giovedì 10 ottobre 2013

Fino a che punto tradire il proprio Paese può essere considerata una forma di Resistenza?

 Francesco Lamendola
Francesco Lamendola

La Vulgata storica oggi imperante sostiene che la Resistenza (con l'iniziale maiuscola) iniziò subito dopo l'8 settembre 1943, e cita come primo episodio di essa il modesto combattimento verificatosi presso Porta San Paolo, a Roma, come il primo fatto d'armi di essa.Dal punto di vista ideologico e morale, si sostiene inoltre che, essendo il nostro paese caduto sotto il tallone dell'occupazione tedesca, a partire da quella data diveniva lecita ogni azione diretta control'occupante e contro il governo fantoccio della Repubblica Sociale Italiana, perché il fine di liberare la Patria da quella occupazione - e, contemporaneamente, dal fascismo, responsabile della sconfitta- diventava prioritario rispetto a quello di tutelare l'indipendenza nazionale da ogni esercito straniero, ivi compreso quello anglo-americano il quale, fino al 7 settembre, era stato il solo nemico ufficialmente riconosciuto, e che, ancora pochi giorni prima dell'armistizio, aveva crudelmente einutilmente bombardato le città italiane dall'aria, provocando migliaia di morti. Noi non staremo qui a disquisire se il vero e legittimo governo italiano si potesse davvero considerare quello di Badoglio, nominato dal re - quel re che, per venti anni, aveva sottoscritto ogni atto di Mussolini, compresa la dichiarazione di guerra del 10 giugno 1940, e che era poi fuggito da Roma lasciando la capitale, l'esercito e il Paese tutto alla mercé della rappresaglia tedesca; e se davvero il governo di Salò fosse un governo «fantoccio» più di quanto non lo fosse, appunto, quello del Regno del Sud, vassallo degli Alleati, i quali nemmeno se ne fidavano del tutto.Messa in questi termini, è una questione puramente giuridica; e la lasciamo volentieri agli esperti di diritto. Certo, il fatto di aderire al governo del Sud o a quello del Nord, interpellava anche le coscienze e poneva un grosso interrogativo di tipo etico. Sappiamo come si regolarono la stragrande maggioranza degli Italiani, così del Sud come del Nord: si concentrarono sul problema della sopravvivenza quotidiana; e, per il resto, pregarono e sperarono affinché la guerra finisse il più presto possibile, in un modo o nell'altro. In un certo senso, scioperarono dalle responsabilità della guerra, come già aveva fatto il popolo russo nell'inverno 1917-18: come se questo avesse potuto, per chissà quale magia, fermare il corso inesorabile degli eventi.Ci interessa, invece, riflettere sulle implicazioni storiche e anche morali che scaturiscono da un più equilibrato riesame degli inizi cronologici della Resistenza. Non vi è dubbio che, per le sue componenti liberali e cattoliche, essa inizia all'indomani dell'8 settembre 1943, e si configura assai più come lotta di tipo risorgimentale contro lo straniero (il tedesco), nonché come lotta per la difesa dei confini della patria (specie nella Venezia Giulia), che non come guerra civile mirante a un rovesciamento dei rapporti politici e sociali.Ma è altrettanto indubbio che, per la comunemente socialista e soprattutto comunista, la resistenza del 1943 non è che la ripresa della lotta iniziata in Spagna con le Brigate Internazionali, al grido di:«Oggi in Spagna, domani in Italia»; e, prima ancora, la ripresa della guerra civile del 1919-22,terminata con il fallimento delle agitazioni rivoluzionarie del «biennio rosso» e, poi, con la «marcia su Roma» e l'avvento di Mussolini al potere. Dal loro esilio in Unione Sovietica, Togliatti e altri leader comunisti avevano accuratamente pianificato la ripresa della guerra civile; e videro nelle vicende del 25 luglio 1943, e poi dell'8 settembre, la tanto attesa occasione per rientrare in patria e riprendere la lotta.
La pubblicazione di quella famosa lettera in cui Togliatti - che, in Unione Sovietica, aveva assistito senza batter ciglio ai massacri sistematici delle «purghe» staliniane, così come alla eliminazione di tanti comunisti italiani colà fuggiti dal fascismo - si esprime con il massimo cinismo sulla sorte degli alpini italiani caduti prigionieri dell'Armata Rossa dopo la battaglia di Stalingrado - getta una luce eloquente sulla equivalenza che i dirigenti del Partito comunista italiano istituivano tra la«necessaria» sconfitta militare del Paese e la fine del fascismo, che apriva spazi di manovra per una egemonia comunista, da attuarsi con mezzi più o meno pacifici.La differenza tra le due posizioni, quella della Resistenza liberale e cattolica e quella della Resistenza socialcomunista, è sensibile: per gli antifascisti moderati, la guerra civile era una dura,sgradevole necessità; per i socialcomunisti, era l'avverarsi della tanto agognata rivincita: ad essi non ripugnava affatto l'idea di versare il sangue fraterno.Si è detto e ridetto che i primi a versare il sangue fraterno furono i fascisti. Ma la verità storica è che Mussolini, appena liberato sul Gran Sasso dai paracadutisti tedeschi, disse ai suoi liberatori: «Per favore, ho una cosa da chiedervi: non fate del male a questi carabinieri. Sono stati buoni con me».Ecco le parole del dittatore sanguinario, del bieco assassino, il cui corpo verrà appeso per i piedi aPiazzale Loreto e poi esposto lungamente al dileggio, ai calci e agli sputi della folla. (Per inciso,qualcuno si immagina una frase del genere in bocca a Stalin, o anche solamente a uomini comeChurchill o Roosevelt?).I fatti, ad ogni modo, non avvalorano la tesi di fondo della Vulgata storica oggi dominante. I partigiani fiorentini non esitarono a macchiarsi le mani del sangue di un vecchio inerme, che viaggiava senza scorta (come viaggiavano senza scorta, sia detto fra parentesi, quasi tutti i gerarchi di Salò, a cominciare da Alessandro Pavolini), il filosofo Giovanni Gentile, che fino all'ultimo aveva esortato tutti gli Italiani a ritrovare la concordia e la solidarietà nel momento del massimo pericolo e del massimo avvilimento; e che, fino all'ultimo, si era prodigato per far rilasciare dalle carceri tedesche prigionieri politici. Ed è un fatto che Mussolini, informato dell'eccidio, ordinò personalmente di non compiere rappresaglie per vendicare Gentile. Ma non è nemmeno di questo che vogliamo parlare.Vogliamo parlare del fatto che, per i militanti comunisti, la Resistenza incomincia fin dal 1922,conosce un primo «picco» nel 1936, in Spagna, per poi riprendere nel 1943, in Itali;: e che essi non attesero affatto l'8 settembre per iniziare il regolamento di conti col fascismo. Per tutto il corso della seconda guerra mondiale, fin dal 10 giugno 1940 - anzi, prima ancora di quella data - essi si adoperarono attivamente per minare le forze dell'esercito; per indebolire il morale della popolazione; per incitare alla rivolta, ad esempio, le popolazioni abissine di recente sottomesse con la conquista dell'Impero, avvenuta nel 1935-36.Questi sono fatti, non sono supposizioni.Ora, gli sforzi dei militanti comunisti per favorire la sconfitta dell'Italia in guerra, molto prima chela sconfitta si profilasse certa e inevitabile - ad esempio, da parte di elementi residenti ad Alessandria d'Egitto, all'epoca dell'avanzata di Rommel fino ad El Alamein - si sommarono al boicottaggio dello sforzo bellico, larvato o palese, di vari altri settori della società italiana, volti ad affrettare la sconfitta e la resa del Paese: la Massoneria, taluni circoli vaticani, la mafia, e - dulcis infundo - alcuni generali e ammiragli dichiaratamente anglofili, i quali fecero quanto poterono per  pugnalare alla schiena i loro soldati e marinai che affrontavano la morte ogni giorno, dalle sabbie infuocate del Nord Africa alle acque del Mediterraneo insanguinate dai convogli diretti in Libia e affondati dagli aerei e dai sommergibili inglesi di base a Malta.A quest'ultima categoria di traditori ha dedicato ricostruzioni persuasive Antonino Trizzino, specialmente nei suoi libri «Navi e poltrone» e «Gli amici dei nemici»; mentre Franco Bandini ha sfatato la leggenda dello sfortunato eroismo di Amedeo di Savoia, ultimo viceré dell'Impero, per mostrare quanta inconcepibile ingenuità e quanta colpevole insipienza vi fu nella sua condotta politico-militare nel 1940-41 (per non parlare della speranza, fattagli balenare dai suoi furbi «amici»inglesi, di subentrare sul trono a Vittorio Emanuele III, a guerra finita).
Ma torniamo ai militanti comunisti e alla Resistenza che, per essi, non comincia affatto dopo l'8 settembre 1943, ma ancor prima dell'entrata in guerra dell'Italia, nel 1940. Per loro, si trattava di preparare le condizioni della sconfitta, perché solo dalla sconfitta sarebbe venuto il crollo del fascismo e l'agognato processo rivoluzionario, che avrebbe dovuto condurli al potere. Nessuna remora, nessun imbarazzo di fronte all'idea di colpire l'Italia alle spalle nel corso della più dura prova della sua storia, come nazione indipendente, dai giorni di Caporetto. Non avevano forse insegnato, i bolscevichi di Lenin, la strategia del «tanto peggio, tanto meglio»? Non avevano mostrato che il presupposto per l'avvento della rivoluzione socialista è la disfatta dello Stato borghese? (Non si ripeterà mai abbastanza che il Governo provvisorio di Kerenskij, abbattuto con la Rivoluzione di Ottobre, era un governo democratico, essendo l'autocrazia zarista caduta sin dal Febbraio.)I servizi segreti francesi e britannici non chiedevano di meglio che di potersi avvalere dei servigi di questi militanti, determinati, coraggiosi e ben preparati, che conoscevano perfettamente la situazione italiana dall'interno, grazie alla loro rete clandestina facente capo alla centrale anti fascistadi Parigi: persone che non agivano per denaro, come quasi tutte le spie, ma per fini politici e per disciplina di partito.Certo, un fenomeno analogo sarebbe stato impensabile sul fronte opposto: dove il motto «Right or wrong, it's my Country!» rende bene l'idea della saldezza della coscienza nazionale in Gran Bretagna, ma anche in Francia e negli Stati Uniti. In quei Paesi, un individuo che si fosse messo spontaneamente al servizio del nemico, nel momento cruciale della più spaventosa guerra della storia, sarebbe stato considerato un traditore, puramente e semplicemente, e, come tale, meritevole del massimo disprezzo. Nessuno avrebbe pensato che, a guerra finita - e a guerra finita con la disfatta della patria - quell'individuo potrebbe fregiarsi del titolo di resistente e, meno ancora, di quello di patriota.Ma facciamo un esempio concreto; e, fra i tanti che potremmo citare, parliamo di Giuseppe Di Vittorio ed Ilio Barontini e del ruolo da essi svolto nel preparare la caduta, militarmente sconcertante, dell'Africa Orientale Italiana, nel corso della seconda guerra mondiale.Fin dal 1938 i servizi segreti francesi avevano steso dei progetti molto dettagliati per attizzare la rivolta anti-italiana fra le popolazioni etiopiche da poco sottomesse, allo scopo di proteggere la loro piccola ma preziosa colonia di Gibuti che, in caso di guerra, sarebbe stata facilmente occupata dal nostro esercito (come lo sarà la Somalia Britannica, nell'agosto del 1940). Si faccia attenzione alle date: due anni prima del fatale annuncio mussoliniano dal balcone di Palazzo Venezia, il 10 giugno 1940, la Francia è impegnata in una guerra non dichiarata contro l'Italia, decisa a far crollare il suo giovanissimo impero pur di difendere una propria minuscola colonia, un coriandolo dei propri vastissimi possedimenti africani.La Francia, del resto, non è nuova a questi genere di politica nei confronti della «sorella latina». Ad Adua, nel 1897, i 100.000 uomini di Menelik che hanno fatto a pezzi i 20.000 soldati di Baratieri non erano armati, come comunemente si crede, di lance e di zagaglie, ma di cannoni e moderni fucili, ben provvisti di munizioni: gentile dono della Francia al Negus etiopico, in odio alla politica coloniale italiana che cercava di «rifarsi», dopo l'amaro smacco di Tunisi, inflittole - sempre dalla Francia - nel 1881.Ora, la Francia era la maggiore potenza coloniale in Africa, insieme alla Gran Bretagna; e, insieme,le due potenze si erano spartite, nella conferenza di Versailles, anche le ex colonie tedesche, sotto la pietosa finzione giuridica dei mandati della Società delle Nazioni, e defraudando l'Italia dei compensi pattuiti con il patto di Londra. Eppure, nel 1935-36, Parigi e Londra non avevano esitato a montare l'opinione pubblica mondiale contro l'Italia e a varare le sanzioni economiche, che avevano prostrato la sua economia: loro, che possedevano e sfruttavano l'80% del continente africano, con metodi di rapina non certo migliori, e spesso assai peggiori. Bene: ecco che, nel 1938, i servizi segreti francesi e inglesi, preoccupatissimi per la debolezza militare delle proprie colonie ai confini dell'Africa Orientale Italiana - Gibuti, il Sudan, il Kenya -,si vedono piovere la manna dal Cielo sotto forma di Giuseppe Di Vittorio ed Ilio Barontini, due militanti comunisti puri e duri, decisi a riprendere la lotta contro il fascismo, interrotta due anni prima sui campi di Spagna, in qualsiasi tempo e luogo ciò sia possibile: in Etiopia, ad esempio,dove alcuni capi locali sono ancora in armi contro l'occupante.La lotta contro il fascismo, per essi, è tutt'uno con la lotta contro l'Italia: del resto, lo stesso fascismo aveva predicato la fusione tra partito e nazione, per cui non si fanno il minimo scrupolo di agire in senso anti-nazionale, ponendosi a disposizione dei servizi segreti di due Stati che non sono affatto in guerra con l'Italia, ma che potrebbero diventarlo, un domani.In fondo è storia vecchia: dai tempi dei Guelfi e dei Ghibellini, e passando per i Principati del Rinascimento, gli Italiani preferiscono invocare gli eserciti stranieri per eliminare i propri nemici politici interni, piuttosto che fare fronte unito contro le invasioni straniere, in nome di una auspicata(da pochi: Petrarca, Machiavelli), ma in realtà inesistente, solidarietà nazionale.Ora, poiché la seconda guerra mondiale è finita come è finita, alla maggior parte delle persone sembra perfettamente logico e legittimo che alcuni Italiani si siano adoperati per la sconfitta del proprio Paese, visto che era il prezzo da pagare per provocare la caduta del fascismo e il ritorno della libertà.Questa parola magica, «libertà», e l'altra parola magica, «democrazia», sembrano giustificare qualsiasi cosa, anche il tradimento -perché di questo si tratta, se si possiede quel minimo di onestà intellettuale per chiamare le cose con il loro nome); anche perché qualsiasi obiezione viene, di solito, stroncata con la frase ricattatoria: «Sarebbe stato dunque preferibile che vincessero Hitler e Mussolini?»; come se Stalin - per non dire di Churchill, Roosevelt, Tito o Ciang Kai-scek - fosse meglio di loro; e, soprattutto, come se i partigiani comunisti fossero dei combattenti per la «libertà».Invece il loro modello era l'Unione Sovietica, la terra dei gulag e delle grandi purghe: altro che libertà.E adesso torniamo a Di Vittorio e a Barontini. Ha scritto Franco Bandini nel suo articolo (ripreso nel quarto volume de «Le grandi battaglie del ventesimo secolo», a cura di Arrigo Petacco) «Il Duca d'Aosta poteva resistere», sul mensile «Storia Illustrata», Milano, Mondadori, agosto 1975, p. 40:«[…] sul finire del 1938, in Francia […] Giuseppe Di Vittorio ed Ilio Barontini, chiusasi la dura esperienza della guerra civile spagnola, avevano deciso di proseguire la loro azione antifascista in qualunque altro luogo fosse stato possibile. Da contatti che essi avevano avuto coi due ministri francesi Pierre Cot e Georges Mandel era emersa la convenienza di utilizzare la loro opera , sotto ilcontrollo dei servizi di informazione francesi, in Etiopia. Parigi aveva assai minori scrupolilegalitari di Londra, forse in ragione del molto maggior pericolo che correva la piccola maimportante colonia francese di Gibuti: ed aveva deciso che la strada migliore per evitare questo pericolo era quella di cercar di sollevare con ogni mezzo le popolazioni dell'interno. Così, nel dicembre del 1938, partì per l'Etiopia Ilio Barontini, il comunista di Cecina che era stato comandante di Brigata in Spagna e che poi, nel 1943, avrebbe organizzato con Longo le prime GAP milanesi e torinesi. Egli aveva preso contatto coi familiari e diretti collaboratori di Hailé Selassié,tra i quali quel Lorenzo Taezaz, che doveva giocare una così notevole parte in questa storia. Nel marzo 1939, fu la volta di altri due vecchi militanti comunisti, temporaneamente ristretti nel campo profughi di Saint Cyprien: Anton Ukmar, istriano, chiamato "Oghen" nella clandestinità, e il suo amico e combattente di Spagna, Rolla. Essi vennero prelevati dal campo da un ufficiale francese,munito di un biglietto di presentazione di Di Vittorio, vennero riforniti di denaro, documenti falsi ed avviati a Parigi, dove Eugenio reale fece loro un buon numero di iniezioni preventive, anche addottorandoli nell'arte di praticarsele da soli. Di Vittorio spiegò gi elementi essenziali del piano. Il servizio informazioni francese aveva preso accordi con quello inglese per un passaggio "coperto" attraverso il Sudan. In Etiopia, partendo daGhedaref, sarebbero entrati Ukmar, col nome di Johannes, Rolla con quello di Petrus, Taezaez, conquello di Uolde Michael ed il colonnello Paul Robert Monnier, del "Deuxieme Bureau". "In Etiopia- disse Di Vittorio - avrebbero incontrato un compagno che si chiamava Paul Langrois. Ukmar pensò che si trattasse di Velio Spano, ma più tardi scoperse che era appunto Barontini. Dopo questeistruzioni, ci fu un incontro con Taclé Havariate, ultimo rappresentante etiopico della Società delle Nazioni, il quale consegnò lettere commendatizie di Hailé Selassié, come salvacondotto per l'interno dell'Etipopia. Alla fine marzo 1939 l'intera spedizione era al Cairo, dove Monnier prese contatto con l'"intelligence" inglese. . Poi tutti si trasferirono a Khartum, quindi a Ghedaref, dove vennero armati e forniti di viveri, denaro e medicinali. A metà aprile Ukmar e Rolla varcavano l'Artbara a piedi, penetrando subito dopo in territorio etiopico, e raggiungendo dopo qualche giorno un villaggiolibero. Pochi giorni più tardi, in un altro villaggio, si congiungevano con Barontini, che aveva già compiuto un largo giro d'ispezione all'interno. Non è molto importante seguire punto per punto le avventure etiopiche di questi uomini, cui più tardi si aggiunse Lorenzo Taezaz. Dopo qualche mese il colonnello Monnierr, che si era spinto con Ukmar nella zona di Harrar, morì in modo piuttosto misterioso per un attacco di febbre gialla, e lo stesso Ukmar per poco non fece l'identica fine nel marzo del 1940. Fu salvato da Barontini che lo ripescò in un piccolo villaggio, i cui stregoni l avevano già buttato nella foresta, sicuro pasto delle fiere. L'importante è che, quando i superstiti, malconci e malati giunsero prima a Khartum e poi al Cairo, nel maggio del 1940, poterono portare la certezza di prima mano di due fato decisivi. Che l'organizzazione militare italiana era assai più logora di quanto si fosse supposto, e che una ribellione etiopica si larga scala era possibile. Essi avevano preso contatto sia con Abebé Aregai che con tutti i capi dissidenti dell'altopiano fin quasi ad Harrar. E per quanto, da buoni comunisti,eccedessero nella valutazione del peso che avrebbe potuto avere militarmente una sollevazione"democratica", purtuttavia colsero nel segno almeno per ciò che riguardava la precaria fedeltà dell'intera popolazione etiopica. Non sarebbe sopravvissuta, essi dissero, a qualche consistente rovescio militare.»Certo, è innegabile che uomini come Barontini, Rolla e Ukmar fossero animati da una forte motivazione ideale e che diedero prova, inoltre, di una dose notevole di coraggio fisico e personale(ma dalla Vulgata storiografica oggi imperante si attende invano un eguale riconoscimento agli uomini del fronte opposto). Tuttavia, la domanda è: a parte il coraggio e la dedizione ai propri ideali, questi uomini devono essere considerati dei resistenti, e magari dei patrioti, o non piuttosto dei traditori? Le informazioni da essi raccolte e riferite ai servizi segreti francesi e britannici ebbero una parte non secondaria nelle vicende militari che avrebbero portato, nel 1941, alla invasione britannica dell'Impero e alla totale, irreparabile sconfitta del nostro esercito coloniale. A Cheren, ad AmbaAlagi, a Uolchefit, a Culqualber, a Gondar i nostri soldati e i bravi ascari si fecero uccidere a migliaia, lottando fino all'ultimo respiro, per difendere l'A.O.I. dalle forze nemiche dilaganti: uomini come Barontini, Ukmar e Rolla li avevano letteralmente pugnalati alle spalle, ancor prima che la guerra scoppiasse. Dunque, delle due l'una: o questi ultimi furono patrioti, oppure furono traditori della peggiore specie.Qui non c'è più spazio per le ambiguità, per i gattopardismi, per le contorsioni intellettuali e politiche. È scandaloso che lo stesso Stato che ricorda come eroi i caduti di Giarabub o di Culqualber, riconosca ad uomini come Di Vittorio e Barontini lo statuto giuridico di patrioti e di combattenti per la libertà. Solo una Repubblica ipocrita e nata dalle peggiori trame occulte (prime fra tutte, quelle che condussero al 25 luglio del 1943) può riuscire nell'impresa di sublime equilibrismo di riconoscere una pari dignità alle azioni degli uni e degli altri. Una guerra è sempre una tragedia, è sempre uno schiaffo ai principi umanitari, ed è sempre un atto di suprema ingiustizia. Resta da vedere se la guerra italiana del 1940 fosse veramente più ingiusta e immorale delle altre: di quelle del Risorgimento o di quella del 1915, ad esempio; o, ancora, di quelle delle altre nazioni, a cominciare dall'attacco franco-inglese alla Germania del settembre 1939 (ma non all'Unione Sovietica, che con quella si era spartita la Polonia).
Pare che sia venuto in mente veramente a pochi che, una volta che l'Italia - a torto o a ragione - era entrata in guerra, nel 1940, forse - per usare un'espressione di Franco Bandini in «Tecnica della sconfitta», tanto valeva impegnarsi a fondo e combattere per cercare di vincerla, invece che fare di tutto per perderla.Questa, in ultima analisi, sembra essere stata la causa determinante, non diciamo della sconfitta -che, probabilmente, era inevitabile -, ma del modo miserando e disonorevole in cui la sconfitta ebbe luogo, guerra civile compresa. Perché oltre alla mancanza di nafta - che costringeva le poderose navi da guerra a rimanere in porto- e di altre materie prime, necessarie all'industria bellica; oltre alle carenze tecniche delle forze armate, dalla mancanza del radar a quella delle portaerei; oltre alla mediocrità assoluta dei nostri generali - Badoglio, Graziani, Cavallero; e oltre al tenace sabotaggio della grande borghesia, della mafia, della Massoneria, di parte del Vaticano: un altro tarlo, invisibile, ma profondo, minava sin dall'inizio ogni prospettiva di successo. Era l'antica, inguaribile propensione degli Italiani ad anteporre la logica di fazione alla salvezza della Patria; logica di fazione che già era stata teorizzata da Antonio Gramsci, per il quale - come è noto - il moderno Principe era, appunto, il partito. Le imprese di uomini come Di Vittorio, Barontini, Ukmar e Rolla possono anche colpire per la loro audacia e la loro assoluta dedizione ad una causa, ma restano pur sempre la migliore dimostrazione del fatto che una società non può affrontare il cimento supremo di un conflitto, se non possiede quel minimo di coesione che le faccia considerare le divisioni interne come cosa secondaria rispetto alla massima sciagura che si possa profilare: quella della disfatta totale, della disintegrazione dello Stato, della guerra civile senza regole e senza quartiere.

http://it.scribd.com/doc/19202515/Resistenza-o-tradimento


3 commenti:

  1. Se gl'Italiani capissero la logica di questo ragionamento, non saremmo ridotti come siamo. Quando difetta l'amor patrio, vincono le logiche e le idee più ignobili e, purtroppo, a noi queste non hanno mai fatto difetto.

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