sabato 23 marzo 2013

La giovane destra neofascista italiana e il '68














Il gruppo de «L'Orologio»

Questo articolo fa parte del Dossier Il Sessantotto, e dopo?

Introduzione - Anime diverse all’interno dell’ambiente neofascista - Le ragioni degli studenti - Bibliografia - Riviste e quotidiani

Introduzione
Nel 1970, uno fra i più lucidi intellettuali di destra, Adriano Romualdi, tentò di proporre un’analisi approfondita della contestazione studentesca. Attraverso le sue riflessioni cercò di chiarire le cause per le quali la rivolta giovanile, oltre che per motivi contingenti, si era orientata definitivamente a sinistra. L’intellettuale, innanzitutto, sosteneva che la protesta studentesca, oltre che essere la risultante dei guasti prodotti dal consumismo e dall’americanismo, rappresentava la «rivolta dei capelloni – scriveva –, degli zozzoni, dei bolscevichi da salotto, di una gioventù che, più che bruciata, si potrebbe definire stravaccata». Attraverso quella provocazione, in realtà, si intendeva muovere un pesante atto d’accusa, rivolto da destra, al ruolo svolto fino a quel momento dal MSI. Il movimento studentesco così povero di riferimenti culturali – a parere di Romualdi – era stato capitalizzato dalla sinistra perché la destra aveva scelto di praticare un «perbenismo imbecille», fondato sulla garanzia «sicuramente nazionale, sicuramente cattolica, sicuramente antimarxista», delegando ad altri la bandiera della protesta e della rivolta contro l’ordine borghese.

Come mai una «rivoluzione» – scriveva – così sfacciatamente inautentica è riuscita a imporsi alla gioventù, e non solo a quella più conformista, ma anche a quella più energica e fantasiosa? La risposta è semplice: perché dall’altra parte non esisteva più nulla. Seppellita sotto un cumulo di qualunquismo borghese e patriottardo […] la destra non aveva più una parola d’ordine da dare alla gioventù […]. In un’epoca di crescente eccitazione dei giovani, essa diceva loro «statevi buoni» […]. Fossilizzata nelle trincee di retroguardia del patriottismo borghese, le organizzazioni giovanili ufficiali vegetavano senza più contatto alcuno col mondo delle idee, della cultura, della storia. È bastato un soffio di vento a spazzare questo immobilismo che voleva esser furbesco, ma era soltanto cretino. Bastarono le prime occupazioni per comprendere che dall’altra parte – quella della destra – non c’era più nulla […]. Quando le bandiere rosse sventolarono in quelle università […] molti guardarono a destra, attesero un segno. Ma il segno non venne […]. Maturata nei corridoi di partito, in un clima furbesco e procacciatore, [la] cosiddetta classe dirigente giovanile [di destra] non aveva assolutamente niente da dire di fronte alla formidabile offensiva ideologica delle sinistre. Ne era semplicemente spazzata via[1].

Mentre le sinistre, con una rete di circoli politici e culturali, avevano agitato «tutta una serie di temi rivoluzionari», la gioventù di destra era stata «castigata» a «montar la guardia al “dio-patria-famiglia”».
Al di là delle elaborazioni di Romualdi, che eppure possono essere utili per riflettere sul tema scarsamente trattato in sede storiografica del rapporto fra la destra e la protesta del ’68, all’interno dell’ambiente neofascista, lo scoppio della contestazione studentesca produsse un momento di disorientamento. Le opinioni verso il movimento di protesta, infatti, furono differenti. Il MSI venne colto di sorpresa, trovandosi di fronte ad un fenomeno nuovo: la crisi del modello di sviluppo e la conseguente entrata in gioco delle questioni sociali. Se da un lato il partito neofascista era convinto che le inadeguatezze dell’università italiana fossero tali da renderla solo una mera e vuota «fabbrica del sapere» e ammetteva l’esistenza della «sclerosi congenita» dell’«organismo», fornendo piena legittimità alle ribellioni degli studenti, dall’altro, sosteneva che alla base di quei mali vi era un «malcostume anacronistico e immorale», ereditato da un sistema politico in cui non ci si riconosceva[2]. Proprio per questo motivo, se gli studenti avevano ragione a protestare, i loro metodi venivano ritenuti dal MSI errati, poiché si rifacevano agli schemi degli «agit prop» comunisti che come bravi «docenti del tumulto» riuscivano a creare un clima di «anarchia» e di «terrore»[3]. Il partito neofascista, così, volle presentarsi, fin dai primi momenti, come il baluardo dell’ordine e della tradizione, ignorando che le richieste dei giovani contestatori fossero in qualche modo condivise anche da una parte dei propri militanti. Se da un lato il MSI, spinto da una estrema ossessione anticomunista, infatti, ribadiva che quella generazione in rivolta rappresentava semplicemente la prova vivente della provocazione comunista, dall’altro alcune componenti della giovane destra italiana, dal proprio «punto di vista», si sentivano parte di quel tutto.
In realtà, già nel gennaio del 1967, presso l’ateneo di Perugia dove il FUAN, l’organizzazione universitaria missina, era molto attivo, gli studenti di destra, appoggiando la protesta degli assistenti e dei professori incaricati che si accingevano ad attuare uno sciopero della categoria, proclamato su scala nazionale dai sindacati, avevano avvertito l’urgenza di una repentina riforma universitaria. In quell’occasione, il presidente del FUAN perugino, Luciano Laffranco, evidenziò che ormai era tempo di sensibilizzare l’opinione pubblica affinché essa venisse a conoscenza dei reali problemi presenti nelle università italiane, in modo da attuare una forma di protesta clamorosa attraverso l’occupazione simultanea di tutti gli atenei italiani[4]. Alla base delle affermazioni di Laffranco vi era la consapevolezza che le rivolte giovanili erano motivate da reali disagi generazionali. Il presidente dell’organizzazione studentesca, infatti, ha ricordato successivamente che negli anni ’67-’68 si registrò «l’unione di tutti i giovani nella contestazione contro quella società, quella scuola, quello Stato, quei principi»[5].
D’altro canto, la percezione dell’esistenza di un’anima non necessariamente gauchiste della contestazione giovanile era già emersa all’interno dell’ambiente culturale di destra. Basti pensare che nel febbraio del 1968, in contemporanea con quegli eventi, usciva nelle librerie una nuova opera di Julius Evola – uno degli autori più letti all’interno dell’ambiente neofascista – L’arco e la clava, in cui appariva un saggio di estrema attualità: La gioventù, i beats e gli anarchici di destra[6]. Il libro di Evola, che tra l’altro si esaurì nell’arco di pochi mesi, sembrava segnalare, in un certo senso, che quelle rivolte giovanili non erano politicamente orientate, ma rispondevano a veri e propri motivi generazionali.
Anche se non sono da trascurare altri aspetti, come ad esempio la particolare situazione politica e sociale dell’Italia di quegli anni e gli influssi di eventi internazionali, l’elemento generazionale rappresentò un dato “insopprimibile” che fece da collante alla protesta studentesca del 1968. I giovani che si apprestarono a divenire protagonisti di quel formidabile movimento di contestazione erano persone che avevano approssimativamente la stessa «età storica», che avevano condiviso le stesse ansie, le stesse paure, le stesse esperienze[7]. Essi intendevano creare ed affermare con forza un nuovo mondo legato agli stili di vita, ai costumi e alle abitudini[8] ed erano i «figli del miracolo economico», i figli di una società, che nonostante la prosperità stentava ancora a mutare; quei giovani, spinti da idee che contemplavano un mondo civile finalmente pervenuto all’età del benessere, coltivavano la speranza che esso avrebbe potuto diventare un patrimonio comune dell’umanità, senza esclusioni e discriminazioni.
In altri termini, si può affermare che il movimento di contestazione del 1968, proprio per la sua peculiarità, fu un fenomeno generazionale che, almeno per certi versi e in alcuni casi, avvicinò – o tentò di farlo – anche giovani di diverso orientamento politico, i quali, cioè, pur condividendo la stessa ansia generazionale, agitavano la loro protesta da due schieramenti politici opposti.

Anime diverse all’interno dell’ambiente neofascista
Come accennato, nell’universo neofascista si registrò una forte contrapposizione fra l’anima d’ordine della dirigenza del MSI[9], che vedeva in un tale sommovimento sociale la premessa di uno stato di emergenza, e lo spirito ribellistico di gran parte dei militanti delle organizzazioni giovanili che li spingeva, invece, ad affiancarsi ai portavoce della lotta al sistema. Siffatte divergenze emersero anche sulla stampa dell’area. In realtà, gran parte dei giornali di destra criticò aspramente le agitazioni giovanili. Solo una rivista accolse favorevolmente la protesta studentesca definendola un possibile momento di unità generazionale. Si trattava del giornale, «L’Orologio», che seguì da vicino le vicende della contestazione, soprattutto nell’università di Roma, e che sostenne quei giovani neofascisti che, contravvenendo agli ordini del MSI, iniziavano cautamente a prendere parte alle assemblee del movimento studentesco.
Fra i movimenti della destra neofascista italiana che si svilupparono negli anni sessanta e settanta, in realtà, il gruppo de L’Orologio occupò una posizione particolare. Esso, per le tematiche che affrontava e per l’attenzione che prestava ai problemi sociali, è stato definito spesso, anche all’interno dell’ambiente neofascista, l’ala sinistra della destra italiana[10]. Gli elementi di novità e di originalità che contraddistinguevano il movimento de «L’Orologio» si esplicitarono anche sul piano prettamente culturale. Le idee che erano alla base dell’impostazione del gruppo, infatti, si rifacevano alle teorizzazioni del filosofo Ugo Spirito, piuttosto che a quelle del pensatore Julius Evola, che rappresentava uno dei massimi punti di riferimento ideologici della destra e dell’estrema destra neofascista italiana.
Fu lo stesso Luciano Lucci Chiarissi, il leader del movimento, a definire «eretiche» e, per certi versi, provocatorie le tesi del gruppo e della rivista, le cui pubblicazioni iniziarono nel giugno del 1963. Anzi, come avrebbe spiegato lo stesso Lucci Chiarissi, anni dopo, in Esame di coscienza di un fascista[11], l’intento dei curatori della rivista era quello di consentire agli «ex-ventenni» e agli «ex-sconfitti» della RSI di «interloquire» sui problemi della vita quotidiana, lasciandosi alle spalle, però, i rimpianti di un «rancore eterno». Essi, insomma, ambivano a divenire cittadini di una «nuova» Italia non sulla base di ciò che erano stati e che avevano rappresentato durante la guerra civile, ma in virtù di ciò che erano diventati nell’epoca contemporanea, ossia «fascisti del tempo presente»[12]. Così, le opinioni del movimento spesso si collocarono in netto contrasto rispetto a quelle dominanti all’interno dell’universo neofascista di quegli anni. In relazione alla guerra del Vietnam, ad esempio, il gruppo assunse una posizione emblematica. L’Orologio si schierò, infatti, a favore dei Vietcong, poiché essi erano, a suo parere, i rappresentanti di un popolo impegnato in una lotta di liberazione e di conquista della propria autonomia nazionale[13].
Se pur i componenti del gruppo avessero età anagrafiche diverse, il movimento, come accennato, proprio nel particolare frangente della contestazione studentesca, riuscì ad essere il portavoce dei bisogni e delle richieste di una parte della gioventù di destra. Il gruppo de L’Orologio divenne in qualche modo il rappresentante delle istanze riconducibili ad un cosiddetto «neofascismo di lotta» che si contrapponeva ad un «neofascismo di governo», espressione con la quale la base giovanile missina definiva l’atteggiamento ostile del MSI verso il movimento studentesco[14]. Insomma, «L’Orologio» ebbe la funzione di dar voce al contrasto che si instaurò fra i giovani contestatori neofascisti e la generazione che li precedeva, quella dei «vecchi», quella dei «padri».
Da questo punto di vista, del resto, la situazione di quei giovani era simile a quella dei propri coetanei di sinistra. Il movimento studentesco, infatti, colse di sorpresa anche il PCI, che si dimostrò incapace di comprendere le ansie, le rivendicazioni e le richieste dei giovani contestatori. Giorgio Amendola, su «Rinascita», dette sfogo ad un sentimento diffuso all’interno del Partito comunista sostenendo che il movimento rappresentava un «rigurgito di infantilismo estremista e di vecchie posizioni anarchiche», di fronte al quale occorreva valorizzare il «patrimonio ideale che il PCI aveva accumulato in decenni di dure esperienze» ed auspicare una «battaglia su due fronti», contro il potere capitalista e contro l’estremismo studentesco[15]. Il segretario del partito, Luigi Longo, aggiungeva che la rivolta giovanile poneva un problema di «tattica e di strategia», ossia era necessario «trovare il legame politico e di azione tra le rivendicazioni studentesche e i problemi del movimento operaio e popolare anticapitalistico», ma al tempo stesso ammetteva che esso «aveva scosso la situazione politica ed era stato largamente positivo nell’indebolire il sistema sociale italiano»[16]. Pier Paolo Pasolini, dopo gli scontri di Valle Giulia, scrisse un testo che fece molto discutere. La lunga poesia che, anche dal titolo, Il PCI ai giovani, voleva essere una provocazione, metteva in luce il mai risolto rapporto tra i giovani e il Partito comunista. Nel testo lo scrittore friulano espresse pubblicamente la sua disapprovazione per il comportamento degli studenti, schierandosi dalla parte dei poliziotti.
«L’Orologio», come abbiamo detto, ricostruendo soprattutto gli eventi principali legati all’esperienza dell’occupazione studentesca nell’ateneo romano, cercò di prendere in esame in special modo gli avvenimenti in cui si verificò una sorta di collaborazione fra i giovani neofascisti e i propri coetanei di sinistra. Tale unione raggiunse il suo apice nella cosiddetta “battaglia” di Valle Giulia del 1° marzo 1968 fra la polizia e gli studenti.
L’episodio acuì i contrasti che già esistevano nell’universo neofascista. Così, mentre i vertici dei gruppi universitari e la segreteria del MSI impartivano determinati ordini, la base giovanile si muoveva autonomamente.
Alla base di quelle divergenze, comunque già emerse fin dai primi momenti in cui erano iniziate le agitazioni studentesche, vi era, come accennato, la convinzione del partito neofascista che l’errore dei giovani contestatori fosse quello di lasciarsi strumentalizzare da un’esigua minoranza di «agitatori». Ad esempio, l’organo del MSI, «Il Secolo d’Italia», che ebbe la funzione di incanalare le accuse rivolte al movimento di contestazione da parte del partito neofascista, ai primi di febbraio, in concomitanza con le occupazioni delle facoltà di Architettura, Lettere e Medicina dell’università di Roma, scriveva:

Nelle due facoltà di Lettere ed Architettura si era cercato di concretare una azione comune comprendente le varie associazioni studentesche, ma ad un certo punto del dibattito una sparuta minoranza ha cominciato a divagare. Non si parlava più rivendicazioni universitarie, ma si urlava a proposito del Vietnam e si inneggiava al “Che” Guevara ed alla saggezza difficilmente assimilabile di Mao-Tse-Tung. Ora, la maggioranza degli studenti ha capito il gioco e si è ritratta dalla reazione. Si è ritirata non perché ritenesse inopportuna l’“occupazione”, ma soltanto per un ovvio motivo di coerenza. È infatti poco coerente e in cattiva fede chi, strumentalizzando una effettiva rivendicazione comune, sostanzialmente propaganda il proprio “credo” politico, indipendentemente alla bontà di esso. E questo è stato il comportamento degli universitari di timbro marxista […]. In Architettura bivaccavano qualche decina di dimostranti; in quella di Lettere al massimo una quindicina. Il loro aspetto è quello comune a tutti i giovani “leoni” di sinistra. I maschi hanno tutte le caratteristiche psicosomatiche dei protestatari di professione: barba incolta e maleodorante, abbigliamento “degagé” ed occhio con espressione adirata. Le studentesse invece, se non per la femminilità degli atteggiamenti, si distinguevano per la generosità delle minigonne[17].

Nel corso del mese di febbraio, tuttavia, all’interno del partito vi era ancora incertezza riguardo all’atteggiamento da assumere nei confronti della contestazione. Questi dubbi crescevano nel momento in cui i quadri dirigenti del MSI verificavano che, talvolta, fra i promotori e i partecipanti alle occupazioni e alle manifestazioni studentesche vi erano anche giovani di destra. In quel frangente, intervenne Mantovani, il presidente del FUAN, per puntualizzare la posizione della dirigenza dell’organizzazione studentesca. L’intento di Mantovani era quello di situarsi in una posizione mediana, considerando che era il leader di un’associazione missina – quindi legata al partito neofascista – e, nello stesso tempo, si trovava a capo di un’organizzazione universitaria che non poteva sentirsi estranea a quelle che erano le richieste e le esigenze degli studenti. Così, sul quotidiano del partito neofascista comparve un suo articolo con il quale tentava di chiarire la situazione. Innanzitutto, Mantovani effettuò un’analisi dei motivi che erano alla base della rivolta, evidenziando che le cause immediate della contestazione dovevano essere ricercate nella «lentezza» dello Stato nel risolvere i «gravi problemi strutturali e ricettivi dell’istruzione universitaria» e nell’«incertezza», anzi nell’«autentica pavidità» delle «autorità accademiche»[18]. Il presidente del FUAN, nello stesso tempo, riconosceva anche che la contestazione giovanile era «spontanea e generalizzata» e che era determinata sia dall’insofferenza degli universitari per un «“sistema” palesemente iniquo» che dalla loro aspirazione ad un’«università moderna ed efficiente». La «lotta studentesca per un’università migliore» avrebbe dovuto rappresentare la «lotta per una società migliore». Queste erano le “concessioni” che Mantovani faceva alla contestazione studentesca, poiché, alla fine dell’articolo, egli precisava che il FUAN era stato «parte viva e stimolante» dell’insurrezione universitaria, nel «promuoverla» e nell’«indirizzarla», ma, nello stesso tempo, ne aveva anche denunciato gli «errori» e gli «eccessi»[19].
Quella di Mantovani voleva essere una direttiva vincolante, all’interno di una struttura, quella del FUAN, in cui le sedi periferiche e la base non erano direttamente dipendenti alle decisioni del presidente. In realtà, il FUAN non era un’organizzazione nazionale, ma una federazione di gruppi di ateneo, in cui i vari dirigenti locali erano eletti da tutti gli iscritti, mentre il vertice era nominato direttamente dal partito. In questo tipo di struttura, se il presidente del FUAN dipendeva dai vertici del MSI, la base e i dirigenti periferici godevano invece di una discreta autonomia. Questi ultimi, inoltre, spesso si riconoscevano più nelle sigle locali che in quella nazionale. Ad esempio, questo era il caso del GUF (Gruppo Universitario Fiamma) di Napoli e della Caravella di Roma. Così, se la presidenza nazionale del FUAN avesse accettato le direttive del partito riguardo al movimento di contestazione, spettava ai vari dirigenti locali appoggiare o meno questa disposizione, sulla base di quello che era l’orientamento prevalente nel gruppo universitario di cui avevano la reggenza. In questo contesto, le varie ramificazioni del FUAN presenti nelle numerose università italiane potevano assumere – come fu in realtà – atteggiamenti diversi nei confronti della rivolta studentesca. Ad esempio, all’università di Milano – in cui le occupazioni erano iniziate già dal novembre del 1967 – si arrivò quasi subito alla contrapposizione frontale: gruppi di giovani neofascisti aggredirono in più occasioni gli studenti contestatori. Alla Sapienza di Roma invece la situazione fu diversa.
Fin dai primi incidenti e dalle prime occupazioni nell’ateneo romano, vi fu fra gli iscritti al FUAN-Caravella una divergenza di opinioni. Accanto a coloro che intendevano «fornire» un’«adeguata» risposta alla «sovversione comunista» e «buttar fuori i rossi dall’università» vi era chi rifiutava questa opzione e guardava al movimento come ad un fenomeno spontaneo di «rivolta contro il sistema», in cui era necessario «inserirsi» per indirizzarla verso «binari non marxisti»[20]. Nella Caravella, diretta da Sergio Coltellacci e da Cesare Perri, lentamente sarebbe prevalso quest’ultimo orientamento. Comunque, nel frattempo, vi era anche chi manteneva una collocazione ambigua. Questo era il caso del presidente della Caravella di Architettura, Sandro Tribuzi, al quale venne affidata, come rappresentante del FUAN, la redazione sul «Secolo» delle cronache dall’università[21]. Dunque, se fra i dirigenti del FUAN-Caravella, almeno per i primi due mesi del 1968, non erano ancora emersi un indirizzo unitario e un’opinione omogenea sull’atteggiamento da tenere nei confronti del movimento, il partito neofascista, in seguito ai nuovi incidenti verificatisi tra studenti e forze dell’ordine fra il 23 e il 24 febbraio, nell’università di Roma, abbandonò qualsiasi forma di tatticismo e di tolleranza. Ormai il MSI, schierandosi apertamente contro le rivolte studentesche, indicava senza mezze misure e con chiarezza chi era il “nemico”: la «teppaglia comunista». In un articolo del “Secolo” era infatti scritto:

La situazione dell’Università è ormai giunta al limite del tollerabile. La teppaglia di sinistra si è servita di alcuni motivi (forse giustificabili) di scontento per provocare l’occupazione delle sedi universitarie. E la “protesta” espressa attraverso l’occupazione ha ben presto mostrato il suo vero volto: aule lordate, suppellettili sfasciate, sporcizia dappertutto. Alle finestre dei locali occupati o dietro i cancelli le espressioni ebeti di straccioni ed invertiti colmi di capelli, lerciume e pidocchi. E, per meglio chiarire la situazione nel suo significato sostanziale, questa plebaglia che ha saputo soltanto compiere vandalismi e porcherie di ogni genere, ha ricevuto l’appoggio entusiastico di tutta la stampa di sinistra. In breve, la cosiddetta “protesta” studentesca […] si è svelata per una manovra demagogica delle sinistre tendente a portare il caos (più di quanto non ve ne sia già) anche nelle Università[22].

Le ragioni degli studenti
Chi erano in realtà quegli studenti neofascisti che, come abbiamo accennato, ebbero come punto di riferimento la rivista «L’Orologio» e che contrariamente alle direttive del MSI presero parte alle rivolte universitarie? Essi erano semplicemente studenti che, trovandosi in linea con alcune posizioni del movimento studentesco cercarono di collocare su di un piano inferiore la polemica fascismo-antifascismo.

I giovani che protestano sono studenti, – è scritto su «L’Orologio» – sono cioè della gente che vive ancora la pur breve ma affascinante stagione del non trovarsi inseriti e integrati (ma perché non dire senz’altro imprigionati?) nel sistema sociale che inesorabilmente attende con i suoi ingranaggi; i giovani che protestano sono studenti, cioè gente alle prese con quei fatti della cultura e dell’intelletto che, specialmente nella fase dell’apprendimento, sono, tra i fatti umani, i più liberi dall’immediata strumentalizzazione degli interessi materiali; i giovani che protestano sono giovani, cioè gente che ancora conosce la spinta della pressione biologica ad aggredire con calore la vita e la società[23].

Quei giovani neofascisti consideravano il sistema universitario obsoleto. In un articolo de «L’Orologio», dal titolo eloquente – Università e tromboni – era scritto che la crisi dell’università era reale, perché la società italiana di «ieri» non poteva essere in grado di affrontare i problemi del «domani».

[La crisi dell’università] è una crisi di tutta una Nazione, di un suo sistema, di un suo modo di vita che si scontra con le esigenze poste da una nuova realtà […]. È troppo comodo limitarsi a spiegare la crisi dell’Università con il sovraffollamento, la mancanza di attrezzature, la insufficienza dei fondi, l’inadeguata preparazione dei docenti e così via. Le radici della crisi, infatti, stanno proprio nell’università in se stessa[24].

Il sistema universitario rispondeva «perfettamente» ai principi della società liberale; era ritenuto, cioè, un mero strumento atto al mantenimento del potere nelle mani di pochi. Spesso accadeva che le cattedre – come veniva denunciato anche dallo stesso movimento studentesco – fossero usate per trovare una «sistemazione» ai ministri.

Il regime si è posto – continuava l’articolo – sin dai suoi inizi l’obiettivo della «scuola democratica» quale strumento per educare le nuove generazioni; dopo venti anni si trova con un’Università strutturata come quella dell’anteguerra, che scricchiola di fronte alle nuove esigenze. Tutto quello che ha saputo fare è di averla trasformata in deposito per i propri tromboni![25]

Le tematiche – proprie anche del fascismo –, come ad esempio rivoluzione e contestazione al sistema e, per certi versi, anche opposizione all’ordine borghese, attraverso le quali i giovani studenti di destra si sentivano accomunati ai propri coetanei di sinistra, erano proprie della cultura politica del neofascismo italiano, e non solo, fin dalla nascita della Repubblica. Continuarono ad esserlo per quasi tutto il dopoguerra: l’opposizione al sistema partitocratrico fu sempre un cavallo di battaglia non solo del MSI ma anche delle organizzazioni extraparlamentari a latere di esso. Invece, ad avere in questo contesto particolare interesse è il significato che assunse per i giovani contestatori neofascisti tale opposizione ad un sistema, in cui già si riconoscevano come «proscritti», come, per dirla con Marco Tarchi, «esuli in patria». In una testimonianza riportata nel libro, A Valle Giulia, scritto, anni dopo, in forma volutamente anonima da alcuni studentineofascisti che parteciparono agli scontri di Valle Giulia, è riportato:

Era una generazione in rivolta, la nostra stessa, in fondo […] Non si vuol fare della rievocazione, solo uno spaccato di un momento vissuto intensamente a vent’anni. Però è bene precisare: rivolta generazionale sì, confusione di idee, peggio, di identità, no […]. Loro avevano da uccidere il padre, per dirla con Freud, e lo chiamavano “la resistenza tradita”; noi avevamo alzato altari e roghi nella notte a memoria di un padre avvolto in bandiera rosso-nera e la divisa con due gladi. Però, il padre che loro leggevano a tutto tondo grigio e ormai in pantofole era lo stesso che aveva sparato alle spalle al nostro. Allora, dar loro una mano non ci appariva correità, ma atto di giustizia[26].

Quella “generazione in rivolta” fece propria un’altra parola d’ordine del movimento studentesco: l’antiautoritarismo. Il concetto di gerarchia[27], che giocava nell’area di destra un ruolo fondamentale, iniziò a vacillare in nome di una profonda critica all’autorità costituita; quell’autorità in primis era rappresentata, come abbiamo visto, dai propri padri politici[28]. Quei giovani neofascisti infatti avevano sì scelto di militare a destra, ma lo avevano fatto in un modo differente rispetto ai propri predecessori, poiché la maggior parte di essi era nata dopo la guerra e del fascismo non avevano vissuto pressoché nulla.
Se il movimento di contestazione studentesca di sinistra esplicitò in primo luogo un’estrema ed irriverente opposizione verso le istituzioni, le strutture sociali, il potere precostituito, da destra, si riconosceva piena legittimità solo all’autorità scientifica.

L’Unica Autorità che vige nell’Università e l’unica che possa esistere all’interno di una vera Università – è scritto in un documento prodotto durante le occupazioni studentesche da un gruppo universitario neofascista – l’Autorità Scientifica. Per Autorità Scientifica si intende l’autorità che emana dalla scienza o, più generalmente del sapere e che si individua o si localizza necessariamente in coloro che, per il loro alto grado di sapere e di eticità, si impongono e dirigono l’attività degli altri. È evidente che una simile autorità si attiene esclusivamente a quella che è l’attività di studio e la predisposizione delle modalità che tale attività permettono e rendono più spedita e libera[29].

Il rifiuto dell’autorità non si esplicitò solo nei confronti delle autorità accademiche, ma anche verso altre forme di potere costituito. Ecco come «L’Orologio», attraverso la testimonianza di due anonimi giovani universitari neofascisti, commentò i fatti del 1° marzo a Valle Giulia, nel momento in cui gli scontri fra gli studenti e le forze dell’ordine si erano fatti più duri:

“Una scena indescrivibile – aggiunge A. P. P., di Medicina, […] – a ripensarci mi viene da ridere. Ci facevamo sotto insieme ai comunisti, ma loro gridavano: polizia fascista! Noi cantavamo All’armi!” […]. “Poi hanno preso fuoco i mezzi della Polizia – dice T.C., uno studente di biologia […]. – Non si è potuto scoprire chi sia stato […]. In mezzo a quella sarabanda le fiamme facevano un effetto terribile. Veniva voglia di arrampicarsi sul tetto di Architettura e godersi la scena suonando la lira come Nerone… Poi le guardie hanno alzato le mani. Non volevamo credere ai nostri occhi, ma era proprio così, stavano tutti con le mani in alto! ”[30]

Comunque, quell’avvicinamento iniziale fra giovani di opposte tendenze politiche, tanto decantato da «L’Orologio» come uno «scacco» contro il conformismo borghese, era destinato, di lì a poco, a non avere conseguenze significative; e le parole dell’allora presidente della Caravella, Perri, con le quali egli descriveva la situazione del movimento studentesco a Roma immediatamente dopo i fatti di Valle Giulia, non avrebbero avuto seguito.

Innanzitutto le agitazioni – disse Perri – hanno chiaramente dimostrato che la gioventù è pronta a recepire i discorsi antisistema e questo si è visto a Valle Giulia […]. È un’intera generazione che si ribella contro il sistema […]. Risultati particolarmente importanti li abbiamo […] conseguiti nel nostro ambiente. Nel giro di pochi giorni siamo riusciti a distruggere una mentalità passiva, avendo molto coraggio, anche in piazza. Ma questa battaglia deve essere continuata. Valle Giulia finirebbe per diventare un fatto negativo, se non gli diamo un seguito. Noi continueremo la nostra battaglia nel campo universitario[31].

Tuttavia, dopo i ripetuti richiami all’ordine lanciati dalla segreteria del MSI, come aut aut in nome della fedeltà al partito, e diretti ai quei giovani militanti neofascisti che ancora continuavano a partecipare alle assemblee del movimento studentesco, i vertici del MSI decisero di porre fine a quella che ritenevano essere la «marcia rossa» all’università. La mattina del 16 marzo del 1968, così, con la cosiddetta «spedizione punitiva» all’università di Roma, guidata da due leader del MSI, Caradonna e Almirante, chiamata a cacciare gli «stracci rossi» dall’ateneo e i giovani eretici di destra, venne ripristinato l’ordine. Quell’evento, oltre che determinare la rottura definitiva fra le due generazioni, produsse un’effettiva frantumazione delle organizzazioni giovanili di destra e, come ha sostenuto anni più tardi un esponente del partito neofascista, Giuseppe Niccolai, una vera e propria diaspora all’interno del mondo giovanile di destra.
Comunque, quell’esperimento, appena abbozzato di partecipazione alla contestazione giovanile, provocò nelle fila neofasciste un reale corto circuito dal punto di vista culturale, oltre che organizzativo. Il '68 rappresentò una sorta di trauma poiché spinse in qualche modo i giovani neofascisti a «ripensare» se stessi e a «rispondere» sullo stesso piano e con gli stessi mezzi dei propri coetanei di sinistra a quella che essi, per primi, percepivano come una rivolta generazionale[32].
Si potrebbe ipotizzare che la successiva nascita di gruppi come Organizzazione Lotta di Popolo a Roma o Avanguardia di Popolo[33] a Napoli dipese anche da quello scombussolamento ideologico e, per certi versi, antropologico, come se quella sorta di confusione riuscì in qualche modo a prendere forma.
Ad esempio, Organizzazione Lotta di Popolo, fondata nel 1969, con il preciso scopo di cercare e creare uno spazio che permettesse a tutti gli studenti non comunisti di continuare – dopo le conseguenze degli episodi del 16 marzo – ad organizzarsi all’interno delle università, era caratterizzata da un’estrema originalità. L’atipicità del gruppo risiedeva nel suo eclettismo ideologico, ossia nell’intento di coniugare riferimenti dottrinali tradizionalmente appartenenti all’armamentario della destra con altri provenienti dalla cultura di sinistra. Il movimento, ad esempio, nella volontà di abbattere gli steccati e di cancellare divisioni e incomprensioni fra destra e sinistra, si sforzava di coniugare l’opera di Nietzsche e di Céline con quella di Malcom X e con gli scritti di Mao.
Sarebbe interessante chiarire se effettivamente il movimento di contestazione e soprattutto l’intento esplicitato da alcuni giovani neofascisti di partecipare alla protesta come reali protagonisti in nome di una possibile unità generazionale produsse degli effetti visibili negli anni successivi. Quell’esperimento appena accennato probabilmente condusse alla definizione di tematiche comunque già presenti nel panorama della destra neofascista, estremizzandone però i contenuti. Basti pensare all’opposizione al sistema borghese, che negli anni settanta divenne uno dei principali cavalli di battaglia di numerosi gruppi i quali teorizzarono – anche sotto l’influenza di nuovi riferimenti culturali – un attacco frontale allo Stato, in quanto piena espressione della società borghese.

Bibliografia
A Valle Giulia, Roma, edizioni Publicondor, 1990
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Castellacci Mario, Quarant’anni, «L’Orologio», n. 1, giugno 1963, 23
Chiarini Roberto, Il problema storico di una destra illegittima, «Democrazia e Diritto», n. 1, 1994
Gli studenti nazionali insorgono contro il totale caos per tutelare la libertà di studio e l’ordine negli atenei. Fuori la teppa dall’università!, «Il Secolo d’Italia», n. 47, 25 febbraio 1968
Guerrieri Loredana, Le strategie di destabilizzazione viste nella pubblicistica dell’estrema destra. La rivoluzione si sa è come il vento… non la si può fermare, le si può solo far perdere tempo, in Dondi Mirco (ed.), I Rossi e i Neri, Terrorismo, violenza e informazione negli anni Settanta, Nardò (Lecce), Edizioni Controluce, 2008
I docenti del tumulto, «Il Secolo d’Italia»,n. 52, 2 marzo 1968, 1 e 8
Ignazi Piero, La cultura politica del Movimento Sociale Italiano, «Rivista italiana di Scienza Politica», n. 3 1989
Il Saggiatore, Le ali dei giovani, «L’Orologio», 31 marzo 1968, 4
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Lucci Chiarissi Luciano, Editoriale, «L’Orologio», n. 1, giugno 1963, 1-2
Lucci Chiarissi Luciano, Per una nuova iniziativa politica. Un inedito del 1974, «Rivista di Studi Corporativi», n. 1-3, gennaio-giugno 1990, 25-40
Mantovani Cesare, Università in rivolta, «Il Secolo d’Italia», n. 36, 13 febbraio 1968, 1 e 8
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Tassani Giovanni, La nuova destra, «Democrazia e Diritto», n. 1, 1994
Una carnevalata che è durata anche troppo, «Il Secolo d’Italia», n. 47, 25 febbraio 1968, 1 e 5.
Vulpitta Romano, Università e tromboni, «L’Orologio», n. 4, 29 febbraio 1968, 5-6.

Questo articolo si cita: L. Guerrieri, La giovane destra neofascista italiana e il '68. Il gruppo de «L'Orologio», «Storicamente», 5 (2009), http://www.storicamente.org/07_dossier/sessantotto-guerrieri.htm

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