mercoledì 24 aprile 2013

Usura e dintorni


L'uomo e la sua l'evoluzione democratica

«A mali estremi, estremi rimedi,
o diversamente nulla».
WILLIAM SHAKESPEARE
Amleto, Atto IV, scena III

Piero Sella

Che il proliferare senza confini e senza regole della grande finanza sia alla radice dell’attuale marasma economico è ormai evidente.

È altrettanto fuori discussione che i danni più pesanti stanno toccando all’Europa.
Le nazioni del Vecchio Continente, che cinquant’anni fa si erano mosse per realizzare uno Stato federale, hanno visto questo ambizioso progetto politico impantanarsi e poi evaporare. Di esso non sono rimasti altro che l’euro – una moneta che non ha alle spalle uno Stato da cui essere difesa – e una Banca Centrale che ne cura l’emissione e la circolazione su un territorio privo di leggi comuni.
A questa banca i singoli Stati hanno riconosciuto un’autonomia assoluta.
La gestione dell’economia è così passata dagli Stati, non a un’autorità politica sovrannazionale da essi nominata, ma a un ente finanziario che non risponde ad alcuna autorità. Sciocco errore o colpevole tradimento degli interessi europei? Il risultato è comunque disastroso: gli Stati non hanno oggi voce in capitolo, né sul merito delle decisioni della banca, né sulla scelta dei suoi dirigenti.

Ma allora a chi fa capo questa Banca Centrale Europea? E chi nomina i suoi vertici? Essa si inserisce perfettamente nell’organigramma di quella burocrazia bancaria atlantica che è riconducibile alla strategia dei centri economici e finanziari del capitale ebraico. Come le altre sigle collegate – Banca dei Regolamenti Internazionali, Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, Federal Reserve – che svolgono funzioni pubbliche e che perciò sono ritenute dai più istituzioni statali, pur essendo in realtà società private, anche la BCE vede il suo nucleo dirigente formarsi attraverso una cooptazione che, senza vincoli di nazionalità, porta in alto i più affidabili tra gli addetti ai lavori.
Fatto sta che i governi europei, impigliati nella ragnatela tessuta dalla plutocrazia mondialista, sono rimasti fuori dalla stanza dei bottoni. Interdette loro le decisioni di maggior rilievo, ai politici degli ex Stati sovrani risulta oggi delegata unicamente l’amministrazione corrente, gravata anch’essa dalle direttive che, minacciose e ineludibili, piovono di continuo dall’alto.
Questa avvilente minorazione dei popoli d’Europa, commissariati dalla grande finanza, è stata ben fotografata – purtroppo solo in privato – da Berlusconi quando intercettato sbotta: «la gente non conta un c..., i parlamenti non contano un c...».

Accertato che le cose non stanno per nulla come democrazia vorrebbe, ci pare necessario capire chi sono quelli che contano, chi, alla fin fine, ha in mano il potere. Nella società attuale, dove metro di ogni cosa, unico valore condiviso è la ricchezza, il potere non può che appartenere a quell’oligarchia che si è assicurata il «signoraggio» e cioè l’esclusiva a stampare e a cedere alla collettività il denaro, nella quantità, al costo e a condizioni non pattuite con gli utenti del servizio, ma variabili unicamente a suo arbitrio.
È questo il punto di partenza per la nascita e il prosperare di una finanza internazionale parassitaria, oggi tanto solida da non aver difficoltà a imporre, con un guinzaglio assai corto, la propria legge ai Paesi e alle economie assoggettate. A ricattare e strangolare al minimo segnale di ammutinamento.
Quando, dopo la designazione di Monti, Berlusconi, ancora forte di una maggioranza parlamentare, ha tentato di rassicurare i suoi dicendo «possiamo staccargli la spina quando vogliamo», Tremonti lo ha gelato: «appena qualcuno si azzarderà a chiedere le elezioni, lo spread schizzerà in alto».
Lo scontro tra economia e politica è impari: i sovietici mandavano i carri armati, oggi le armi per i colpi di Stato sono altre e più decisive. Quella dei signori dell’usura è il prestito. Il debito, in quanto fonte di guadagno, ma soprattutto di controllo politico, una volta creato, va mantenuto ad ogni costo.

Il cliente, il debitore, non deve essere messo nelle condizioni di poterlo estinguere. Le nazioni e i privati indebitati sono un capitale da tenere in vita e accudire con la stessa cura che ha il pastore per il suo gregge. Per lasciarli indefinitamente sulla graticola, non c’è di meglio che impedire alla politica quelle riforme che possano turbare lo status quo debitorio. Sono invece incoraggiate manovre di corto respiro tese a produrre deflazione, disoccupazione e, più in generale, effetti recessivi. Col ristagno produttivo, il cerchio si chiude. I debitori boccheggiano e hanno bisogno di nuovi prestiti.
Il plutocrate però non si accontenta di vivere aspettando passivamente il frutto dell’usura. Poiché capitale e interesse, per la natura stessa del prestito, non sono immediatamente esigibili, e l’esperienza insegna che può esserci addirittura il rischio di vederli sfumare, i crediti vengono velocemente cartolarizzati e commercializzati, cioè frazionati e venduti al minuto. Le banche, alle quali i politici europei permettono di muoversi con scioltezza, in regime di pressocché totale deregulation, riescono ad accollare ai propri clienti qualsiasi titolo cartolarizzato predisposto dai gestori dell’azzardo finanziario. Clienti già spennati in varie occasioni, e predestinati, nella visione della plurisecolare creatività finanziaria giudaica, al ruolo di fruitori finali del cerino acceso. Entrano così in cassa sempre più soldi, che la speculazione impiega per attaccare sui mercati, sottomettere e schiavizzare prede sempre più grosse.

Ma quando, per l’ingordigia degli usurai – le banche d’affari USA, ricche dei miliardi di dollari stampati per esse dalla FED – la bolla debitoria si gonfia oltre misura, le banche si trovano in affanno a scaricare il rischio. Lo spread (il differenziale di interesse tra le obbligazioni meno solide e quelle più forti, oggi i bund tedeschi) e l’euribor (il tasso che regola i prestiti interbancari) si impennano.
Il debitore, pubblico o privato, che all’inizio era stato invogliato con interessi minimi, per ottenere il rinnovo o altri finanziamenti, deve pagare un tasso sempre più alto. Ma spendere di più per finanziarsi non lo mette al riparo da ulteriori guai. È ormai finito, sebbene stia onorando i propri impegni, nel mirino della speculazione, la quale è libera di giocare nelle borse persino sul timore, da essa stessa dosato, che possa subentrare il default. Ne nascono sbalzi nella quotazione dei titoli, verso il basso quando sono diffuse voci preoccupate, verso l’alto quando vengono rilasciate dichiarazioni rassicuranti, ottimistiche.

L’utile, in entrambi i casi, finisce nelle tasche di chi ha avuto la licenza di mettere a punto il marchingegno ed è quindi in grado di sfruttarne gli effetti.
Quando il virus del default infetta il mercato, i titoli dei Paesi aggrediti dalla speculazione valgono sempre meno. Se le banche ne hanno troppi, il loro bilancio non quadra più e, poiché la loro capacità di prestare è legata, sia pure in piccola parte, al capitale posseduto, diventa per loro difficile continuare a finanziare le imprese. Quando queste entrano in sofferenza, per gli istituti di credito si fa reale il rischio di non vedersi restituiti quei soldi che avevano prestato senza averli.
Le acrobazie speculative della finanza virtuale sono ricadute a questo punto sulla economia reale.
È possibile porre rimedio a questa situazione? Intervenire dettando regole a difesa dell’economia nazionale ed europea e contro la speculazione? È possibile prendere decisioni che interrompano la crescita del debito e dei relativi interessi?
È possibile, ma il cambiamento non può certo avvenire nel quadro attuale.
L’Europa e i suoi Stati non hanno infatti nelle loro mani le leve dell’economia, né quelle degli istituti finanziari, i quali, come già detto, agiscono in assoluta autonomia.
Per cambiare le cose, la premessa ineludibile è quella che le Banche di emissione e con esse l’intera struttura del credito e delle assicurazioni siano nazionalizzate. La BCE apparterrà allora al popolo europeo, Bankitalia a quello italiano. Il denaro stampato e messo in circolazione non sarà gravato in partenza da nessun balzello, da nessun signoraggio privato. L’indirizzo operativo della BCE sarà stabilito non dalla finanza atlantica, ma del governo federale europeo eletto dal popolo.
Con la nazionalizzazione del credito dovrà anche essere vietata – in tutto o in parte – la cessione agli investitori stranieri dei titoli del debito pubblico.

Questo resterà così un problema contabile interno, precluso alla speculazione di chicchessia.
In Italia il Presidente del Consiglio potrà davvero nominare il governatore della nostra Banca Centrale, che oggi può semplicemente indicare. Cesserà anche la scandalosa e illegittima situazione odierna che vede le banche private, soggetti che dovrebbero essere controllati da Bankitalia, esserne invece azionisti e quindi proprietari.
È chiaro che la politica, così com’è oggi, non ha né la volontà né la forza per imporre riforme del genere. È del pari illusorio che il mondo bancario accetti di autoriformarsi. Esso ama lo status quo perché ha preso atto che l’economia reale è diventata poca cosa rispetto agli affari virtuali. Non soffre nel vedere che, all’impazzare della pirateria finanziaria, la produzione e il lavoro passano in subordine. Le banche sono più interessate a sfruttare la redditività derivante dalla enorme massa di denaro che ogni giorno si muove esentasse alla velocità della luce.
Anche intervenire sul debito sarebbe possibile, e farlo non costerebbe neppure nuove tasse, ma ci metterebbe sicuramente in urto con le strutture politicomilitari e coi tabù culturali imposti all’Europa dalla plutocrazia atlantica.
I governi – di sinistra, di destra o tecnici che siano – invece di richiamare in Patria le migliaia di militari oggi all’estero, dove, al servizio della NATO, recano gravi danni all’Europa, devono rassegnarsi a far cassa con le pensioni e la proprietà immobiliare. Invece di spingere al lavoro i nostri disoccupati, ponendo così fine a un’enorme evasione fiscale, devono favorire l’immigrazione e sprecare miliardi per mantenere clandestini, rifugiati e rom. Per non parlare delle decine di migliaia di extracomunitari che intasano i tribunali e affollano le carceri.
La cupola plutocratica, in conclusione, ci danneggia e ci impedisce di reagire. E l’unico segno di vita che essa dà nella crisi è il mostrarsi preoccupata per la sorte dei suoi compagni di merende, le banche, che decide pertanto di rifinanziare.

Come avviene quest’operazione? Stampando, con poca spesa e nessun controllo esterno, il quantitativo di banconote ritenuto opportuno. Questa produzione di denaro dal nulla, cripticamente indicata agli ignari sudditi come «immissione illimitata di liquidità», viene considerata dagli economisti, dai «bocconiani» e dalla stampa specializzata come un taumaturgico rimedio. A trarne vantaggio, in realtà, sono solo la Banca Centrale che con le nuove banconote si è procurata nuovo lavoro e nuovi utili, e le banche oggetto del soccorso.
È un affare tra banche. I privati, ma anche gli Stati che, incredibilmente, non hanno più una loro banca, sono costretti ad approvvigionarsi sul mercato.
Le banche inguaiate possono anche fruire, per rifinanziarsi, della riduzione del tasso BCE decisa dal Governatore appena nominato. E lo sconto dello 0,25% non è poca cosa se riferito al precedente tasso BCE dell’1,5%. Lo sconto non è invece significativo per gli Stati gravati dallo spread e per i privati ai quali, al tasso BCE, vengono aggiunti spread ed euribor. È così che, da un tasso di partenza BCE dell’1,25% le banche possono applicare ai clienti interessi intorno al 13%. Per legittimare questo esproprio, i politici hanno di recente ritoccato verso l’alto il limite oltre il quale il tasso veniva giudicato usurario.
C’è da rilevare infine quanto l’incontrollato aumento della massa monetaria operato dalla BCE contrasti con le linee guida dettate dalla stessa: nessun aiuto alle imprese nazionali, condanna assoluta – quando ciò nel passato era possibile – di qualsiasi politica tale da produrre inflazione.
Il perché della differenza tra questi due opposti indirizzi è evidente.
Obiettivo dello Stato è quello di garantire difesa, sicurezza, servizi, lavori pubblici, assistenza sanitaria e giustizia sociale. Deve quindi investire il necessario e, nel farlo, non deve curarsi più di tanto di creare debito. È vero che aumentare il circolante conduce a una proporzionale riduzione del valore della moneta, ma è anche vero che, al crescere dell’inflazione è automatica la riduzione del debito. Se l’operazione è accortamente pilotata, può condurre al tempo stesso all’espansione dell’economia e all’azzeramento del debito.

La Banca Centrale Europea ha scopi istituzionali assai diversi da quelli dello Stato. L’emissione e il controllo della circolazione monetaria, quand’è in mano a privati che si muovono a fini di lucro, non punta al benessere della popolazione, alla tutela dell’economia, dei produttori, dei consumatori. L’immissione di moneta non è fatta per fornire servizi e non avviene a pioggia, ma è riservata ai soli istituti di credito. E l’obiettivo è unicamente quello di far loro superare un momento critico, in modo che possano continuare ad esercitare con tranquillità le consuete attività parausurarie, e non venga a mancare la loro collaborazione al grande gioco virtuale allestito dalle centrali plutocratiche d’oltreoceano.
I soldi creati e passati alle banche non provocano dunque inflazione e non vanno a intaccare la sostanza dei debiti. Si tratta di un meccanismo ben registrato in cui il denaro in uscita ritorna moltiplicato nelle mani di chi l’ha stampato. Sarebbe del resto fuorviante che l’industria del credito, col suo «fuoco amico», provocasse con l’inflazione una riduzione dei debiti. Non si è mai visto un macellaio chiedere l’eliminazione dal mercato del bancone delle carni.
C’è da aggiungere che, per il mantenimento del debito, la BCE ha altre  frecce nel suo arco. Poiché gli Stati potrebbero renderlo meno pesante anche attraverso lo sviluppo, la Banca Centrale si muove per impedire la crescita del PIL: eccola bloccare la spesa, frenare gli investimenti, tenere bassi gli stipendi, ridurre il welfare.
È quello che i cittadini europei, senza averne alcuna colpa, sono oggi condannati a subire.
La grande finanza sembrerebbe dunque, al momento, avere in mano tutti gli strumenti per continuare a giocare, di bolla in bolla e senza limiti di tempo, sulla pelle delle nazioni.


* * *
L’assurda rinuncia degli Stati europei alla sovranità economica e monetaria non può essere considerata come fenomeno circoscritto, privo di ripercussioni.
Essa costituisce anzi la base di partenza dalla quale i poteri forti hanno potuto estendere il loro dominio sull’intera categoria politica e, di riflesso, su ogni aspetto della convivenza sociale.
In tale quadro la democrazia è solo un lugubre lenzuolo calato dalla plutocrazia per soffocare in tutto l’Occidente la libertà dei popoli e per insidiarla con spocchiosa protervia in ogni angolo della Terra.
Il debordare della grande finanza e del suo braccio secolare, l’apparato militare della NATO, è infatti sfacciato e senza limiti. Il pretesto per l’intervento è sempre disponibile: contro la vittima il lupo può invocare, di volta in volta, il terrorismo, il pericolo delle armi di distruzione di massa, l’imperativo di portare la democrazia anche ai meno fortunati, l’obbligo morale della protezione dei civili.

L’uso della menzogna è sistematico. Alle masse sono imposti, con larghezza di mezzi e raffinata tecnica pubblicitaria, giudizi storici, indirizzi politici, orientamenti culturali e artistici. Ecco perché – sessant’anni dopo – sono ancora in circolazione, e spacciate per verità, le tesi propagandistiche della coalizione demo-comunista vittoriosa sull’Europa nella guerra ’39-’45. Ecco il telone dell’olocausto agevolare, da un lato l’invadenza intellettuale giudaica, dall’altro nascondere il razzismo teocratico che, da un secolo, opprime la Palestina. Ecco ad annacquare l’identità dei popoli, a criminalizzare l’idea nazionalista, la martellante campagna a favore della globalizzazione, dell’immigrazione, dell’integrazione, dell’accoglienza, dell’imbastardimento razziale. Napolitano, il presidente guerrafondaio e golpista, ha definito recentemente «folle» una legge dello Stato, quella sulla cittadinanza. Il «ministro per l’integrazione» del nuovo governo Monti è già al lavoro per modificarla. È la totale, programmata devastazione di ogni cemento etnico e sociale.
Le aggressioni della NATO sono puntualmente supportate dalle agenzie di stampa e dai media, i quali però non si occupano mai dei massacri di civili perpetrati dagli invasori atlantici e minimizzano le torture, i sequestri di persona e le detenzioni illegali che si consumano ogni giorno negli USA, nelle loro colonie, nei paesi occupati o in quelli dove hanno basi militari.

In questo panorama di disinformazione, è degno di specifica attenzione il fatto che siano stati presentati come legati alla cosiddetta «primavera araba» gli eventi di Libia. Il Paese, che nulla aveva in comune con quelli vicini, è stato in realtà prima corrotto e destabilizzato dai servizi franco-britannici, poi piegato attraverso bombardamenti terroristici che hanno distrutto ogni infrastruttura militare e civile. A riprova di quanto l’aggressione sia stata improvvisa e proditoria, la Libia, in tutta la guerra che l’ha vista martirizzata, non è mai stata in grado di sparare, contro chi violava il suo territorio, neppure un missile.

Quanto ai corrispondenti di guerra europei, si sono guadagnati il loro stipendio propinando alla pubblica opinione tutta la spazzatura mediatica ammucchiata dalla cupola atlantico-sionista. Uno sforzo professionale che, per quel che riguarda la TV, non ha mai raccordato in modo coerente il testo con le immagini dello schermo e che, neppure sulla carta stampata, è riuscito a coprire coi racconti di atrocità mai avvenute, di fosse comuni, di stupri di massa, il vergognoso intervento dei crociati occidentali. Chi, stando dalla parte dei libici prezzolati dagli occidentali, si era lanciato nella descrizione di un Gheddafi in fuga, con camion stipati di lingotti d’oro e casse di gioielli, è stato sbugiardato dalla morte del Rais, armi in pugno, sulla sabbia del suo Paese.
La guerra mossa dalla NATO contro la Libia voleva colpire in realtà il governo e gli interessi italiani. Da tempo il Presidente del Consiglio Berlusconi era finito sulla lista nera dei suoi «alleati» anglo-franco-americani. Il suo attivismo internazionale, in particolare gli stretti contatti personali con Putin e Gheddafi, erano giudicati pericolosi; potevano condurre l’Italia verso nuovi equilibri energetici e politici. Un’evasione che poteva contagiare l’Europa. Questo è il motivo – e non le sue performance sessuali – per cui Berlusconi «non godeva della fiducia dei mercati».
Per liberarsi di questa anomalia sono stati mobilitati gli uomini legati in Italia ai poteri forti: opposizione, magistratura, giornali delle banche. Tutti, va da sé, sotto l’alto patrocinio della Presidenza della Repubblica.
Col fallimento della congiura di Fini e il contenimento dell’attacco giudiziario, per mettere in riga Berlusconi e l’Eni non restava che colpire Gheddafi.
Le intercettazioni di WikiLeaks confermano la solidità di questa nostra interpretazione. «Il presidente – scrive da Roma a Washington l’ambasciatore USA Spogli – è colpevole di assecondare i peggiori istinti di Putin e di minare i tentativi dell’Unione europea e degli USA di creare una politica energetica comune».

«La continua presenza di Eni – dice sempre Spogli, riferendosi alle trivellazioni iraniane e africane della nostra azienda petrolifera – è un fattore d’attrito nelle relazioni Italia-USA».
Contro gli interessi italiani e a fianco delle centrali di potere mondialiste si è schierato persino il Vaticano, costretto, ancora una volta, a pagare pegno per il suo peccato originale, la sudditanza teologica al giudaismo, il «fratello maggiore». Il vescovo di Tripoli, monsignor Martinelli, che aveva smentito le allarmistiche notizie diffuse dal comando NATO e chiesto la fine dei bombardamenti sulla città, è stato rimosso e richiamato in patria.
L’Europa è dunque immobilizzata dalla costruzione finanziaria mondialista di cui essa rappresenta solo un’appendice coloniale. La sua politica estera è nelle mani della NATO che, dopo la caduta del comunismo, è passata – senza che le nazioni dell’Alleanza venissero interpellate – a fronteggiare i nemici di Israele. Le sue istituzioni politiche e le strutture economiche e produttive devono conformarsi alla pressione di potenze e lobby straniere.
È per questa ragione che, nella crisi attuale, nulla potrà essere riassestato con quegli interventi marginali che, di volta in volta, vengono messi sotto i riflettori e presentati da maggioranza, opposizione e governi tecnici, come determinanti. Per essere più chiari, cambiare i ministri, modificare il sistema elettorale, cancellare o meno le provincie, dare scadenze diverse all’età pensionabile, intervenire sulle intercettazioni, privatizzare, non può risolvere alcunché.
Il pessimismo non può certo essere mitigato quando vediamo i Paesi in crisi passare direttamente e senza scosse nelle mani dei proconsoli del grande capitale. Uomini questi tutti allevati nelle strutture finanziarie internazionali e già collaudati nelle Banche d’affari mondiali e in quella Centrale Europea.

Questa resa della politica, che avviene alle spalle di una popolazione spaventata e che non è in grado di capire, ha il sapore della beffa perché è proprio dal mondo della finanza, dai suoi uomini, dai suoi titoli tossici, che la crisi ha avuto origine.
L’aver affidato in Grecia ed in Italia ai banchieri le redini della cosa pubblica dimostra l’incapacità dell’Europa democratica a reagire. Invece di essere obbligati a mettere ordine a casa loro, nelle loro banche, gli uomini della catastrofe sono stati chiamati a mettere le mani nelle nostre tasche. Dietro una democrazia disposta a sacrificare il suo popolo è ormai evidente il potere dell’usura internazionale, un potere finalizzato alla predazione e nel quale il rigetto di ogni socialità non è casuale e momentaneo, ma fisiologico e irreversibile.
Ha dunque ragione il grande Shakespeare. Per ribaltare una prognosi infausta, i rimedi devono essere estremi, devono cioè condurre a esiti che non abbiamo il timore di definire rivoluzionari.

1 commento:

  1. prova di ANNA


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