domenica 18 maggio 2014

CON I GAY I BORBONI MEGLIO DEI SAVOIA


Che però in questo caso è del tutto incongruo, giacché le leggi borboniche sull'omosessualità erano fra le più illuminate d'Europa. 
Nel codice penale del Regno delle due Sicilie di omosessuali non si parlava nemmeno. 
Dei reati sessuali (stupro, violenza su minori, oltraggio al pudore e simili) si occupava prescindendo del tutto dal sesso dei soggetti. 
Si presupponeva, quindi, che l'appartenenza del colpevole di un reato sessuale allo stesso sesso della sua vittima fosse, dal punto di vista penale, un particolare irrilevante. 
I rapporti carnali fra persone dello stesso non erano insomma proibiti. 
E poiché tutto ciò che non è espressamente proibito è implicitamente permesso, ne consegue che erano considerati giuridicamente leciti. 

Tutt'altra aria tirava intutti gli altri stati preunitari, Regno di Sardegna compreso, dove l'omosessualità era considerata un crimine come tale. 
Un articolo del codice sabaudo (il 425) puniva gli atti omoerotici su querela di parte o in caso di pubblico scandalo. 
Quando nacque l'Italia Una, e con essa l'esigenza di estendere le leggi del Regno di Sardegna sabaudo a tutto il territorio nazionale, tutti i gay del Mezzogiorno dovettero dunque temere che per loro il Risorgimento fosse stato una fregatura. 
Quel timore però durò poco. Giacché il trapianto di quell'articolo riuscì dappertutto fuorché nell'ex Regno delle due Sicilie. Dove infatti, dopo molte discussioni, si rinunciò a importarlo. 
Evidentemente esso sembrò incompatibile coi costumi delle popolazioni meridionali, avvezze da secoli a considerare l'omoerotia un elemento quasi naturale della vita quotidiana. 
E così si giunse a questo paradosso: gli atti omoerotici fra adulti consenzienti erano un crimine da Torino a Roma ma non da Napoli a Palermo. 

E questo doppio regime durò fino alla promulgazione del codice Zanardelli (1889). In cui l'omosessualità, come in quello borbonico (e più tardi anche nel codice Rocco), non essendovi nemmeno nominata, era perciò implicitamente considerata, se praticata in privato fra adulti consenzienti, del tutto lecita. 

Dunque per circa trent'anni, sulla questione omosessuale, l'Italia appena unita (ecco un dettaglio pochissimo noto della sua primissima storia) restò divisa in due. 

Il che ovviamente conferma che in rebus sexualibus l'arretratissimo Sud è sempre stato più aperto del progreditissimo Nord. 
Ma soprattutto dimostra che l'omofobìa, se risultò subito incompatibile con la corrotta visione borbonica della vita, poté invece accordarsi a lungo col virtuoso e maschio patriottismo risorgimentale. 

Dev'essere anche per questo che nessun magistrato borbonico poté mai emettere una sentenza iniqua come quella con cui, nel 1969, nell'Italia democratica e progressista nata dal Risorgimento e dalla Resistenza, un giudice socialista (Orlando Falco), brandendo il reato di plagio, condannò a nove anni di carcere un omosessuale (Aldo Braibanti) colpevole soltanto di convivere con un amante (Giovanni Sanfratello) maggiorenne e consenziente.
Redazione online

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