sabato 23 marzo 2013

Aldo Moro la morte


ALDO MORO: UN OMICIDIO CENTRAL INTELLIGENCE AGENCY


Roma, 16 marzo 1978, strage in via Fani e rapimento di Aldo Moro



di Gianni Lannes

Cinque processi e due commissioni parlamentari. Risultato? Ufficialmente, il nulla, nonostante i numerosi riscontri probanti. Nessun colpevole, ovvero: ancora ignoti i mandanti altolocati italiani e d’oltre Atlantico. In compenso è stato propinato il solito copione di Stato, pilotato con sottofondo P2 (società eversiva finanziata e protetta dalla CIA): depistaggi, omissioni, insabbiamenti e strani decessi come per Ustica. Eppure, i fatti sono di per sé eloquenti e sotto i nostri occhi distratti. 

Il Governo dell’epoca - Andreotti & Cossiga che ricevette un plauso ufficiale dall'amministrazione presidenziale del democratico Carter per la "buona riuscita dell'operazione" - era perfino a conoscenza del luogo di prigionia di Moro, riferito anzitempo dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Strage, sequestro e omicidio in appalto ai servizi segreti del Governo nord-americano infiltrati nelle brigate rosse. I morti sono sottoterra, dimenticati dai più. Gli assassini invece sono liberi ed impuniti. Mentre l’Italia è sempre sotto il padrone USA

Sulla lapide dell'agguato di via Fani a Roma non si legge chi ha ucciso lo statista Aldo e Moro e i cinque uomini della scorta, barbaramente trucidati da professionisti militari, non certo brigatisti alle prime armi (Morucci compreso) sotto la supervisione dell’ufficiale dei servizi segretiGuglielmi, presente in loco la mattina del 16 marzo 1978 (come accertato inequivocabilmente dalla Commissione parlamentare di inchiesta). Anche se poi nel 2003, l'allora ministro Martino (aspirante piduista) in risposta all'interrogazione del deputato Walter Bielli, negò la presenza di Gugliemi, mentendo spudoratamente e senza alcun conseguenza penale. E nulla è scritto su quella targa comemorativa della minaccia di morte rivolta dal criminale Henry Kissinger (esponente di spicco del Bilderberg Group e del Comitato mondiale dei 300) al presidente Aldo Moro

Sul muro di quella tragica via di Roma all’incrocio con via Stresa, c'è una lapide, protetta da un vetro, che ricorda gli angeli custodi di Moro (a tre dei quali è stato inflitto il colpo di grazia da un killer della Nato). «In questo luogo cinque uomini, fedeli allo Stato e alla democrazia, sono stati uccisi con fredda ferocia mentre adempivano al loro dovere». Non si legge di Aldo Moro, come se quegli uomini non fossero morti per il presidente della Dc. Non si legge dei terroristi telecomandati delle Brigate rosse. Chi ha ucciso quegli uomini e perché? Non c'è scritto nulla degli insospettabili membri a Firenze della direzione strategica delle Br. E niente c’è scritto di Igor Markevitch, marito in secondo nozze di una Caetani della nobiltà nera capitolina. E neppure vi è scritto della prigionia di Moro nella stessa via Caetani, nei presso di un palazzo del Sisde (il servizio segreto civile).

Quel giorno il traffico non era intenso. Le due auto - una 130, un'Alfetta - scendevano veloci dalla collina Trionfale quando la Fiat 128 di Mario Moretti con una targa rubata del Corpo diplomatico frenò di botto all'incrocio. Fu allora che gli altri, con gli impermeabili blu, i berretti da piloti dell'Alitalia, uscirono da dietro la siepe con pistole e mitragliatori. Spararono 91 proiettili contro i cinque uomini della scorta di Moro, il marescialloOreste Leonardi, i brigadieri Domenico Ricci e Francesco Zizzi, gli agenti di polizia Giulio Rivera e Raffaele Iozzino - il solo che riuscì a replicare con due colpi. Furono sterminati in una manciata di secondi.

Ero un ragazzino e quel giorno appresi la notizia a scuola, ma il ricordo si è cristallizzato in me, ed è come se fosse ora. Non c'è chi non ricordi dov'era e con chi in quel momento, che cosa disse e fece in quel momento preciso quando seppe che cosa era accaduto a Roma. Per chi ha l’età del ricordo, non c'è chi non abbia ancora negli occhi - al punto da poterne avvertire ancora l'ansia del filmato televisivo della Rai - i parabrezza frantumati, i fori neri nell'auto bianca, il corpo di Iozzino a braccia larghe coperto da un lenzuolo bianco e la macchia di sangue sull'asfalto - densa, scura - un caricatore vuoto accanto al marciapiede nel piano sequenza di 3 minuti e 12 secondi dell'operatore del telegiornale che accompagna la voce ansimante di Paolo Frajese.  

Non bisogna chiedersi per quale ragione i dilettanti allo sbaraglio delle br hanno rapito il presidente Moro e si accingevano a liberarlo avendo richiesto in cambio un riconoscimento politico, ma perché buona parte delle forze politiche, in primis la ditta Andreotti & Cossiga, compreso il corrotto Craxi (che voleva approfittare della situazione per emergere), nonché la CIA, il Mossad e i servizi segreti italiani (Sismi e Sisde), ne hanno decretato la morte.
E’ sufficiente leggere attentamente il memoriale di Moro (perfino la versione apocrifa) - o comunque mettere a confronto le due versioni: quella rinvenuta a Milano in via Montenevoso nel 1978 e quella del 1990 - per comprendere la logica perversa del doppio ostaggio. Vale a dire: i segreti rivelati da Aldo Moro sul conto della NATO.
Per sciogliere il cosiddetto mistero, bastava torchiare a dovere Morettiaffiliato all'Hyperion di Parigi (quello che ha materialmente assassinato il 9 maggio 1978 il presidente Aldo Moro, sparandogli a bruciapelo) e Morucci, come gli specialisti delle forze dell’ordine (polizia e carabinieri) sanno fare quando vogliono.

Ci sono tanti di quegli elementi probanti per procedere speditamente alla revisione processuale ed aprire un nuovo e decisivo processo ai responsabili nazionali ed internazionali. Cosa si aspetta?  Ecco alcune evidenze: la stampatrice in possesso delle br proveniente dai servizi di sicurezza italiani (Rus), la scomparsa di alcune foto scattate da un testimone oculare in via Fani e consegnata al sostituto procuratore Luciano Infelisi, la sparizione addirittura di alcuni verbali di interrogatorio, il mancato ritrovamento nell’auto del presidente Moro di due (contenenti documenti estremamente riservati) delle cinque borse dalle quali lo statista non si separava mai, la composizione quasi totalmente piduista del comitato costituito presso il ministero dell’Interno da Cossiga con il compito di seguire la vicenda del sequestro. 

Soprattutto: il ruolo del consulente personale del ministro Francesco Cossiga (il più autorevole depistatore italiota) Steve Pieczenik (laureato ad Harvard in psichiatria e al Massachussets Intitute of Technology), vice assistente del segretario di Stato, capo del servizio antiterrorismo del dipartimento di Stato degli USA. Il suo ufficio venne creato personalmente da Henry Kissinger.  Secondo Sergio Flamigni (il più autorevole studioso del caso Moro) «Pieczenik diede consigli su un certo numero di strategie e tattiche molto sofisticate, che però sono rimaste segrete”. Alla Commissione parlamentare d’inchiesta Cossiga ebbe a dire in proposito soltanto questo: «Il governo degli Stati Uniti ci ha garantito una qualificata collaborazione a livello di gestione della crisi».

Nel settembre 1974, una settimana prima del viaggio ufficiale del presidente della Repubblica Giovanni Leone e dell’allora ministro degli esteri Aldo Moro negli USA, su consiglio di Kissinger, il presidente Gerald Fordammise che il suo governo era intervenuto tra il 1970 ed il ’73, per rovesciare Salvador Allende in Cile: «Abbiamo fatto ciò che gli Stati Uniti fanno per difendere i loro interessi all’estero» (conferenza stampa di Gerald Ford, Washington, 17 settembre 1974).

Lo stesso Kissinger tornò sopra l’argomento tre giorni dopo l'arrivo della delegazione italiana: «Ci rimproverate per il Cile. Ci rimproverereste ancora più duramente se non facessimo nulla per impedire l’arrivo dei comunisti al potere in Italia o in altri paesi dell’occidente europeo» (New York Times, 27 settembre 1974).

lo statista ALDO MORO.      il criminale Henry Kissinger


Al ritorno da quel viaggio, Moro apparve profondamente turbato: infatti comunicò al suo collaboratore Corrado Guerzoni, la volontà di ritirarsi dall’attività politica per due o tre anni, e confidò alla moglie il motivo principale della sua preoccupazione: «E’ una delle pochissime volte in cui mio marito mi ha riferito con precisione che cosa gli avevano detto. Adesso provo a ripeterla come la ricordo: Onorevole (detto in lingua inglese naturalmente), lei deve smettere di perseguire il suo piano politico per portare tutte le forze del suo paese a collaborare direttamente. Qui, o lei smette di fare questa cosa, o lei pagherà cara. Veda lei come vuole intendere – La frase era così. E’ una cosa che a me ha fatto molta impressione. Sono rimasta a meditarci a lungo, da allora in poi» (Testimonianza di Eleonora Moro, 19 luglio 1982, in Commissione Moro, vol. LXXVII, Atti giudiziari 1a corte d’Assise di Roma interrogatori di imputati processo Moro e Moro-bis, udienza del 19 luglio 1982, Roma, Tipografia del Senato, 1993, pp. 51-52; il file dell’Archivio storico on-line del Senato risulta essere danneggiato; Commissione parlamentare di inchiesta, vol. V, pagg. 5-6).

Tra i protagonisti politici dell’epoca è stato il socialista Claudio Signorile a sostenere che, nei giorni precedenti l’uccisione di Moro, le Br stessero attuando un cambiamento di strategia, causato da pressioni di servizi segreti stranieri (Audizione dell’onorevole Claudio Signorile, 20 aprile 1999, in Commissione stragi, 13a legislatura, 51a seduta). All’inizio, per le Br, uccidere Moro non sarebbe stato necessario; a loro sarebbe bastato restituirlo in condizioni tali da costringerlo a ritirarsi dalla vita politica (una soluzione che peraltro lo stesso Moro aveva già ipotizzato prima di essere sequestrato): questo risultato avrebbe potuto soddisfare i brigatisti, simbolica contro lo Stato che combattevano, sarebbe stato utile per il mantenimento degli equilibri internazionali (e avrebbe fatto il gioco di Usa e Urss), e avrebbe grandemente avvantaggiato una parte della maggioranza democristiana e gli stessi socialisti. 

Questo scenario sarebbe suffragato dalla posizione espressa su OP dal giornalista investigativo Mino Pecorelli (assassinato il 20 marzo 1979, mentre si accingeva a fare rivelazioni bomba sul caso Moro), in una fantomatica lettera al direttore (molto probabilmente prefabbricata dallo stesso per lanciare alcune ipotesi), in cui si affermava che “il ministro di polizia sapeva tutto, sapeva perfino dove era tenuto il prigioniero, dalle parti del ghetto ebraico” e si avanzava l’ipotesi che Moro sarebbe stato liberato il 9 maggio (OP, 17 ottobre 1978). 

Non solo dal “carcere brigatista” ma anche in precedenza risulta che Moro apparisse alquanto preoccupato dei rapporti tra i servizi segreti stranieri e quelli italiani. Già nel 1977, come sostengono Galloni e Roberto Gaja, ambasciatore italiano a Washington, secondo Moro i servizi segreti di alcuni paesi alleati, come la Cia e il Mossad, non fornivano informazioni utili al governo italiano riguardo i loro eventuali infiltrati nelle organizzazioni delle Br, o comunque, qualora le fornissero, evidentemente esse non pervenivano alle persone giuste. molti dei membri dei servizi segreti italiani di quegli anni, come è risultato più recentemente, erano controllati dalla loggia P2 (G. Galloni, 30 anni con Moro, cit., p. 220; S. Flamigni, Le idi di marzo, cit., p. 254). Non era la prima volta che Moro incappava in complicazioni di questo genere. Non molti sanno che già in tempi lontani, alla vigilia del tentativo di “golpe bianco” di Edgardo Sogno, Moro, il 4 agosto 1974, secondo la testimonianza della figlia Maria Fida, per raggiungere la famiglia a Bellamonte, avrebbe dovuto viaggiare sul treno Italicus (che poche ore dopo sarebbe stato colpito da un sanguinoso attentato organizzato da gruppi neofascisti toscani e servizi segreti deviati), da cui tuttavia, incredibilmente, poco prima che partisse, venne fatto scendere, grazie all’intervento di alcuni collaboratori (Cfr. Maria Fida Moro, La nebulosa del caso Moro, Milano, Selene Edizioni, 2004; Giovanni Fasanella, Antonella Grippo, I silenzi degli innocenti, Milano, Bur, 2006, p. 114; Giorgio Bocca, Gli anni del terrorismo, Roma, Armando Curcio, 1988, pp. 291-293). 

Durante i giorni del sequestro, Raniero La Valle scrisse parole che, lette oggi, risultano profetiche: «Mia convinzione è che queste brigate [...] siano solo l’iceberg di un potente avversario che gioca su molti tavoli, non tutti clandestini, che riemerge a sinistra dopo essere stato battuto a destra, che non solo usa carte d’identità false, ma anche falsi nomi, falsi gerghi e dichiara falsi obiettivi [...]. Per difendersene, lo Stato deve difendersi anche da se stesso, da ciò che alberga dentro di sé, nelle proprie stesse strutture, dalle sue inadempienze, dalle sue deviazioni [...] Dopo Moro gli sconfitti di ieri si muoveranno per la rivincita e quanti sono riusciti a far prevalere finora un progetto politico lungimirante, si troveranno a fronteggiare delle prove assai dure. Allora non ci sarà più il crudele, irriconoscibile volto del terrorismo. I conti ce li presenteranno signori inappuntabili e incensurati [...]. E allora sì che dovremo trattare (Raniero La Valle, Moro non è soltanto una vita, “Paese sera”, 24 aprile 1978).

Morte preannunciata - Che Moro dovesse fare una brutta fine era un’idea molto diffusa già negli anni precedenti ai giorni del sequestro. Nel 1976 il regista Elio Petri, nel film Todo modo, tratto dall’omonimo romanzo di Sciascia, con la sua visione surreale, grottesca e apocalittica, descriveva una riunione di notabili democristiani tenutasi in una sorta di convento-albergo, apparentemente per degli esercizi spirituali ma in realtà per una trattativa concernente la spartizione del potere, alla fine della quale il presidente - in cui erano facilmente ravvisabili moltissimi tratti di Moro - interpretato anche in quell’occasione dall’attore Gian Maria Volonté, veniva assassinato. Qualche tempo prima del sequestro, anche il regista Pier Francesco Pingitoreallestì uno spettacolo al Teatro del Bagaglino in cui Moro veniva rapito proprio in via Fani. Ma, ancora più delle ‘premonizioni’ dei due registi, colpisce la notizia che Renzo Rossellini, direttore di Radio Città futura, la mattina del 16 marzo comunicò - circa tre quarti dopo prima - durante la consueta rassegna stampa, poco prima della strage di via Fani, la notizia che c’era appena stato un attentato all’onorevole Moro (Claudio Signorile, Anti Craxi, filo Craxi, anti Craxi e adesso ricco pensionato, intervista con Claudio Sabelli Fioretti, “Sette”, 18 ottobre 2001; audizione dell’onorevole Claudio Signorile, 20 aprile 1999, cit. a nota 131; audizione del dottor Franco Piperno, 18 maggio 2000, in Commissione stragi, 13a leg., 68a seduta; audizione del dottor Lanfranco Pace, 3 maggio 2000, in Commissione stragi, 13a leg., 67a seduta).

A parte gli elementi di ambiguità, secondo Giovanni Pellegrino (dal 27 settembre 1996 al 29 maggio 2001 presidente della Commissione parlamentare di inchiesta) sono emersi alcuni ulteriori elementi, cruciali secondo lo stesso Pellegrino: «la sparizione di una documentazione fotografica, scattata dal carrozziere Gherardo Nucci, pochi minuti dopo il rapimento, sul luogo della strage; il blocco delle linee telefoniche della zona al momento del sequestro; la scoperta tardiva del covo di via Gradoli (dal quale si sapeva già che qualcuno trasmetteva in alfabeto Morse); la mancata cattura dei brigatisti la mattina dell’uccisione di Moro; l’impossibilità che fossero i brigatisti ad avere ucciso con precisione millimetrica gli uomini della scorta di Moro. In particolare quest’ultimo aspetto vale la pena di essere sottolineato: infatti, dagli atti del processo risulta che alla strage di via Fani abbia partecipato un tiratore scelto, rimasto ancora senza nome, che sparò più della metà dei circa novanta colpi di pistola esplosi. È stato infatti accertato che a nessuno dei brigatisti arrestati e di quelli indicati nei vari processi poteva essere attribuita una simile caratteristica di tiratore scelto». 

A questo proposito è utile osservare che, secondo il perito balistico professor Antonio Ugolini (perizia messa agli atti nel primo processo Moro), i bossoli ritrovati in via Fani risultavano provenire da proiettili in dotazione esclusiva di forze statali non convenzionali (intervento di Luigi Cipriani, in Atti parlamentari. Camera dei deputati, Discussioni, 10a legislatura, seduta dell’11 gennaio 1991, resoconto stenografico, consultabile on-line nel sito della Camera dei deputati, Legislature precedenti, X legislatura pp. 77517-77520).

A parere del fratello di Moro, non fu effettuata per moltissimo tempo alcuna perizia giudiziaria per valutare se i risultati dell’autopsia del cadavere fossero compatibili con le testimonianze fornite dai brigatisti (A.C. Moro, Storia di un delitto, cit., pp. 62-63). In effetti, successivamente, secondo alcune perizie sul parafango esterno della Renault 4, sono stati ritrovati dei filamenti di fibre vegetali, tracce che, secondo gli esperti, sarebbero volate via qualora il percorso dell’automobile fosse stato più lungo anche di pochi metri. Nella sua prima lettera a Cossiga, Moro gli aveva fornito alcune indicazioni criptate circa il luogo dove era stato portato, perché sapeva, per il tempo impiegato nel percorso da via Fani alla “prigione del popolo”, di trovarsi sicuramente nel centro di Roma e probabilmente questa sua certezza era anche confortata da qualche segno acustico (Leonardo Sciascia, L’affaire Moro, Sellerio, 1978).

Questo, alla luce delle ultime perizie, appare un dato incontrovertibile, che contrasta totalmente con le affermazioni dei brigatisti circa l’esistenza di un’unica “prigione”. Inoltre, dai risultati dell’autopsia compiuta sul corpo di Moro il pomeriggio del 9 maggio, disponibili dal 2001, è emerso un altro dato che contrasta con quanto sinora è stato affermato: alle 16.30 il cadavere era ancora caldo (32,5° C), praticamente senza segni di rigor mortis. Il decesso, secondo i periti, è avvenuto, dunque, tra le 9 e le 10 del mattino, e non di primo mattino, intorno alle 6, come hanno finora sostenuto i terroristi(Il Corriere della Sera, 9 maggio 2001).

Roma, 9 maggio 1978, il ritrovamento del cadavere di ALDO MORO in via Caetani


Aldo Moro con tutta probabilità era prigioniero nell’insospettabile palazzo Caetani, nel cuore di Roma, nei pressi di un immobile del Sisde. Ecco quanto ha dichiarato Giovanni Pellegrino sul conto di Markevitch (marito di una Caetani):

 «Agli atti della commissione Moro era allegato un rapporto del Sismi in cui si diceva che, secondo alcune fonti, un certo Igor Caetani - che poi abbia scoperto essere invece Igor Markevitch – poteva essere uno dei cervelli del sequestro Moro, addirittura uno di quelli che conducevano l’interrogatorio nella prigione di via Montalcini; ma la pista era stata poi abbandonata perché non portava a niente. Quell’appunto veniva da un ufficiale di grado elevato, l’attuale generale Cogliandro, il quale dichiarava attendibile la fonte dell’informazione. Il Sismi decise però che quella pista non portava da nessuna parte. Le ragioni di questa valutazione sono però rimaste misteriose. Abbiamo chiesto spiegazioni al Servizio militare, ma nessuno ci ha risposto» (Fasanella, Sestieri, Pellegrino,Segreti di Stato, Einaudi, 2000).


Esecuzione ravvicinata - Lo statista Aldo Moro non fu ucciso in via Camillo Montalcini, 8. La mattina del 9 maggio i suoi carcerieri lo fecero vestire con gli stessi abiti di marzo. Fecero sistemare Aldo Moro nel bagagliaio. Il corpo di traverso appoggiato sul fianco sinistro. Gli coprirono il volto con il lembo di una coperta di colore rosso bordò. Mario Moretti e Germano Maccari gli spararono con una Walter Ppk silenziata, che si inceppò subito, e due raffiche definitive di una Skorpion.  
La Renault 4 targata N56786 compie un tragitto di pochi metri. L'auto viene parcheggiata in via Michelangelo Caetani tra i civici 8 e 9 accostata allo stretto marciapiede di porfido, il muso rivolto verso via Funari. Via Caetani è una strada breve, austera, umida, buia. Ci si passa in fretta. C'è una sola macchia di colore nel grigio della pietra. È di fronte al palazzo che ospita l'Istituto di storia moderna, la Discoteca di Stato, il Centro studi americani. 

L'ombra di fronte a Palazzo Caetani è di un giallo sbiadito lungo poco più di due metri, alto tre. Al centro, la lapide ricorda: "Cinquantaquattro giorni dopo il suo barbaro rapimento, venne ritrovato in questo luogo, la mattina del 9 maggio 1978, il corpo crivellato di proiettili di Aldo Moro. Il suo sacrificio freddamente voluto con disumana ferocia da chi tentava inutilmente d'impedire l'attuazione di un programma coraggioso e lungimirante a beneficio dell'intero popolo italiano resterà quale monito e insegnamento a tutti i cittadini per un rinnovato impegno di unità nazionale nella giustizia, nella pace, nel progresso sociale".

Dicono che via Caetani sia stata una "scelta simbolica" per le Brigate rosse. Dicono che la strada è giusto nel mezzo tra il palazzo di via Botteghe Oscure, dov'era la direzione del Partito comunista, e palazzo Cenci Bolognetti che ospitava, a piazza del Gesù, la direzione della Democrazia cristiana. Dicono che quell'uomo mostrato agli occhi del Paese come un fagotto abbandonato in tutta fretta in un'auto doveva dire agli italiani quanto fosse impossibile e nefasto il patto politico del "compromesso storico". Nella costruzione di questa memoria c'è una manipolazione, uno scarto anche toponomastico. Via Caetani non è nel mezzo tra Botteghe Oscure e Piazza del Gesù. È lontano un centinaio di metri dal palazzo rosso. È in un'altra direzione rispetto al palazzo bianco. La nuova collocazione di quella strada buia nel cuore di Roma scolpisce nella memoria collettiva una rappresentazione sapientemente alterata della morte di Aldo Moro. Liquida con una scelta perentoria ogni necessità di storia. Ne confonde le logiche. Ne occulta le responsabilità. Perché rapirlo e non ucciderlo subito, lì a via Fani, con la sua scorta? Quale influenza ebbe - non sul sequestro del presidente della Dc, ma negli ambigui 54 giorni che seguirono - quell' area occulta del potere che, negli anni settanta, era particolarmente affollata di logge massoniche, servizi segreti "deviati", affaristi, neofascisti, mafiosi, funzionari, alti prelati, prenditori e politicanti che ancora oggi spadroneggiano nel Belpaese?
Kissinger & Napolitano
Dopo trentacinque anni noi non abbiamo ancora fatto i conti col nostro passato. La verità è ancora tutta da scrivere. Nel frattempo, il miglior ricordo è ancora oggi soltanto nelle parole che, nell'ora dell'addio, Aldo Moro scrisse a Norina:

«Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. A ciascuno una mia immensa tenerezza che passa per le tue mani. Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile. Sono le vie del Signore. Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo».


filmato Rai, strage di via Fani del 16 marzo 1978:

http://www.youtube.com/watch?v=m-5-stGXai8

Roma, 9 maggio 1978, via Caetani, filmato amatoriale:

http://www.youtube.com/watch?v=TOVrxtHKnOM

 http://www.youtube.com/watch?v=atmia01LF54
Gladio: 

http://www.senato.it/documenti/repository/relazioni/archiviostorico/commissioni/X%20LEG_TERRORISMO_DOC_RELAZ/X_%20LEG_TERRORISMO_DOC%20XXIII_51_22.4.92.pdf 


KISSINGER, UN CRIMINALE DI GUERRA
AL QUIRINALE CON NAPOLITANO

Kissinger e Napolitano - Foto: quirinale.it
di Gianni Lannes

Se Heinz Albert non fosse il maggiore sospettato in qualità di mandante diretto dell’omicidio di Aldo Moro e della strage della sua scorta, le 5 fotografie attualmente in bella mostra sul sito del Quirinale, dell’ex segretario di Stato Usa a colloquio sorridente con il presidente della Repubblica uscente, Giorgio Napolitano, non avrebbero rilievo politico e sociale. Ma c’è di più, Henry il potente boss politico - al servizio di ben due presidenti Usa (Nixon & Ford) è pure ricercato a livello internazionale: infatti, tempo fa, è dovuto fuggire dall’Irlanda dove la polizia stava per arrestarlo in seguito ad una segnalazione di attivisti per i diritti civili. Nel 2001, mentre Kissinger si trovava a Parigi, gli è stato recapitato un mandato di comparizione emanato dal giudice LeLoire per testimoniare sulla scomparsa di cittadini francesi in Cile durante l’era dittatoriale del suo socio generale Pinochet. Invece di presentarsi al magistrato, Kissinger ha preferito fuggire in tutta fretta. Lo stesso ex segretario di Stato USA, vanta una denuncia per concorso nell’omicidio del comandante militare cileno Renè Schneider. Nel 2001 il giudice argentino Rodolfo Corral ha emesso nei suoi confronti un mandato di comparizione per la presunta complicità nell’ ”Operazione Condor”. Ad Henry Kissinger - già membro della Trilateral Commission e del Club Bilderberg - sono imputabili crimini contro l'umanità. L'11 settembre 1973 Kissinger ebbe un ruolo di sostegno attivo ordinando l'utilizzo di caccia statunitensi per mettere a segno il colpo di Stato militare di Augusto Pinochet contro il presidente socialista cilenoSalvador Allende, eletto democraticamente. Relativamente ancora poca cosa rispetto alle accuse a ragion veduta dello sterminio di milioni di persone in vari continenti per assicurare il dominio Usa. Nello Stivale nessuno si scandalizza se piomba un macellaio - ombra nera della Cia- che ha trascorso la vita tra affari e genocidi su commissione e detta ancora legge nel nostro Paese a sovranità azzerata.
Moro e Kissinger - Foto: web.


Impunemente l’ex braccio destro di Nixon atterra in Italia e viene addirittura ricevuto in pompa magna a Villa Madama dal sodale Napolitano che lui stesso definisce “My favorite communist”. In questa tenuta di rappresentanza del ministero degli Esteri, un’associazione privata nord-americana - l’Aspen Institute - ha organizzato una conferenza. Le accuse ad Henry Kissinger si sono fatte molto pesanti, almeno all’estero, come indiscutibilmente è altrettanto forte la richiesta di molti illustri personaggi di revocare il premio Nobel assegnatogli indebitamente nel 1973. E’ certo però che se l’ex Segretario di Stato americano lanciò frasi riguardanti il golpe cileno di questa portata: «Non si può permettere che il Cile diventi marxista, per il semplice motivo che la sua popolazione è irresponsabile» le riflessioni diventano obbligatorie anche da noi. Cile, Uruguay, Argentina almeno a pelle, sangue, dna e storia non ci sono indifferenti come, il Pakistan, l’Indonesia e Timor Est.
Delitto Moro - Nel 1982 grazie alla testimonianza giurata in sede giudiziaria di Corrado Guerzoni(collaboratore di Moro) - prontamente rimossa e dimenticata dagli addetti ai lavori di pulizia ed ignota alla coscienza collettiva - l’Italia e l’Europa (ma non gli Stati Uniti) appresero che Kissinger era dietro la morte di Aldo Moro. Sicuro nella sua posizione di membro della più potente fra le società segrete del mondo, il tedesco Kranz non solo terrorizzò Moro, ma portò avanti le sue minacce di far “eliminare” l’uomo politico pugliese se non avesse rinunciato al progetto di far progredire l’economia e l’industria in Italia.
Nel giugno e luglio di 30 anni fa, la moglie di Aldo Moro, Eleonora Chiavarelli Moro, testimoniò in tribunale che l’assassinio del marito fece seguito a serie minacce di morte, esercitate da colui che lei definì «una figura politica americana di alto livello». La signora Eleonora Moro ripeté la stessa frase attribuita ad Henry Kissinger nella testimonianza giurata di Guerzoni: «O tu cessi la tua linea politica oppure pagherai a caro prezzo per questo». Richiamato dai giudici, a Guerzoni fu chiesto se poteva identificare la persona di cui aveva parlato la signora Moro. Guerzoni confermò che si trattava di Henry Kissinger, come d’altra parte aveva precedentemente dichiarato. Il giornalista Guerzoni spiegò in tribunale come Kissinger fece le sue minacce ad Aldo Moro in una stanza d’albergo durante una visita ufficiale di alcuni leader italiani. Secondo Guerzoni, Moro, che solo in seguito divenne Presidente del Consiglio e Ministro degli Esteri, era un uomo di prim’ordine, uno che non si sarebbe mai piegato a minacce ed avvertimenti di stile mafioso. Moro era accompagnato nella sua visita agli Usa dal Presidente della Repubblica in carica. Kissinger era un importante agente del RIIA, un membro del CFR e del Club di Roma.
Ecco come l’analista John Coleman ha ricostruito e documentato l’eliminazione di Moro ed il coinvolgimento di Kissinger, nel libro THE STORY OF THE COMMITTEE OF 300 (pubblicato nel 1992 e mai tradotto in Italia).
«Aldo Moro fu un leader che si oppose alla “crescita zero” e alla riduzione della popolazione pianificata dal NWO per l’Italia, per questo incorrendo nelle ire del Club di Roma, un’entità creata dagli Olympians della Commissione dei 300 per portare a compimento le sue politiche. In un tribunale di Roma, un amico intimo di Aldo Moro, il 10 di Novembre del 1982, testimoniò che l’ex Presidente del Consiglio fu minacciato da un agente della RIIA (Istituto Reale per gli Affari Internazionali) – che era anche membro della Commissione dei 300 – mentre era il Segretario di Stato USA in carica. Quest’uomo era Henry Kissinger . Moro fu rapito dalle Brigate Rosse nel 1978 ed in seguito assassinato brutalmente. Fu al processo alle Brigate Rosse che diversi di loro testimoniarono che erano a conoscenza di un coinvolgimento degli USA ai massimi livelli nel complotto per uccidere Aldo Moro. Mentre minacciava Moro, Kissinger stava agendo non in qualità di rappresentante della politica estera degli Stati Uniti, ma piuttosto secondo le istruzioni ricevute dal Club di Roma, il braccio che si occupava della politica estera della Commissione dei 300».
Nella sua esposizione di questo atroce crimine, Coleman dimostrò come Aldo Moro, un leale membro del partito della Democrazia Cristiana, fu ucciso da assassini controllati dalla loggia Massonica P2 con l’obiettivo di riportare l’Italia in linea con i piani del Club di Roma per deindustrializzare il paese e ridurre in modo considerevole la sua popolazione. Il piano di Moro di stabilizzare l’Italia attraverso la piena occupazione e la pace industriale e politica avrebbe da una parte rafforzato l’opposizione cattolica al comunismo e dall’altra reso la destabilizzazione del Medio Oriente molto più difficile. L’Italia fu scelta come paese-test dalla Commissione dei 300. L’Italia è importante per i piani dei cospiratori perché è il paese occidentale avente rapporti politici ed economici col Medio Oriente più vicino a tale area. Inoltre ospita alcune delle famiglie della Nobiltà Nera più potenti d’Europa. Se l’Italia fosse uscita indebolita dall’affaire Moro, ci sarebbero state ripercussioni anche nel Medio Oriente, e questo avrebbe indebolito l’influenza degli USA nella regione. L’Italia è importante anche per un’altra ragione: è la porta d’ingresso in Europa della droga proveniente dall’Asia e dal Libano.
Vari gruppi si sono aggregati sotto la bandiera del “socialismo” da quando si formò ufficialmente ilClub di Roma (Aurelio Peccei) nel 1968. Fra questi, la Nobiltà Nera di Venezia e Genova, la loggia Massonica P2 e le Brigate Rosse, tutti operanti per i medesimi scopi. Investigatori della Polizia a Roma che operavano nel caso di Aldo Moro rapito dalle Brigate Rosse incapparono nei nomi di diverse potenti famiglie italiane che operavano in modo stretto con i terroristi. La Polizia scoprì anche che in almeno una dozzina di casi, queste potenti famiglie bene in vista avevano messo a disposizione le loro case o proprietà come covi sicuri per le Brigate Rosse.
La “nobiltà” finanziaria internazionale opera analogamente per distruggere la Repubblica Italiana, ed un grande apporto è stato offerto da Richard Gardner anche nel periodo in cui svolgeva il ruolo di ambasciatore del presidente Carter a Roma. Non a caso la recensione di Giorgio Napolitano al libro di Gardner (Mission: Italy) - che “re Giorgio” chiama affettuosamente “Dick” - è stata pubblicata proprio dalla rivista Aspenia (numero 27, anno 2004) è oltremodo illuminata. Insomma, tutto torna prima o poi, basta dare un’occhiata ai contenuti reali senza farsi confondere dagli abbagli. Nel Gruppo dei 300 figurano anche gli italiani Giovanni Agnelli, Umberto Ortolani (il vero deus ex machina della P 2) e Carlo De Benedetti.
16 marzo 1978 - «49 dei 92 proiettili che furono ritrovati in via Fani erano ricoperti da una particolare vernice a lunga conservazione - specifica l’esperto storico Gianni Cipriani - ed erano senza la data di fabbricazione. La prima perizia parlò di proiettili un uso a forze armate non convenzionali».
Colpì la geometrica potenza. Le brigate rosse non avevano la forza né la capacità di portare a termine un sequestro militarmente così complesso. Si trattava di un’organizzazione fatta da giovani con poca o scarsa esperienza bellica. A parte gli infiltrati dei servizi segreti, addestrati a Capo Marrargiu in una base di Gladio. E poi un rapimento in pieno giorno nel centro di Roma, nella primavera del 1978, tutte le sue guardie del corpo freddate in pozze di sangue. Inverosimile.
Federico Umberto Valerio, a capo per decenni dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale, nonché fondatore, anzi “padrino” (come amava ricordare e farsi chiamare) del Club di Berna - che riunisce i servizi segreti europei, elvetici ed Usa - si è vantato che «Le brigate rosse erano ampiamente infiltrate». Inoltre, tutti i componenti delle br erano noti agli ambiti di comando superiore di carabinieri, polizia e servizi segreti.
Lo storico dell’intelligence italiana, Gianni Cipriani così argomenta: «Valerio Morucci il brigatista che fu arrestato non molto temo dopo l’eliminazione di Aldo Moro aveva un’agenda piena di documenti e di numeri di telefono con annotazioni molto riservate. E tra queste, quella del generaleGiovanni Romeo a che era capo dell’Ufficio D del Sid, cioè l’ufficio più importante durante il sequestro. E’ stato proprio il generale che nel 2001 in Commissione Stragi ha parlato in maniera chiara della presenza di agenti dei servizi segreti all’interno delle brigate rosse». Anzi, la mattina dell’agguato sul luogo della mattanza c’era il colonnello Guglielmi dell’ufficio sicurezza interna (già addestratore di Capo Marrargiu) che interrogato in seguito ha dichiarato una cosa piuttosto singolare. Vale a dire di “essere stato invitato a pranzo da un amico alle nove del mattino”.

Anche a Giovanni Galloni - certo non l’ultimo arrivato - tornò in buona fede la memoria parecchio tempo dopo. Così riporta il settimanale L’Espresso (14 maggio 2007): «Ci sono dei fatti nuovi da scoprire e da introdurre», dice Galloni, «perché non tutte le cose su Moro sono state dette, soprattutto quelle che riguardano la sua fine». Perché solo adesso? Perché, a quasi trent'anni di distanza dalla strage di via Fani e dal ritrovamento del cadavere di Moro nel bagagliaio della famosa R4 rossa, l'ultraottantenne Giovanni Galloni avverte la necessità di riaprire questo capitolo della storia italiana e, soprattutto, della Democrazia Cristiana di cui entrambi furono esponenti di primissimo piano? Gli aspetti ancora nell'ombra, per Galloni, sono soprattutto due: «Le quattro sentenze che ci sono state sulla morte di Moro non hanno soddisfatto la magistratura. Una parte di quei magistrati, compreso il fratello di Moro, mi ha detto di aver rifiutato i verdetti dei tribunali. Sono convinti che le Br abbiamo negato di avere avuto alle loro spalle altri esecutori solo per ottenere degli sconti di pena, che ci sono stati. E ora anche questo va chiarito».
Henry Kissinger è anche proprietario della Kissinger Associates, una società che offre consulenze e contatti a multinazionali e società in genere e che annovera, o ha annoverato tra la sua clientela, le più grandi industrie mondiali come la Coca-Cola, la Daewoo, l’American Express, l’Anheuser-Bush, la Banca nazionale del Lavoro, la Fiat; particolarmente riconoscente alla K.A. è la Freeport McMoran, una società mineraria che ha in gestione la più grande miniera d’oro al mondo e che si trova a Grasberg in Irian Jaya (la parte occidentale della Nuova Guinea annessa dagli indonesiani).
A 34 anni dall’assassinio dello statista Aldo Moro le carte sono ancora vergognosamente coperte dal segreto, in palese violazione della legge 124 dell’anno 2007 che aveva stabilito il limite temporale di 30 anni alla consultazione libera.Ed il generale Dalla Chiesa ci ha rimesso la pelle insieme alla moglie, esattamente dopo le conferme e rivelazioni in tribunale sulle minacce di Kissinger a Moro.
Allora Monti sarà possibile conoscere almeno la verità sulla fantomatica seduta spiritica nella quale venne fatto il nome di Gradoli? Sarebbe l'unica volta che una "ballata degli spiriti scudo crociati" abbia avuto successo e di cui si ha conoscenza. Ed è tutto agli atti delle commissioni parlamentari d'inchiesta, ma nessuno all'epoca andò a controllare seriamente in via Gradoli a Roma, proprio dove era prigioniero il presidente Moro. Romano Prodi quando si deciderà a svelare la fonte che gli ha parlato di Gradoli? Quanti italiani sanno che Prodi ha dichiarato in due commissioni d'inchiesta parlamentari che questo nome è venuto fuori dal gioco del piattino a Bologna? 
CONSPIRATORS' HIERARCHY: THE STORY OF THE COMMITTE
E OF 300 - Dr. John Coleman
Kissinger e Napolitano – Foto: quirinale.it
Kissinger e Agnelli - Foto: web.


QUANDO AMMAZZARONO ALDO MORO



ROMA, 9 MAGGIO 1978, IL CADAVERE DELLO STATISTA ALDO MORO

Piu' regime di così! E' una vergogna! Dopo più di 30 anni dall'omicidio dello statista ALDO MORO, la relativa documentazione è ancora coperta dal segreto di Stato. 

Oggi l'ambasciatore nordamericano si permettepure il lusso, da padrone dell'Italia, di suggerire ai giovani italiani di prendere ad esempio addirittura M5S, il partito privato ed antidemocratico di Beppe Grillo!

Napolitano e Kissinger

Il Governo degli Stati Uniti d'America, all'epoca ad opera di Henry Kissinger, minacciò di morte ALDO MORO. E Kissinger come se niente fosse viene ricevuto in pompa magna dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

Ma cosa scorre attualmente nelle vene del popolo italiano? C'è qualcuna/o che ha ancora dignità, spina dorsale e cabasisi?   


                                                                   GIANNI LANNES




Ucciso Moro, Sciascia e la telefonata delle Br
Ecco il passo dell’Affaire Moro in cui Leonardo Sciascia trascrive e commenta la telefonata con la quale le Brigate rosse annunciarono la morte di Aldo Moro.

La mattina del 9 maggio il professor Franco Tritto, amico della famiglia Moro, riceve una telefonata (e non era la prima) da parte delle Brigate rosse. Registrata dalla polizia, la telefonata è stata due mesi dopo diffusa dalla radiotelevisione – con l’inconsulta speranza che qualcuno riconoscesse la voce: e si può immaginare quanti mitomani l’avranno riconosciuta e quanti malvagi avranno tentato di inguaiare qualche loro nemico o amico – e trascritta dai giornali.

BRIGATISTA. «Pronto? È il professor Franco Tritto?».

TRITTO. «Chi parla?».

B. «Il dottor Nicolai».

T. «Chi Nicolai?».

B. «È lei il professor Franco Tritto?».

T. «Sì, sono io».

B. «Ecco, mi sembrava di riconoscere la voce... Senta, indipendentemente dal fatto che lei abbia il telefono sotto controllo, dovrebbe portare un’ultima ambasciata alla famiglia».

T. «Sì, ma io voglio sapere chi parla».

B. «Brigate rosse. Ha capito?».

T. «Sì».

B. «Ecco, non posso stare molto al telefono. Quindi dovrebbe dire questa cosa alla famiglia, dovrebbe andare personalmente, anche se il telefono ce l’ha sotto controllo non fa niente, dovrebbe andare personalmente e dire questo: adempiamo alle ultime volontà del presidente comunicando alla famiglia dove potrà trovare il corpo dell’onorevole Aldo Moro».

T. «Ma che cosa dovrei fare?».

B. «Mi sente?».

T. «No; se può ripetere, per cortesia...».

B. «No, non posso ripetere, guardi... Allora lei deve comunicare alla famiglia che troveranno il corpo dell’onorevole Aldo Moro in via Caetani, che è la seconda traversa a destra di via delle Botteghe Oscure. Va bene?».

T. «Sì».

B. «Lì c’è una Renault 4 rossa. I primi numeri di targa sono N 5».

T. «N 5? Devo telefonare io» (ed è preso dal pianto).

B. «No, dovrebbe andare personalmente».

T. «Non posso...».

B. «Non può? Dovrebbe, per forza...».

T. «Sì, certo, sì...».

B. «Mi dispiace. Cioè se lei telefona non... non verrebbe meno all’adempimento delle richieste che ci aveva fatto espressamente il presidente...».

T. «Parli con mio padre, la prego...» (nel pianto, non riesce più a parlare).

B. «Va bene».

T. PADRE. «Pronto? Che mi dice?».

B. «Lei dovrebbe andare dalla famiglia dell’onorevole Moro oppure mandare suo figlio o comunque telefonare».

T. PADRE. «Sì».

B. «Basta che lo facciano. Il messaggio ce l’ha già suo figlio. Va bene?».

T. PADRE. «Non posso andare io?».

B. «Lei, può andare anche lei».

T. PADRE. «Perché mio figlio non sta bene».

B. «Può andare anche lei, va benissimo, certamente: purché lo faccia con urgenza; perché le volontà, l’ultima volontà dell’onorevole è questa: cioè di comunicare alla famiglia, perché la famiglia doveva riavere il suo corpo... Va bene? Arrivederci».

Si è voluto riportare integralmente questo dialogo perché dà luogo a delle non inutili riflessioni. La prima riguarda la durata: tra lo smarrimento di Tritto, il suo pianto, il passaggio del telefono al padre, le esitazioni e le ripetizioni del brigatista, non meno di tre minuti. Certo involontariamente, nella confusione e commozione in cui lo gettava la notizia, Tritto si è comportato come chi vuol prendere tempo e darne alla polizia. 

Poiché il brigatista telefonava dalla stazione Termini, dove c’è un posto di polizia e nelle cui vicinanze è da presumere si trovino sempre delle autopattuglie collegate per radio alla questura, prenderlo sul finire della telefonata non sarebbe stato impossibile. Questa stessa considerazione va ribaltata sul brigatista: sa che il telefono di casa Tritto è sotto controllo, sa che l’attardarsi nella telefonata può essergli fatale; eppure è paziente, meticoloso, riguardoso persino. Ripete, si lascia andare a un «mi dispiace»; e insomma diluisce in più di tre minuti una comunicazione che avrebbe potuto dare in trenta secondi. Si può spiegare questo suo comportamento con la sicurezza — che gli viene da una ormai lunga sperimentazione — di un muoversi della polizia mai a misura di minuti (e infatti: «la prima pantera biancoblù della polizia arriva ululando in via Caetani alle 13,20»); ma non si poteva sottovalutare il rischio che questa volta, per l’enormità della notizia e dopo quasi due mesi di affinamento alla caccia, scattasse un’operazione di eccezionale celerità. Che cosa dunque trattiene il brigatista a quella telefonata, se non l’adempimento di un dovere che nasce dalla militanza ma sconfina ormai nell’umana pietà? La voce è fredda; ma le parole, le pause, le esitazioni tradiscono la pietà. E il rispetto. Per quattro volte chiama Moro «l’onorevole» e per due volte «il presidente». Quel linguaggio tra goliardico e da sezione rionale del Partito Comunista con cui nei comunicati le Brigate parlavano di Moro, è scomparso. «L’onorevole», «il presidente». Nel loro manifesto o latente antiparlamentarismo – non del tutto gratuito, non del tutto ingiustificato — mai credo gli italiani avevano pensato che il titolo di «onorevole» venisse da «onore» come nel momento in cui l’hanno sentito dalla voce del brigatista accompagnarsi al nome di Moro. Forse ancora oggi il giovane brigatista crede di credere si possa vivere di odio e contro la pietà: ma quel giorno, in quell’adempimento, la pietà è penetrata in lui come il tradimento in una fortezza. E spero che lo devasti. 

[Leonardo Sciascia, L’affaire Moro, Adelphi, Milano 1994]



http://www.youtube.com/watch?v=DV9V7R6F2pM

la Cia dietro l'omicidio di ALDO MORO, SU ORDINE DI HENRY KISSINGER:


http://sulatestagiannilannes.blogspot.it/2012/09/kissinger-un-criminale-di-guerra-al.html

http://sulatestagiannilannes.blogspot.it/2012/09/giorgio-napolitano-mission-italy.html

ALDO MORO: ASSASSINATO DALLO STATO ITALIANO A STELLE E STRISCE





di Corrado Guerzoni *


La sua vita è stata stroncata a Roma, nello squallido garage di un condominio periferico, dentro una vettura d’infimo valore, con le gambe contratte sul petto, a causa dello spazio angusto, e poi spezzate per poter far entrare il suo corpo nella cassa. E’ stato ammazzato quando aveva 61 anni e otto mesi circa, dunque nel fiore della maturità, persino giovane in base alle attuali aspettative di vita. (…) E’ stato eliminato con una ferocia bestiale da parte di chi si è arrogato il diritto, ma ha anche avuto, di fatto, il potere, di rapirlo dopo aver sterminato la sua scorta, di tenerlo prigioniero per 55 giorni in condizioni inumane e, alla fine, di scaricargli addosso un caricatore di mitra. 

Aveva una famiglia Aldo Moro: una moglie, quattro figli, un nipote che amava teneramente; aveva molti studenti, all’Università, che seguivano i suoi corsi (…)

Ebbene qualcuno ha deciso, come se fosse il Dio della vita e della morte, che Aldo Moro doveva morire e morire in quel modo stupido e straziante. Hannah Arendt ha parlato della banalità del male; qui, ripeto, non si può descrivere la situazione se non adottando la dizione: l’atroce stupidità del male (…)

Nel lungo viaggio, una vera e propria Via Crucis, verso la morte Aldo Moro non ha conosciuto solo l’esultanza della sinistra e la gelida indifferenza della componente di destra e conservatrice dell’opinione pubblica, ma anche la denegazione della sua di identità (…)
Quella mattina del 16 marzo 1978, quando era uscito di casa intorno alle nove ed era passato come sempre in chiesa per il suo quotidiano e intimo incontro con Dio, certo non immaginava che di lì a poco si sarebbe trovato repentinamente al centro di una sparatoria, davanti alla strage della sua scorta, poi rapito, chiuso in una cassa e trasportato verso la sua prigione. Un mutamento, improvviso e radicale, l’annullamento brutale di qualsiasi prospettiva della sua vita quale l’aveva vissuta fino a quel punto, fino a quel momento (…)

Aldo Moro è nato a Maglie di Lecce il 23 settembre 1916. E’ figlio di Renato, maestro elementare, sposato con Fida Stinchi, anch’ella educatrice (…)

Nell’ultima lettera scrive che 

per il futuro, c’è in questo momento una tenerezza infinita per voi, il ricordo di tutti e di ciascuno, un amore grande di ricordi apparentemente insignificanti, in realtà preziosi. Uniti nel ricordo, vivete insieme. Mi parrà di essere tra voi”. E rivolgendosi alla moglie scrive: “bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. A ciascuno una mia immensa tenerezza che passa per le tue mani”. Queste le ultime parole struggenti: “vorrei capire con i miei piccoli occhi mortali come ci si vedrà dopo, se ci fosse luce, sarebbe bellissimo. Amore mio sentimi sempre con te e tienimi stretto”.

Andreotti & Cossiga

Lui, accusato di vigliaccheria, morirà per la viltà altrui, per la debolezza di un Stato incapace di compiere il suo primario dovere che è quello di proteggere e salvare i propri cittadini; morirà per il tragico opportunismo del sistema politico deciso ad andare oltre lui, senza di lui come se egli non fosse mai esistito (…)


* Giornalista, portavoce e assistente alla comunicazione di Aldo Moro. Autore del libro ALDO MORO, da cui è tratta la predetta citazione, pubblicato da Sellerio nel 2008.



Kissinger e Napolitano
di Giani Lannes
Aldo Moro incarcerato dai brigatisti rossi (bieca manovalanza) telecomandati dalla Central Intelligence Agency, con la compiacenza dell’ambasciatore USA Richard Gardner (intimo del presidente della Repubblica uscente Giorgio Napolitano, che più recentemente ha ricevuto in pompa magna il criminale internazionale Henry Kissinger). Lo stesso Kissinger che aveva minacciato di morte Moro, come si evince anche dalle molteplici testimonianze processuali e documentali.

Aldo Moro nella sua lettera a Zaccagnini del 24 aprile 1978, aveva scritto:

Non creda la Dc di aver chiuso il suo problema, liquidando Moro. Io ci sarò ancora come un punto irrinunciabile di contestazione e di alternativa, per impedire che nella DC si faccia quello che se ne fa oggi. Per questa ragione, per un’evidente incompatibilità, chiedo che ai miei funerali non partecipino né Autorità dello Stato né uomini di partito. Chiedo di essere seguito dai pochi che mi hanno veramente voluto bene e sono degni perciò di accompagnarmi con la loro preghiera e con il loro amore”.
  


strage e rapimento del 16 marzo 1978:
  






Tornare alla moneta di stato, ecco la soluzione che costo’ la vita ad Aldo Moro

- di Marco Saba  -
Se recuperassimo l’idea di Aldo Moro di emettere biglietti di stato a corso legale senza bisogno di chiedere banconote in prestito via Bankitalia-Bce, potremmo non soltanto assolvere i vari bisogni del popolo italiano, ma anche varare un bel corso gratuito di criminologia monetaria e bancaria.
Fu infatti così che i governi Moro finanziarono le spese statali, per circa 500 miliardi di lire degli anni ‘60 e ‘70, attraverso l’emissione di cartamoneta da 500 lire “biglietto di stato a corso legale” (emissioni “Aretusa” e “Mercurio”). La prima emissione fu normata con i DPR 20-06-1966 e 20-10-1967 del presidente Giuseppe Saragat per le 500 lire cartacee biglietto di Stato serie Aretusa, (Legge 31-05-1966). La seconda emissione fu regolata con il DPR 14-02-1974, del Presidente Giovanni Leone per le 500 lire cartacee biglietto di stato serie Mercurio, DM 2 aprile 1979.
Questa moneta di stato tra l’altro aveva l’importante funzione di immettere denaro senza debito che rendeva solvibile – almeno in parte – il sistema usuraio poiché serviva per pagare gli interessi per i quali il sistema bancario NON emetteva moneta e strozzava il paese (come invece ora fa). L’idea era stata copiata dal periodo fascista in cui tante opere pubbliche vennero finanziate a questo modo. Mentre l’analoga operazione di emettere Am-Lire da parte degli occupanti alleati fu una vera e propria opera di falsari che imposero la loro moneta a suon di bombardamenti addebitandola per lo più a debito pubblico (una perdita di circa 300 miliardi di lire dell’epoca 1943-1952, oltre a tutti i beni di cui si erano appropriati con questo denaro falso). Fu Giovanni Leone a firmare l’ultimo DPR con cui si emettevano le 500 lire. Sia Moro che Leone non ebbero gran fortuna e sappiamo come vennero ringraziati da Bankenstein… Ma ora c’è internet, ora sarebbe molto più facile impedire la reazione della bancocrazia totalitaria diffondendo la conoscenza della materia. Infatti, col senno di poi, non è difficile capire a cosa doveva portare il disegno del terrorismo nel nostro paese: gli anni di piombo si chiusero con due stragi nell’anno del Trattato di Maastricht, il 1992… Questo trattato è un papello tra “Stati” e banchieri mannari, il cui risultato oggi è sotto gli occhi di tutti. Ci ha portato al golpe morbido del governo Monti… Comunque, in seguito all’assassinio di Moro e alle dimissioni anticipate di Leone, l’Italia smise di emettere cartamoneta di Stato. La bancocrazia ci aveva anche provato prima a ricattare lo Stato, emettendo i famosi miniassegni per erodere il signoraggio che lo stato guadagnava con la propria moneta, ma poi, non essendo la “misura” sufficiente, ricorsero ai mitra e bombe. Ricordatevi che il terrorismo in Italia inizia con due attentati dinamitardi negli anni ‘60 contro due banche di Stato (all’epoca): Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano e BNL a Roma… Oggi lo Stato guadagna decisamente spiccioli con il conio delle monetine, dove i margini e la quantità di signoraggio sono niente rispetto all’emissione di cartamoneta e denaro virtuale, proprio una mancia per salvare le apparenze. Dobbiamo proporre di introdurre con vigore una cartamoneta complementare nazionale chiamata Biglietto di stato, con cui soddisfare i bisogni interni del paese. Questa cartamoneta non influirebbe sui parametri di Francoforte, non creerebbe debito e darebbe la libertà al paese di soddisfare tutte le esigenze di base della cittadinanza. La Moro-nomics è un’alternativa degna di essere seriamente presa in considerazione.

1 commento:

  1. Moro non fu salvato poiché avrebbe chiarito chi lo prese in consegna in chiesa ed il perché dell'uccisione della scorta.

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