venerdì 3 maggio 2013

Nacque così l’Italia: uno Stato militarista, poco democratico e fondato sulle tangenti Debito pubblico, tasse ed espropri, antichi vizi italici


A seguito di un’occupazione sanguinosa e sanguinaria, con spoliazione e colonizzazione dell’ex Regno delle Due Sicilie, il 17 marzo 1861, veniva proclamato il Regno d’Italia. Nella seduta del Senato subalpino riunito a Torino, nel rigoroso solco della tradizione franco-sabauda, molto patriotticamente, lo straniero franco-piemontese Camillo Benso, conte di Cavour, solennemente annunciava: «Je salue Victor-Emmanuel deuxième, Roi d’Italie».

Dal canto suo, il neo «roi d’Italie», Vittorio Emanuele II di Savoia, era stato molto esplicito allorquando, rivolgendosi al plenipotenziario inglese Augustus Paget, aveva affermato: «Ci sono due modi per governare gli italiani: con le baionette o con la corruzione». Egli, in particolare, fece usare le une e l’altra con spregiudicata brutalità.

Nacque così l’Italia: uno Stato militarista, poco democratico e fondato sulle tangenti!

Successivamente, in piena età umbertina, ovvero in quel periodo storico che va dal 1878 al 1900, durante il quale capo dello Stato fu il re Umberto I di Savoia, e capi del Governo, in ordine di tempo, furono Cairoli, Depretis, Cairoli, Depretis, Crispi, Di Rudinì, Giolitti, Crispi, Di Rudinì, Pelloux e Saracco, in un’alternanza emblematica e veloce dei medesimi uomini politici, l’Italia fu tormentata dalla corruzione politica e dagli scandali.([1])


Umberto I di Savoia



Correva l’anno 1893, allorquando la cronaca italiota si occupò del famoso crack della Banca Romana, uno dei più autentici fatti emblematici di corruzione e disonestà, qualità queste che il neo Regno d’Italia possedeva nel proprio DNA sin dalla sua nascita.

Rammento a tale proposito che, con l’unificazione, tutte le strutture statali pre-unitarie erano state assorbite dal Regno di Sardegna, il quale aveva azzerato le preesistenti istituzioni pubbliche ed aveva esteso a tutta la Penisola l’organizzazione politica, amministrativa, militare, finanziaria, fiscale e legislativa piemontese.

Lo scandalo della Banca Romana scoppiò a seguito del tracollo finanziario delle banche italiche, provocato da un’eccessiva espansione dell’industria edilizia, alla quale esse avevano concesso crediti esagerati; cosa che Denis Mack Smith, nella sua «Storia d’Italia» definisce «follia edilizia».([2]) In questo settore, gli speculatori dell’epoca avevano infatti individuato una strada molto facile, conveniente e soprattutto veloce per arricchirsi; e ce n’era per tutti: dal proprietario del terreno edificabile, alle imprese costruttrici, ai funzionari pubblici. Tuttavia, il capitale di avvio non usciva dalle tasche degli investitori, ma veniva preso in prestito dagli Istituti di credito (Banche private di emissione, autorizzate dallo Stato a battere moneta),([3]) che, per farvi fronte, aumentarono a dismisura la circolazione di moneta cartacea, senza che vi fosse la necessaria copertura aurea. La più spregiudicata fra tutte fu la Banca Romana che, con estrema disinvoltura, consentì la stampa di banconote per ben 128 milioni di lire, a fronte di una copertura finanziaria assicurata solamente per 58 milioni.([4])

In realtà, si trattò di una «truffa nella truffa». Infatti, analogamente a quanto era avvenuto nell’Europa continentale in occasione della Rivoluzione francese, anche con l’unità d’Italia la sovranità monetaria fu illecitamente ceduta dallo Stato alle Banche private di Emissione, con la conseguente truffaldina creazione di quel fenomeno, a noi tutti tristemente noto, chiamato «debito pubblico».([5]) Nel diabolico sistema della c.d. «moneta-debito» andò, quindi, ad inserirsi anche l’imbroglio che portò al crack della Banca Romana.

Francesco Crispi

Di gravissime responsabilità si macchiarono anche potenti personaggi come Francesco Crispi, Giovanni Giolitti e molti altri eminenti uomini politici dell’Italietta umbertina (fra i quali alcuni di quelli che avevano «fatto l’Italia»), con la determinante complicità dell’allora governatore della Banca Romana, Bernardo Tanlongo. Non mancò nemmeno la compiacenza di Casa Savoia.([6])

Alla fine – espediente questo che si consoliderà poi nella più disonesta tradizione italica – nessuno pagò!

Bruno Buratti e Gerardo Severino, nella pubblicazione «Il vero e il falso», riferiscono che: «Un importante ruolo fu svolto dalla Guardia di Finanza nelle indagini relative allo scandalo della Banca Romana... In particolare il Corpo fu attivato in tutto il territorio nazionale per rintracciare le banconote emesse dalla Banca Romana in eccedenza ai quantitativi autorizzati, inclusi i biglietti falsi, emessi con duplicazione dei numeri di serie. L’attività dei finanzieri portò al sequestro di grossi quantitativi di carta moneta».([7])


Banconota da 100 lire emessa dalla Banca Romana



A questo punto appaiono senz’altro doverose alcune considerazioni, anche per tracciare un breve, ma significativo ed onesto raffronto fra il Regno sabaudo e quello (tanto vituperato dai pennivendoli risorgimentalisti!) borbonico.

Tutti devono sapere che, prima dell’unità d’Italia, mentre il Piemonte era sull’orlo della bancarotta,([8]) perché fortemente indebitato a causa delle gravosissime spese sostenute per la dissennata politica militarista e guerrafondaia del megalomane Cavour, il Regno delle Due Sicilie era lo Stato più ricco, prospero ed evoluto d’Italia: le sue riserve auree erano in quantità doppia rispetto a quelle di tutti gli altri Stati italiani messi assieme([9]) e la sua moneta circolante, quasi tutta in metallo pregiato (oro, argento, rame), aveva un valore intrinseco. Nel sistema napoletano, inoltre, la borghesia degli affari non era la classe egemone, a cui gli interessi generali fossero ottusamente sacrificati (come nel Regno di Sardegna prima e nel Regno d’Italia poi), ma era una classe al servizio dell’economia nazionale.([10])

Per l’insieme di queste ragioni, il crack della Banca Romana non poteva che verificarsi unicamente nell’Italietta sabauda, anche alla luce di quell’ulteriore truffa finanziaria, che solo la disonesta classe politica del neonato Regno d’Italia poteva inventare: la famigerata legge sul «corso forzoso» del 1866 e le relative infami modalità di attuazione.

A quest’ultimo riguardo, bisogna inoltre sapere che, nel Regno di Piemonte prima e nel Regno d’Italia poi, le riserve auree garantivano solamente un terzo della carta-moneta circolante, mentre, nelle Due Sicilie, esse coprivano interamente quel poco di moneta cartacea ivi esistente. Pertanto, con la conquista del Sud, il Piemonte, non solo mise le mani sull’ingente ricchezza dell’antico Regno, ma moltiplicò subito per tre il capitale circolante, due terzi del quale erano pura «evenienza attiva».([11]) Fu così realizzato un prodigio ben superiore a quello della famosissima «moltiplicazione dei pani e dei pesci» di evangelica memoria; un miracolo unicamente italico!

Ma non è finita. Attraverso la legge sul corso forzoso, non solo fu eliminata la convertibilità della carta-moneta in oro (che, già originariamente, era nel rapporto secondo cui 3 lire di carta erano convertibili in 1 lira d’oro), ma si raggiunsero livelli di iniquità ed immoralità, a dir poco osceni, nel riconoscere il «principio della inconvertibilità» esclusivamente per la moneta della Banca Nazionale italiana e non anche per quella del Banco di Napoli (suo vero competitore!), che rimase così obbligato a dare «oro» in cambio di «carta-straccia».

Attraverso questi strumenti scorretti e disonesti, la già prospera economia dell’ex Regno delle Due Sicilie, in poco tempo, fu portata al tracollo.

E questo fu solo un esempio emblematico di come il nuovo Stato unitario agisse (ed avrebbe in seguito sempre agito) nei confronti del Sud.

Da allora ad oggi è accaduto di tutto: guerre, rivoluzioni, terremoti, crisi economiche, lotte politiche; tuttavia, lo strapotere delle banche è rimasto immutato ed i suoi effetti negativi si stanno manifestando, con tutta la loro virulenza, a livello globale con l’attuale crisi. Inoltre, la storia della disonestà politico-economica si ripete, né dobbiamo meravigliarci se la vita dell’Italia unitaria, tanto monarchica quanto repubblicana, in questi 152 anni, sia stata così tanto difficile e travagliata.

Ed a giusta ragione il compianto Indro Montanelli affermava che «...legittima o bastarda, l’Italia di oggi è pur sempre figlia dell’Italia di ieri!».

Telese Terme, marzo 2013.




[1] Enzo Climinti, generale della Guardia di Finanza a riposo, “La storia insegna: lo scandalo della Banca Romana - 1893”, Rivista bimensile “Leonessa e il suo Santo”, nr. 3, maggio-giugno 2012, pag. 12.
[2] Enzo Climinti, op. citata.
[3] All’epoca dei fatti, le banche autorizzate all’emissione di cartamoneta erano sei: la Banca Nazionale, la Banca Romana, la Banca Nazionale Toscana, la Banca Toscana di Credito, il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia. Più volte il loro operato era stato oggetto di critiche a causa di gestioni piuttosto dubbie, laddove sempre più evidenti apparivano le commistioni tra politica, banche ed affari. Le inchieste parlamentari, tuttavia, erano state puntualmente insabbiate dai vari Governi e dal Parlamento fino al 1892, quando, divenute note le vicende della Banca Romana, scoppiò lo scandalo.
[4] Lorenzo Del Boca, “Maledetti Savoia”, Piemme, Casale Monferraro (AL), 1998, pag. 223.
[5] Per saperne di più, Cfr. Ubaldo Sterlicchio, “L’unico antidoto è la sovranità monetaria”, Rivista mensile “L’Altra Voce”, febbraio 2012, pagg. 13 e seguenti.
[6] Lorenzo Del Boca, op. cit., pag. 219.
[7] Enzo Climinti, op. citata.
[8] Pier Carlo Boggio, deputato piemontese, Pamphlet “Fra un mese”, pubblicato nel 1859; in Angela Pellicciari, “I panni sporchi dei Mille”, Liberal, Roma, 2003, pag. 146.
[9] Francesco Saverio Nitti (uomo politico ed economista, nonché Presidente del Consiglio del Regno d'Italia dal 23 giugno 1919 al 15 giugno 1920), Scienza delle Finanze”, Pierro, 1903, pag. 292.
[10] Nicola Zitara, nato a Siderno (RC) nel 1927, scrittore e giornalista, studioso meridionalista, autore di vari saggi sul ruolo dell’unificazione nel declino del Sud; in Elena Bianchini Braglia, “Risorgimento: le radici della vergogna. Psicanalisi dell’Italia”, Centro Studi sul Risorgimento e sugli Stati Preunitari - Terra e Identità, Modena, 2009, pag. 177.
[11] Autori vari, “La storia proibita”, Controcorrente, Napoli, 2001, pagg. 103 e seguenti.

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