giovedì 17 ottobre 2013

COME RISOLVERE LA CRISI ITALIANA UNA PALUDE da bonificare


di Filippo Giannini

Per uscire dalla crisi che ci attanaglia dobbiamo ripartire dall’aprile 1945. 

Lo storico Rutilio Sermonti, ne L’Italia nel XX Secolo, scrive: “La risposta poteva essere una sola. Perché le democrazie volevano un generale conflitto europeo, quale unica risorsa per liberarsi della Germania - formidabile concorrente economico - e soprattutto dell’Italia. 
Questo è necessario comprendere se si aspira alla realtà storica: soprattutto dell’Italia”.
 Perché Sermonti attesta questo?

Ce lo spiega il grande scrittore irlandese Bernhard Shaw, che nel 1937 così si esprimeva: “Le cose da Mussolini già fatte lo condurranno, prima o poi, ad un serio conflitto con il capitalismo”.

Bernhard Shaw non dovette attendere molto per la conferma di quanto attestato. Infatti, i Paesi capitalisti dovevano far presto: le idee di Mussolini si stavano espandendo e minacciavano il potere mondiale dei Rockefeller, dei Rothschild e degli altri 250-300 in parte oscuri personaggi in grado di fissare e imporre le linee guida in politica e, quindi, nell’economia di tutti i Paesi del mondo: la politica guidi l’economia, non viceversa.

Zeev Sternhell, ebreo, professore di Scienze Politiche presso l’Università di Gerusalemme, col saggio La terza via fascista (Mulino, 1990), afferma:
“Il Fascismo fu una dottrina politica, un fenomeno globale, culturale, che riuscì a trovare soluzioni originali ad alcune grandi questioni, che dominarono i primi anni del secolo”.

 Sono proprio le soluzioni sociali ad attrarre maggiormente il giudizio del professore di Scienze Politiche:
”Il corporativismo riuscì a dare la sensazione a larghi strati della popolazione che la vita fosse cambiata, che si fossero dischiuse delle possibilità completamente nuove di mobilità verso l’alto e di partecipazione”
In queste ultime osservazioni possiamo intravedere le cause che portarono, da lì a pochi anni, alla “svolta” drammatica.

La cosa appare più chiara leggendo un’altra considerazione sempre di Sternhell:
“Il potere dello Stato incide sulla mobilitazione dell’economia nazionale, sulle possibilità di programmazione economica su larga scala e favorisce l’unità morale e l’unanimità spirituale delle masse”.
La lotta politica a livello mondiale si sposta sul binomio: civiltà del lavoro e civiltà del denaro. E fu la Seconda guerra mondiale.

La risposta italiana alla grande crisi economica mondiale del 1929 fu che, nel giro di poco tempo, l’Italia di quegli anni realizzò una tale mole di lavori pubblici, come non avvenne in nessun altro Paese; e senza ruberie.

Giorgio De Angelis scrive: “L’onda d’urto provocata dal risanamento monetario non colse affatto di sorpresa la compagine governativa e provvedimenti di varia natura attenuarono, ove possibile, i conseguenti effetti negativi soprattutto nel mondo della produzione (...). L’opera di risanamento monetario, accompagnata da un primo riordino del sistema bancario, permise comunque al nostro Paese di affrontare in condizione di sanità generale la grande depressione mondiale sul finire del 1929 (...)”.

Il professor Gaetano Trupiano, ha affermato:
“Nel 1929, al momento della crisi mondiale, l’Italia presentava una situazione della finanza pubblica in gran parte risanata; erano stati sistemati i debiti di guerra, si era proceduto al consolidamento del debito fluttuante con una riduzione degli oneri per interessi e le assicurazioni sociali avevano registrato un sensibile sviluppo”.

I ministri finanziari del Governo Mussolini e, ultimo in ordine di tempo fra questi, Antonio Mosconi, riuscirono a far sì, che negli anni fra il ‘25 e il ‘30, i conti nazionali registrassero attivi da primato.

Vennero intraprese iniziative che ancor oggi non mancano di stupire per la quantità e la qualità dei meccanismi messi in opera e per il successo da esse ottenute.
Oggi, sembra una menzogna; ma fu realtà.

Lo Stato affrontò la crisi congiunturale spaziando “dalla politica monetaria alla politica creditizia, dalla politica finanziaria alla politica valutaria, dalla politica agricola alla politica industriale, dalla politica dei prezzi alla politica dei redditi, dalla politica fiscale alla politica del commercio estero, dalla politica previdenziale alla politica assistenziale” (Sabino Cassese).
In conseguenza di ciò, lo Stato italiano divenne titolare di una parte delle attività industriali.

Seguendo questa impostazione, la cura fu quella più appropriata per il superamento della crisi, anche se comportò sacrifici: per sostenere le industrie a fine 1930 si rese necessaria una riduzione dei salari dell’8 per cento circa per gli operai; per gli impiegati la riduzione variò, a seconda dell’entità delle retribuzioni, dall’8 al 10 per cento. Il sacrificio venne, però, quasi subito compensato dalla contrazione dei prezzi delle merci, per cui il valore reale d’acquisto ammortizzò in breve tempo l’entità del taglio.
Sacrifici affrontati dal popolo con disciplina e partecipazione.

Nel periodo di maggior ristagno l’attività del Governo si svolse con due diversi interventi.
Uno, immediato, indirizzato ad assistere le famiglie più colpite dalla grande crisi: taglio degli stipendi e dei salari;
riduzione delle ore lavorative per evitare, il più possibile, il licenziamento; l’introduzione della settimana lavorativa a 40 ore (operazione che comportò il riassorbimento di 220 mila lavoratori);
la diminuzione dei fitti;
una forte riduzione delle spese nei bilanci militari;
opere di assistenza diretta, come distribuzione di buoni viveri e centri di distribuzione di pasti.

Il secondo, tendente ad incrementare gli investimenti statali nelle grandi opere.
Ci riferiamo alle Fiere e attività similari. Non ultima, quella di Napoli, la Mostra Triennale delle Terre Italiane d’Oltremare: concepita per far sì che ogni tre anni Napoli fosse al centro degli scambi economici e culturali fra l’Africa e l’Europa, una iniziativa che oggi sarebbe ancor più valida per fronteggiare il fenomeno della migrazione.

Per rimanere a Napoli, ricordiamo la realizzazione degli ospedali collinari (il XXIII Marzo, poi intitolato a Cardarelli; il Principe di Piemonte, ribattezzato Monaldi; la Stazione Marittima; la Stazione di Margellina; il nuovo rione Carità con i palazzi delle Poste, delle Finanze, della Provincia e dei Mutilati; il Collegio Costanzo Ciano per 3 mila ragazzi; la nuova sede del Banco di Napoli; il palazzo dell’INA, e numerosi rioni di case popolari.

Mussolini e i suoi collaboratori erano consapevoli dell’importanza che queste istituzioni potevano esercitare nel settore commerciale: negli scambi, nelle contrattazioni e nel rilevante stimolo che tutto ciò poteva esercitare per la produzione e acquisto di beni, anche di origine lontana o di lontana destinazione.

“Sotto il dominio fascista, ci viene detto, l’Italia subì un rapido sviluppo con l’elettrificazione dell’intero Paese, lo sviluppo e il fiorire delle industrie dell’automobile e della seta, la creazione di un moderno sistema bancario, la prosperità dell’agricoltura, la bonifica di notevoli aree agricole (...), la costruzione di una larga rete di autostrade ecc. (...). Il rapido progresso dell’Italia dopo la Seconda guerra mondiale e il fatto che oggi è già in marcia verso uno sviluppo intensivo capitalistico sarebbe impensabile senza i processi sociali iniziati durante il periodo fascista”. Così Mihaly Vajda scrive in The Rise of Fascism in Italy and Germany.

Sembra incredibile, ma l’ulteriore sferzata di dinamismo alla politica mussoliniana venne impartita proprio per battere la grande crisi.

Così, mentre negli anni Trenta tutto il mondo era soggiogato dalla crisi economica, in Italia iniziò un’attività, con interventi in tutti settori della vita economica, sociale, urbanistica e produttiva.
I benefici si proietteranno nei decenni a venire.

Dalla politica agraria, ispirata e pilotata da Arrigo Serpieri, nacquero le leggi sulla bonifica e le trasformazioni agrarie.
Queste opere furono affidate all’Opera Nazionale Combattenti (ONC), creata nel 1917 per il reinserimento dei reduci nella vita civile.
Grazie ai reduci ed alle loro famiglie, l’Operazione Bonifica, iniziata nel basso Veneto ed in Emilia, si allargò alle altre zone d’Italia interessate: dalle Paludi Pontine a Maccarese, l’Isola Sacra, Acilia, Ardea, la Sardegna, Metaponto, Campania, Puglie, Calabria, Lucania, Sicilia, Dalmazia. La terra strappata alle paludi portò a nuovi posti di lavoro: strade, acquedotti, reti elettriche, borghi rurali ed ogni genere di infrastrutture. La bonifica di Serpieri diventò strumento di progresso economico.

Questi miracoli venivano seguiti e apprezzati anche all’estero, tanto da muovere l’ammirazione e la curiosità di tecnici europei, americani e sovietici.

Le Corbusier, il maestro francese del movimento moderno d’architettura, venne a Roma e in una conferenza tenuta all’Accademia d’Italia, elogiò i pregi delle nuove città.
Non dimentichiamo le grandi opere realizzate in Somalia, Eritrea e in Libia. Si devono alla instancabile attività di Carlo Lattanzi la bonifica e la messa a coltura, in Libia, di ampie aree a grano, oliveti, vigneti, frutteti ecc. su oltre 2.600 ettari di terreni aridi e sabbiosi.

Armando Casillo (dal cui lavoro abbiamo attinto alcuni dati) riporta i risultati delle bonifiche e delle leggi rurali: 5.886.796 ettari bonificati, tra il 1923 e il 1938.

E un confronto è necessario fra il periodo pre-fascista, quando in 52 anni nell’intera Penisola furono bonificati appena 1.390.361 ettari. Né va dimenticata la sconfitta della malaria, causa di centinaia di morti ogni anno.

Un altro dato significativo sulla qualità tecnica raggiunta nel settore agricolo dal nostro Paese è la comparazione fra i 16,1 quintali di frumento per ettaro prodotti nelle terre bonificate e la produzione statunitense, considerata la migliore, ferma a 8,9 quintali/ettaro.

“L’attribuzione ai braccianti di poderi nelle zone di bonifica è il fiore all’occhiello della politica rurale fascista. Come si vede, traguardi che cambiarono il volto dell’Italia” (Armando Casillo).

La spinta impressa da Mussolini alle opere del Regime si indirizza sempre a nuove mete.
Si può ben dire che negli anni della bonifica integrale «tutto il territorio italiano era un’enorme, bruciante, palpitante, esaltante fucina di opere, azionata da braccia, da idee, da inesauribile volontà di cambiare il volto a un’Italia rurale che aveva dormito per secoli» (Armando Casillo).

In piena congiuntura economica mondiale la fantasia produttiva italiana era riconosciuta ovunque.

Il 22 dicembre 1932, il deputato laburista inglese Lloyd George rimproverava il suo Governo di inerzia e lo spronava a risolvere i problemi della disoccupazione, proponendo di “fare come Mussolini nell’Agro Pontino”.

Ancora più incisivamente il giornale Noradni Novnij di Brno, il 15 dicembre 1933, scriveva: “Con successo infinitamente superiore a quello annunciato per il suo piano da Stalin, in Russia si è fatta un’opera di costruzione, ma in Italia si è compiuta un’opera di redenzione, di occupazione. All’altra estremità dell’Europa si costruiscono enormi aziende, città gigantesche, centinaia di migliaia di operai sono spinti con folle velocità a creare un’azienda colossale per il dumping [rifiuti, N.d.R.] che dovrà portare la miseria a milioni di altri Paesi europei. Mentre invece in Italia il piano Mussolini rende una popolazione felice e nuove città sorgono in mezzo a terre redente, coperte ovunque di biondi cereali”.

I consensi non riguardavano soltanto i metodi usati dal Governo italiano per superare la crisi congiunturale, ma partivano dagli anni precedenti.

Lo svedese Goteborgs Handels il 22 marzo 1928 scriveva: “Non si può davvero non restare altamente sorpresi di fronte al lavoro colossale che il Governo fascista viene svolgendo con una incredibile intensità di energia: amministrazione pubblica radicalmente cambiata, ordinamento sociale posto sulla nuova base della organizzazione sindacalista, trasformazione dei Codici, riforma profonda della istituzione e un tipo di rap¬presentanza nazionale affatto nuovo negli annali del mondo”.

Il londinese Morning Post del 29 ottobre 1928: “L’opera del fascismo è poco meno che un miracolo”.

 Il prestigioso Daily Telegraph del 16 gennaio 1928: “II fascismo non è soltanto uno sforzo verso un nuovo sistema politico, ma un nuovo metodo di vita. Esso è perciò il più grande esperimento compiuto dall’umanità dei nostri tempi”.

Altri dati rivelano che quanto si scriveva nel mondo era ben meritato.
Nel 1922 i braccianti erano oltre 2 milioni: nei primi anni del ‘40 il loro numero si ridusse a soli 700 mila unità, gli altri erano divenuti proprietari, mezzadri o compartecipi di piccole o grandi aziende.

Nella sola Sicilia i proprietari terrieri passarono dai 54.760 del 1911 a 222.612 del 1926. Questo è un ulteriore dato che può far meglio comprendere lo sforzo compiuto in quegli anni.

Possiamo quindi dire che l’obiettivo politico fu, in gran parte, centrato.

Questo avveniva mentre nel mito marxista la collettivizzazione delle terre risultava fallimentare e affogata nel sangue e nella disperazione.
Mussolini al contadino del kolchoz di Lenin o Stalin contrapponeva il contadino italiano compartecipe della produzione.
Nacquero così, soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia, nuovi ceti di piccoli proprietari, superando i motivi della lotta di classe e creando lo «strumento di pace e di giustizia sociale».

Attratto dal grande rumore sollevato dal miracolo italiano, il Mahatma Gandhi, dopo essersi fermato nel corso di un viaggio a Parigi e in Svizzera, volle passare per l’Italia. Sostò a Milano, quindi a Roma, dove si fermerà l’11 e il 12 dicembre 1930. In quest’ultimo giorno Gandhi fu ospite, a Villa Torlonia, del Duce, appagando, così, il desiderio di incontrare il capo del Fascismo. Intervistato poi dal Grande Oriente, organo della comunità italiana al Cairo, (9 settembre 1931), rilasciò le seguenti dichiarazioni: “Tra tutte le Nazioni che dopo la guerra, tendono con sforzi vigorosi, ad affermarsi e a creare una realtà, l’Italia occupa un posto privilegiato e distinto. Perciò Mussolini che è l’animatore di questo risveglio, ha tutta la mia ammirazione”.

Per concludere; dato che da decenni siamo colpiti da coma cerebrale, porrò una semplice domanda:
Dato che i principi dell’economia non cambiano nel corso degli anni (ho scritto i principi dell’economia), e dato che negli anni ’30 del precedente secolo l’allora crisi congiunturale fu superata con grande successo, per vincere la crisi che ci attanaglia in questi anni, perché non utilizzare gli stessi principi oggi?

 Qualora ci fossero dei vincoli, sorti in questi anni, non si potrebbe trovare il modo di sospendere, anche temporaneamente detti vincoli per riesaminarli, eventualmente più avanti?

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