperare - attraverso una conoscenza
diretta della gestione - alla fissazione dei salari, nonché “all'equa
ripartizione degli utili tra il fondo di riserva, il frutto al capitale
azionario e la partecipazione agli utili stessi per parte dei lavoratori”.
In alcune imprese ciò potrà avvenire con una estensione
delle prerogative delle attuali Commissioni di fabbrica. In altre, sostituendo
i Consigli di amministrazione con Consigli di gestione composti da tecnici e da
operai con un rappresentante dello Stato. In altre ancora, in forme di
cooperativa parasindacale.
A Pavolini
Era riconosciuta non solo
l'importanza del capitale “produttivo”, che investiva moneta per creare
l'impresa, ma anche quella di chi con il braccio e con la mente forniva
elementi altrettanto fondamentali per l'attività economica e sociale.
In sintesi: né
dominio della moneta, né espropri statali, bensì armonizzazione degli elementi
in un rapporto di condivisione delle responsabilità, e degli utili, affinché
nessuno si sentisse tanto superiore da ritenersi depositario del destino
dell'impresa e, di conseguenza, della Nazione.
Dopo aver dichiarato che la RSI assumeva la gestione diretta
di aziende che controllavano i settori essenziali per l'indipendenza economica
e politica del Paese, nonché di imprese fornitrici di materia prima o di
energia e di altri servizi indispensabili al regolare svolgimento della vita
economica nazionale, la sopra citata Premessa affermava senza possibilità di
equivoco che la gestione dell'azienda era socializzata.
Tutti i lavoratori avrebbero preso parte all'amministrazione
delle imprese a capitale pubblico tramite consigli di gestione, eletti da loro
stessi e avrebbero deliberato sia sulle questioni riguardanti la produzione nel
quadro del “piano unitario nazionale” sia sulla stessa “congrua” ripartizione
degli utili.
Per quanto riguardava le aziende a capitale privato, gli
organi di amministrazione sarebbero stati integrati da rappresentanti dei
lavoratori in un numero almeno pari a quello dei rappresentanti eletti
dall'assemblea degli azionisti.
Il 12 febbraio 1944
fu emanato il decreto sulla socializzazione delle imprese (pubblicato in
seguito, il 30 giugno, sulla Gazzetta Ufficiale) che limitava le aziende
private da socializzare a quelle con almeno un milione di capitale o almeno
cento operai.
In merito agli utili da ripartire, dopo le assegnazioni di
legge alla riserva e la costituzione di eventuali riserve speciali, era
approvata una remunerazione del capitale conferito all'impresa in una misura
non superiore a un massimo fissato ogni anno per i singoli settori produttivi
dal Comitato dei ministri per la tutela del risparmio e I 'esercizio del
credito.
Gli utili, detratte
queste assegnazioni, sarebbero stati ripartiti fra i lavoratori in rapporto
all'entità delle remunerazioni percepite durante I 'anno: questo compenso
non doveva comunque superare il 30 per cento del complesso delle retribuzioni
nette corrisposte ai lavoratori nel corso dell'esercizio.
Con il decreto suddetto era disposto inoltre il primato in
materia del ministro dell'Economia corporativa - il cui titolare, Angelo Tarchi, era espressione
della componente tecnocratica e mediatrice nei confronti degli ambienti
industriali, e quindi oppositore di coloro che auspicavano sia l'immediata
instaurazione dello Stato del lavoro, sia il pieno superamento del sistema
corporativo - tanto nell'immediato, con la supervisione dei nuovi statuti delle
diverse categorie di imprese, quanto, in prospettiva, mediante la facoltà di procedere
allo scioglimento dei consigli di gestione, di sostituire i vertici aziendali,
di controllare la fase di passaggio dalla gestione privatistica a quella
socializzata, e di commissariare le aziende di cui lo Stato ritenesse opportuno
assumere la proprietà.
Angelo Tarchi
Angelo Tarchi (1897-1974) Ministro dell'Economia Corporativa
Con il decreto del 12 febbraio 1944, la
Repubblica Sociale Italiana si proponeva di “stare con il popolo, superando
quell'andare verso il popolo” che era stato tipico del Regime.
Se alla socializzazione guardarono con simpatia alcuni
ambienti sindacalisti, sospetti e timori circa i suoi esiti e la sua rapida
applicazione furono, più o meno tacitamente espressi, dagli ambienti
conservatori.
Ciò spiega il ritardo con cui il decreto fu pubblicato sulla
“Gazzetta Ufficiale”, in contemporanea con il decreto che ne fissava al 30
giugno l’entrata in vigore.
Un terzo decreto, datato 30 agosto 1944, dettò norme per una
sua più sollecita attuazione.
Malgrado il luglio e
il 13 settembre fosse stata disposta la socializzazione delle aziende dell'IRI
e del settore dei giornali e dell'editoria, i primi effettivi cambiamenti si ebbero solo alla fine del 1944
Una settimana dopo l'ultimo bagno di folla ricevuto dal Duce
a Milano e il discorso al Lirico, fu pubblicato il 22 dicembre il decreto con
le norme attuative e integrative della socializzazione. Il documento, accogliendo
le ragioni dei sindacalisti, attribuiva maggiori poteri al sindacato, cui
spettava il compito di soprintendere alle elezioni interne alle aziende; ai
consigli di gestione, che potevano nominare il capo dell'impresa, convocare
riunioni del consiglio e presiederle in mancanza del capo dell'impresa; ai
rappresentanti dei lavoratori, nell'assemblea, non licenziabili né trasferibili
in dipendenza dell'attività svolta nell’esercizio della loro carica, Il 19
gennaio 1945 fu istituito il ministero del Lavoro, retto da Giuseppe Spinelli,
che prevedeva una Direzione generale per la socializzazione e assorbiva i
poteri del ministero dell'Economia corporativa.
Soppresso quest'ultimo, Tarchi passò a reggere il nuovo ministero della
Produzione industriale.
La Gazzetta Ufficiale del 26 gennaio 1945 pubblicò il
decreto sull’ordinamento della Confederazione generale del lavoro, della
tecnica e delle arti, creata il 20 dicembre 1943.
Questa doveva riunire
le precedenti confederazioni per superare lo sbloccamento del 1928, mentre a
fine dicembre del 1944 si era disposta la liquidazione delle confederazioni
padronali.
Mussolini a Milano
Dall'inizio dell'ultimo anno di guerra presso il ministero
del Lavoro si assistette a una frenetica attività socializzatrice.
Le aziende socializzate sarebbero state 76, con rz9 mila
dipendenti e 4.fl9 milioni di lire di capitale.
Ancora oggi poco si conosce
in merito all'effettiva applicazione dei provvedimenti.
Ciononostante è possibile affermare, perlomeno nel caso
della FIAT della maggioranza delle imprese socializzate, che la fine del Fascismo giunse prima che le misure
disposte per decreto dalle autorità repubblicane avessero un concreto impatto
sulle realtà aziendali sul piano della predisposizione di statuti e decreti
relativi alle singole imprese.
Il progetto di
socializzazione della RSI naufragò per vari motivi, oltre che per il
momento tardivo della sua messa in atto: determinanti furono le divergenze
interne allo Stato fascista repubblicano riguardo a misure che rimasero inerti
per molti mesi, in una situazione definita “rivoluzionaria”, ma tale più sul
piano delle parole che su quello dei fatti.
Decisive furono sia l’ostilità dei tedeschi, preoccupati per
le possibili conseguenze nel campo della produzione bellica, e desiderosi di
appropriarsi di macchine e materiali dell'industria italiana, sia la
contrarietà degli esponenti di quest’ultima, i quali boicottarono, anche grazie
ai legami con la grande industria germanica, i provvedimenti che pure fecero
finta di approvare, cercando di rinviarli quanto più possibile.
Se molti operai disertarono le elezioni delle Commissioni
interne, è anche vero che a esse guardarono con interesse e per vari motivi
certi ambienti della sinistra antifascista.
Alcuni esponenti di quest'ultima in esilio all'estero erano
rientrati in Italia, convinti che, liberato dai vincoli reazionari imposti dal
regime, il Fascismo potesse realizzare finalmente le sue pagine di politica
sociale più avanzata.
Era il momento della “politica dei ponti” che vedeva alcuni
antifascisti guardare con interesse alla repubblica del Duce; potremmo, fra i
tanti, citare a proposito i fratelli Bergamo, rientrati dalla Francia in nome
dei vecchi ideali sociali, repubblicani e antiborghesi.
Alcuni rivoluzionari di sinistra ritennero che la politica
delle “mine sociali” potesse qualificare agli occhi dei lavoratori l’ultimo
Fascismo.
A Terni nell'ultimo periodo della RSI, si assistette
all'elezione delle commissioni di fabbrica, da cui nel dopoguerra sarebbero
sorti i consigli di gestione, presi a modello dal più importante e
rappresentativo sindacato italiano, la CGIL.
Nella città umbra il Fascismo volle giocare la carta delle
commissioni interne abolite con il patto di Palazzo Vidoni (con il quale il 2
ottobre 1925 1l Regime aveva avocato a sé la rappresentanza sindacale con il
consenso di Confindustria, che da quel
momento avrebbe avuto come referenti sindacali le Corporazioni fasciste
e non più i liberi sindacati) e in questo capitolo della storia del
sindacalismo entrarono in gioco anche i partiti di estrema sinistra.
In principio la loro posizione ufficiale fu di “combattere
in tutte le forme i sindacati fascisti e le loro organizzazioni anche facendo
dimettere dalle commissioni interne legali i propri iscritti che esercitassero
ancora tali funzioni”. Tuttavia questo non fu possibile per la mancanza in
Umbria di organizzazione sistematica dell'antifascismo, come attesta la
documentazione conservata nell'archivio del PCI. il fronte antifascista in
questa regione, debole anche per le diffidenze esistenti al suo interno,
accettò quindi che, accanto ai fascisti, e con il consenso delle autorità
repubblicane, fossero eletti suoi elementi, comunisti, socialisti e
anarchici.
Questa scelta finora occultata, perché imbarazzante, può
essere spiegata con la disorganizzazione dei comunisti, con lo scarso numero
dei componenti le loro cellule nelle acciaierie, con la diffidenza esistente
tra le forze di sinistra, con la volontà - comune anche ai fascisti - di
opporsi al prelevamento operato dai tedeschi dei macchinari e dei materiali
industriali.
Ci furono, soprattutto tra i comunisti, iniziali opposizioni
e titubanze circa la presenza di loro uomini nelle liste dei candidati; poi,
però, ai “compagni” occupati negli stabilimenti e nei cantieri giunse dal
vertice del PCI la direttiva di nominare e far riconoscere dalla direzione le commissioni
elette, di cui qualche loro elemento doveva far parte, per tentare accordi con
gli organi direttivi degli stabilimenti “su un terreno antitedesco”, e
collegarle al “comitato di partito dell’officina”.
Pertanto, quando il 1° marzo 1944, alla “Terni si svolsero
le elezioni per la nomina delle commissioni di fabbrica, nelle liste sia della
categoria operai, sia della categoria impiegati, furono inclusi, con l'assenso
dei sindacati fascisti, elementi comunisti, socialisti e anarchici. Loro
obiettivi erano opporsi all'asportazione dei macchinari industriali da parte
dei nazisti e inserirsi nel mondo delle rappresentanze sindacali da cui per
anni erano stati esclusi.
Acciaierie Terni
Acciaierie Terni
Come avrebbe scritto in seguito Luigi Longo a Palmiro
Togliatti, in vista dell'imminente liberazione, occorreva ricordare ai compagni
che, appena fosse stato possibile alle masse controllare e dirigere le varie istituzioni
operaie in questione, essi ne avrebbero rivendicato il diritto: “Noi siamo
contro oggi alle commissioni interne fasciste e ne boicottiamo con tutti i
mezzi le elezioni, ma è evidente che domani, a liberazione avvenuta,
procederemo immediatamente alla nomina delle commissioni interne operaie...
Un implicito
riconoscimento del fatto che anche l'odiata dittatura aveva compiuto qualcosa
di buono per i lavoratori.
Negli stabilimenti siderurgici della “Terni”, accanto ai sindacalisti Maceo Carloni e Faliero Rocchiccioli, firmatari nel 1940 del contratto dei metalmeccanici e ad altri fascisti come l'operaio Bruno Marini e l'impiegato Alvaro Garzuglia, furono eletti il socialista Giuseppe Scalzone per la categoria impiegati; per la categoria operai: Ettore Secci, già socialista, poi sindacalista fascista, quindi comunista; l’ex confinato socialista Umberto Bisci; l’anarchico Gioacchino Orientali e Luigi Campagna, futuro assessore comunista al Comune di Terni: tutti noti per il loro passato sovversivo.
L'esperimento ternano fu attuato nonostante le disposizioni
impartite, qualche giorno dopo, 17 marzo, dal commissario nazionale del lavoro,
per impedire che fossero chiamati a rappresentare le maestranze lavoratori non
iscritti.
Il decreto proibiva a chiunque di assumere per qualsiasi
motivo la rappresentanza di maestranze industriali, la cui tutela, è, a norma
delle vigenti leggi, di esclusiva competenza delle organizzazioni sindacali
legalmente riconosciute.
Ma nelle settimane precedenti la liberazione di Terni,
preoccupati dalla tutela del lavoratore e dalla volontà di salvaguardare
l'esistenza delle acciaierie, nelle commissioni di fabbrica lavorarono a
stretto contatto fascisti e antifascisti.
Cosa indusse molti di questi ultimi ad accettare tale
politica di collaborazione?
Opportunismi a parte, forse il timore che i tedeschi
riuscissero a rovesciare le sorti del conflitto in corso, sicuramente la
debolezza di cui soffriva il fronte antifascista, escluso per 20 anni dal
sindacato, nel quale aspirava a tornare con un ruolo di rilievo, la volontà di
opporsi all'asportazione dei macchinari messa in atto dai tedeschi.
Ci fu forse anche chi si illuse che la socializzazione
potesse segnare una svolta nei rapporti tra datori di lavoro e prestatori
d'opera, permettendo una maggiore giustizia sociale.
Manifesto antifascista
Al di là di ciò che poterono fare, anche per ragioni di
tempo, gli eletti nelle commissioni di fabbrica a Terni, va sottolineato come
quanto qui avvenuto sia significativo e non
a caso abbia costituito un capitolo imbarazzante per una certa storiografia che
ha preferito sorvolare in merito.
Tornando, più in generale, al progetto sulla socializzazione
elaborato durante la RSI, va detto che esso non sarebbe andato del tutto
perduto, passando parzialmente in eredità ai partiti antifascisti.
Preoccupato di fare salvo il principio della partecipazione
operaia alla gestione delle aziende, pur abrogando la regolamentazione sociale
fascista, il Comitato di liberazione nazionale per l'alta Italia, fin dal 17
aprile 1945 predispose un decreto che utilizzava lo schema tecnico dei consigli
di gestione creati dalla nazionalizzazione di Mussolini.
Il CLNAI, abrogando la legislazione della RSI in materia di
socializzazione delle imprese, dichiaro decaduti gli organi da questa creati,
sancendo il principio della partecipazione agli utili e alla gestione delle
aziende attraverso “nuovi e democratici” consigli di gestione; condannò gli “obiettivi
antinazionali” della socializzazione con cui il Fascismo aveva tentato di “aggiogare
le masse lavoratrici dell'Italia occupata
al servizio e alla collaborazione con l’invasore tedesco”; riconobbe “l'alta
sensibilità politica e nazionale delle maestranze dell'Italia occupata che,
astenendosi in massa da ogni partecipazione alle elezioni dei rappresentanti
nei consigli di gestione, hanno manifestato la loro chiara comprensione del
carattere antinazionale e demagogico della pretesa " socializzazione"
fascista”.
Intenzione del CLNAI era “assicurare, all'atto della
liberazione dei territori ancora occupati dal nemico, la continuità e il
potenziamento dell'attività produttiva, nello spirito di un'effettiva
solidarietà nazionale”.
Il decreto abrogò la socializzazione affidando a nuovi
consigli di gestione, con poteri identici ai precedenti, l’amministrazione
delle aziende, rimandando al governo nazionale il compito di regolamentare la
materia.
Il decreto del CLNAI, accettato a malincuore dagli operai,
non ricevette tuttavia l'approvazione degli angloamericani.
Se il più importante sindacato, la comunista CGIL, il 23
settembre 1945 approvò un documento in cui si parlava di “diretta
partecipazione delle maestranze alla gestione dell'azienda, realizzabile ad
opera dei consigli di gestione”, l'atteggiamento ostile degli imprenditori non
permise di andare oltre le buone intenzioni e un progetto di legge
Morandi-D’Aragona sui consigli di gestione non fu mai approvato, e la materia
continuò a essere disciplinata attraverso accordi aziendali da cui la gestione
vera e propria era esclusa.
Nel novembre del 1947 fu decisa l'istituzione di una commissione speciale con il compito di elaborare la dei
consigli di gestione, ma non fu nemmeno eletta.
Nel novembre del 1947 fu decisa l'istituzione di una commissione speciale con il compito di elaborare la
Laddove istituiti, i consigli sopravvissero fino all'inizio
degli anni Cinquanta, solo come semplici organismi fiancheggiatori dei
sindacati.
Fu questo il caso delle acciaierie ternane dove già alla
fine del 1944 era stato stipulato un patto per la partecipazione diretta di
operai, tecnici e impiegati alla gestione dell'impresa.
Il z9 gennaio 1945, il
leader sindacale comunista Giuseppe Di Vittorio, parlando di questo patto al
congresso della CGIL, affermo che esso apriva ai lavoratori nuovi orizzonti,
dal momento che affermava il principio
che il progresso produttivo non si svolge come qualcosa di estraneo ai
lavoratori, non è qualcosa che interessa esclusivamente il capitalista ed è in
funzione soltanto del profitto, ma è qualche cosa cui è legato l’interesse
della società, l’interesse del Paese, per cui i lavoratori stessi debbono
partecipare alla gestione delle aziende.
Il patto di Terni
divento, per il sindacato confederale del dopoguerra, il modello da imitare e
da applicare alle altre imprese italiane.
Era tuttavia destinato a esaurire la propria carica
innovativa per il sopraggiungere di circostanze sfavorevoli legate alla crisi
della produzione, alla disoccupazione, alla ricostruzione del secondo
dopoguerra.
Nell’Assemblea costituente Tito Oro Nobili, deputato
socialista di Terni, ricordò l’esperienza dei consigli di gestione nella sua
città, proponendo un emendamento al 43" articolo della Costituzione e
chiedendo di inserire, laddove si parlava del diritto dei lavoratori a
partecipare alla gestione delle aziende, “per mezzo dei propri rappresentanti
in un comitato paritetico con i rappresentanti dell'impresa”.
Poi però lo ritiro dichiarando di votare il testo della
Commissione per non causare divisioni.
Con la vittoria alleata e l’ingresso dell'Italia nell'area
sotto l'egemonia statunitense era ormai prevalsa una linea politica
neoliberista con cui si torno alla situazione che il ventennio non era riuscito
a modificare, alla divisione tra capitale e lavoro, tra economia ed etica.
Il sindacato fu ricondotto nell'ambito dell'associazionismo “libero
e volontario”, con funzioni di rivendicazione e contestazione nei confronti sia
della classe imprenditoriale sia dello Stato. Il sogno di una confederazione
unitaria del sindacalismo italiano era destinato a non realizzarsi mai più.
Grazie per averlo pubblicato!
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