Genova, 15
marzo 1945, siamo quasi all’epilogo di una guerra spietata imposta all’Europa
dalle grandi plutocrazie occidentali.
Tanti, anche
nelle file del fascismo pensano a come salvarsi, qualcuno persino a come
riciclarsi e comunque nessuno si fa più illusioni, la guerra è inevitabilmente
perduta e le conseguenze nazionali e personali saranno gravissime.
Il 12
febbraio dell’anno precedente, il 1944, erano stati varati i primi decreti
Legge sulla Socializzazione delle imprese: una riforma rivoluzionaria per il
mondo del lavoro, ma anche per tutta l’economia nazionale la quale,
accompagnandosi con altre riforme come quella sul libero mercato azionario, sul
mercato immobiliare e della casa, sui delicati settori primari del vestiario e
dell’alimentazione, e soprattutto alla legislazione Corporativa e alle Leggi
sullo Stato sociale, veniva a instaurare l’unica forma di socialismo possibile:
quella “dentro” la Nazione e preservando comunque l’iniziativa e la proprietà
privata (senza le quali si “uccide” lo sviluppo e sconfinare nel
supercapitalismo di stato), ma subordinandole agli interessi dello Stato e
inquadrandole in un ottica di giustizia sociale. L’esatto contrario dello Stato
liberista.
Purtroppo
l’attuazione della Socializzazione finì per insabbiarsi a causa delle necessità
belliche, ma soprattutto a causa di un triplice boicottaggio:
in primis
quello degli industriali che, ovviamente, non volevano spartire la direzione
delle Aziende con il mondo del lavoro, nè tantomeno ripartire gli utili. Questi
pescecani, che sono magari disposti a farlo come “elargizioni”, fuori busta,
elemosina, ma mai come atto dovuto di giustizia sociale, presero ad appoggiarsi
e a giocare su due sporchi tavoli per boicottare la socializzazione: i tedeschi
e i comunisti.
I tedeschi,
infatti, secondo elemento del boicottaggio, ragionavano esclusivamente in
termini di economia di guerra e quindi erano unicamente interessati a quel poco
di produzione militare e para militare che l’industria italiana poteva
garantirgli: ergo, se gli industriali gli assicuravano che questa
socializzazione era una complicazione alla produzione, i tedeschi gli davano
ascolto.
Terzo
elemento di boicottaggio della socializzazione furono i comunisti. Presenti
clandestinamente nelle fabbriche tra i rappresentanti sindacali, i comunisti
boicottarono con tutte le loro forze quella riforma che, ideologicamente, li
spazzava letteralmente via dal mondo del lavoro. Era veramente la fine della
marxiana lotta di classe, ma questa volta non in virtù di una pace sociale in
qualche modo imposta alle categorie produttive, ma per una ricomposizione
sociale, ideologica e pratica che rendeva inutili e assurde le rivendicazioni
di classe.
Fu così che
i comunisti passarono la parola d’ordine di boicottare tutte le elezioni dei
delegati dei lavoratori nel complesso socializzato. E, salvo alcune aziende,
dove le elezioni si tennero con ampia partecipazione, nel complesso ci
riuscirono, con l’approvazione padronale e praticamente riuscirono a far agire
i lavoratori contro i loro interessi, aiutati dalla paura, dal terrore, che
incutevano, forti delle prospettive che ci sarebbero state con la fine di una
guerra oramai scontata nel suo esito.
Le sinistre
completarono poi l’opera a guerra finita quando, accogliendo le richieste
Alleate, abolirono tutte le Leggi sulla socializzazione.
In cambio
gli furono concesse svariate opere del Regime, sedi e locali di altissimo
valore dove si installarono i sindacati, organismi vari e quant’altro, e per
abbindolare e tacitare la classe operaia, gli vennero concesse legittimazioni
di rappresentanze sindacali e qualche gratifica.
Insomma un
immondo baratto: in cambio di immobili e piatti di lenticchie per i lavoratori,
la grande riforma socialista e rivoluzionaria venne abrogata, per sempre. Gli
Agnelli, i Valletta, i Falk, gli Edison, e tutti gli altri industriali della
Confindustria, che anche sotto il fascismo si erano abbondantemente arricchiti,
ringraziarono.
Ma torniamo
a quel 15 marzo 1945 ed esattamente in piazza De Ferrari a Genova, dove un
eccellente e genuino oratore, che era stato socialista, poi tra i fondatori del
comunismo nel 1921 ed aveva conosciuto Lenin anche nelle ore pericolose della
rivoluzione bolscevica, cioè il romagnolo Nicola Bombacci, classe 1879, un
tempo chiamato il Lenin di Romagna, arringò una enorme folla che, più che
altro, fu individuata negli operai delle industrie navali liguri e delle
fabbriche siderurgiche e meccaniche di Sampierdarena, di Cornigliano, di Sestri
Ponente, di Pegli e di Voltri, nonché della Valbisagno e della Valpolcevera.
Nicola
Bombacci, come ricostruito da Bruno de Padova
(http://www.italia-rsi.org/uomini/bombacci.htm) diede sfoggio a tutta la sua
eloquenza rivolgendosi ai produttori genovesi:
“Compagni!
Guardatemi in faccia, compagni! Voi ora vi chiederete se io sia lo stesso
agitatore socialista, il fondatore del Partito comunista, l’amico di Lenin che
sono stato un tempo. Sissignori, sono sempre lo stesso! Io non ho mai rinnegato
gli ideali per i quali ho lottato e per i quali lotterò sempre… . Ed aggiunse:
Ero accanto a Lenin nei giorni radiosi della rivoluzione, credevo che il
bolscevismo fosse all’avanguardia del trionfo operaio, ma poi mi sono accorto
dell’inganno… Il socialismo non lo realizzerà Stalin, ma Mussolini che è
socialista anche se per vent’anni è stato ostacolato dalla borghesia che poi lo
ha tradito… ma ora Mussolini si è liberato di tutti i traditori e ha bisogno di
voi lavoratori per creare il nuovo Stato proletario…”.
Ricorda De
Padova: “Nel contempo, tra lo stupore di tutti per quel linguaggio senza
indugi, l’operaio metallurgico Paolo Carretta – presente col pubblico – salì
spontaneamente sul palco e volle testimoniare della sua esperienza drammatica
di comunista esule nell’URSS staliniana, fatto che consentì a Bombacci di
esortare i liguri al riscatto dell’Onore nazionale dopo il tradimento dei
Savoia, di Badoglio e dei massoni, ma anche tutti a partecipare attivamente
alla formazione dei consigli di gestione nelle aziende perché si trattava di
“Conquiste che, comunque vada, non devono andare perdute” onde galvanizzare la
socializzazione in fase di compimento, dato che “Presto tutte le fabbriche
saranno socializzate e sarà esaminato anche il problema della terra e della
casa perché, tutti i lavoratori devono possedere la loro terra e la loro
casa…”.
La genesi
della Socializzazione, venne riassunta su una Corrispondenza Repubblicana del
24 febbraio 1944, attribuita a Mussolini:
Il secondo
degli otto punti che precedono il testo del decreto sulla socializzazione delle
imprese approvato dal Consiglio dei Ministri il 12 febbraio, dice che uno dei
criteri fondamentali che hanno ispirato il decreto stesso è la rivendicazione
della concezione mussoliniana di una più alta giustizia sociale, di una più
equa distribuzione della ricchezza, della partecipazione del lavoro alla vita
dello Stato... Già il 20 marzo 1919 tre giorni prima della fondazione dei
Fasci, Mussolini così parlava agli operai di Dalmine: “Non siete voi i poveri,
gli umili, i reietti secondo la vecchia retorica del socialismo letterario; voi
siete i produttori ed è in questa vostra qualità che voi rivendicate il diritto
di trattare da pari con gli industriali… Voi giungerete a funzioni essenziali
nella vita moderna. Il divenire del proletariato è problema di capacità e di
volontà… E’ il lavoro che nelle trincee ha consacrato il suo diritto a non
essere più fatica, disperazione, perché deve diventare orgoglio, creazione,
conquista degli uomini liberi nella Patria libera e grande entro e oltre i
confini”.
Il 9 ottobre
1919 aveva luogo la prima grande adunata fascista. Ecco quel che conteneva la
relazione Fabbri sul programma del fascismo, letta in quella occasione:
“Problema sociale:
a) sollecita promulgazione di una legge che sancisca per tutti i lavoratori la giornata legale di otto ore sull’effettivo lavoro;
b) miglioramento di paga;
c) partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori al funzionamento tecnico dell’industria;
d) affidamento alla stesse organizzazioni proletarie della gestione d’industria e servizi pubblici;
e) modificazione del disegno di legge d’assicurazione sull’invalidità e vecchiaia, fissando il limite d’età a seconda dello sforzo che esige ciascuna specie di lavoro;
f) obbligo ai proletari di coltivare le terre; le terre non coltivate dovranno essere date a cooperative di contadini;
g) riforma della burocrazia ispirata al senso della responsabilità individuale”.
“Problema sociale:
a) sollecita promulgazione di una legge che sancisca per tutti i lavoratori la giornata legale di otto ore sull’effettivo lavoro;
b) miglioramento di paga;
c) partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori al funzionamento tecnico dell’industria;
d) affidamento alla stesse organizzazioni proletarie della gestione d’industria e servizi pubblici;
e) modificazione del disegno di legge d’assicurazione sull’invalidità e vecchiaia, fissando il limite d’età a seconda dello sforzo che esige ciascuna specie di lavoro;
f) obbligo ai proletari di coltivare le terre; le terre non coltivate dovranno essere date a cooperative di contadini;
g) riforma della burocrazia ispirata al senso della responsabilità individuale”.
Il ministero
delle Corporazioni veniva inaugurato il 31 luglio 1926.
E Mussolini
diceva con precisazione nettissima:
“La gente
del lavoro fu fino a ieri misconosciuta e negletta dallo Stato vecchio regime.
La gente del lavoro si accampò fuori dello Stato e contro lo Stato. Oggi tutti gli elementi della produzione, il capitale, la tecnica, il lavoro, entrano nello Stato e vi trovano gli organi corporativi per l’intesa e la collaborazione”.
La gente del lavoro si accampò fuori dello Stato e contro lo Stato. Oggi tutti gli elementi della produzione, il capitale, la tecnica, il lavoro, entrano nello Stato e vi trovano gli organi corporativi per l’intesa e la collaborazione”.
Al congresso
dei sindacati fascisti in Roma, tenutosi il 7 maggio 1928, il Duce faceva la
seguente programmatica dichiarazione:
“Occorre
ancora migliorare qualitativamente le nostre masse, far circolare cioè la linfa
vitalissima della nostra dottrina nell’organismo sindacale italiano. Quando
queste condizioni si siano realizzate, noi passeremo audacemente ma
metodicamente alla terza e ultima fase: la fase corporativa dello Stato
italiano. Il secolo attuale vedrà una nuova economia. Come il secolo scorso ha
visto l’economia capitalistica, il secolo attuale vedrà l’economia corporativa…
Bisogna mettere sullo stesso piano capitale e lavoro.
Bisogna dare all’uno e all’altro uguali diritti e uguali doveri”.
Bisogna mettere sullo stesso piano capitale e lavoro.
Bisogna dare all’uno e all’altro uguali diritti e uguali doveri”.
E il 6
ottobre 1934 il Duce ribadiva il suo programma sociale con le seguenti parole,
in cui per la prima volta veniva definito il concetto della «più alta giustizia
sociale”:
“Il fascismo
stabilisce l’uguaglianza verace e profonda di tutti gli individui di fronte al
lavoro e di fronte alla nazione… Che cosa significa questa più alta giustizia
sociale? Significa il lavoro garantito, il salario equo, la casa decorosa;
significa la possibilità di evolversi e di migliorare incessantemente. Non
basta. Significa che gli operai, i lavoratori devono entrare sempre più
intimamente a conoscere il processo produttivo e a partecipare alla sua
necessaria disciplina”.
Un logico
sviluppo del concetto di giustizia sociale è la seguente affermazione fatta da
Mussolini il 13 marzo 1936: “Devono raccorciarsi e si raccorceranno, nel
sistema fascista, le distanze fra le diverse categorie di produttori…”.
Il 23 marzo
1936, infine, Mussolini pronunciò un discorso alle Corporazioni parlando delle
“industrie-chiave» che interessano direttamente e indirettamente la difesa e la
vita della nazione. In tale occasione, egli si poneva questi interrogativi:
“…
L’intervento dello Stati in queste grandi unità industriali sarà diretto o
indiretto? Assumerà la forma della gestione o del controllo?”.
E rispondeva:
E rispondeva:
“In taluni
rami potrà essere gestione diretta, in altre indiretta, in altri un efficiente
controllo. E’ perfettamente logico che anche nello Stato fascista questi gruppi
di industrie cessino di avere anche de iure la fisionomia di imprese a carattere
privato… Questa trasformazione costituzionale di un vasto importante settore
della nostra economia si farà senza precipitazione, con calma, con decisione…In questa economia i lavoratori diventano con pari doveri collaboratori nell’impresa, allo stesso titolo dei fornitori di capitale o dei dirigenti tecnici”.
Sarebbe
facile, come appare ovvio a chiunque conosca le manifestazioni del pensiero
sociale mussoliniano, continuare; ma queste poche citazioni sono sufficienti
per documentare la coerenza rivoluzionaria del fascismo, il quale non rinnega
ora le proprie origini e i propri ventennali sviluppi, ma si rifà alla loro più
genuina essenza travolgendo gli esterni ostacoli e le interne resistenze che si
frapponevano alla piena realizzazione dei suoi altissimi fini sociali”.
Era scontato
che, con questi presupposti, Bombacci si schierasse immediatamente a fianco di
Mussolini, ben conscio del tragico destino che avrebbe coinvolto entrambi.
Del resto
Bombacci, già negli anni ’20, si era reso conto del carattere fraudolento del
comunismo. I suoi atteggiamenti, le sue posizioni atipiche, finirono per farlo
espellere dal PCdI, mentre al contempo, nonostante i dissidi e le opposte
barricate, Mussolini e Bombacci erano sempre stati tra loro uniti da una profonda
amicizia.
Nei primi
anni di governo, anzi, Mussolini in qualche modo utilizzò Bombacci e le sue
entrature in Russia, per portare avanti vari accordi commerciali con quel
paese, compreso il riconoscimento internazionali dell’Urss.
Durante il
ventennio Bombacci si ritrovò emarginato dai suoi ex compagni comunisti, mal
visto dai fascisti, in particolare quelli con tendenze reazionarie e finì anche
in gravi ristrettezze economiche famigliari. Ma potè sempre contare sulla
solidarietà e gli aiuti “discreti” di Mussolini. Generosità questa che Bombacci
non dimenticò mai.
L’avvento
delle Corporazioni, la politica autarchica e le tante riforme sociali del
ventennio spinsero Bombacci ad esprimere molte approvazioni alla politica
mussoliniana. Dal 1936 Mussolini aveva anche consentito a Bombacci, esempio non
unico, ma raro, nella dittatura del ventennio, di pubblicare una sua rivista,
nomata “La Verità”, non a caso un nome a similitudine della Pravda sovietica.
Anche per la
guerra, Bombacci si rese ben conto che, al di là della propaganda, era in atto
uno scontro apocalittico con le grandi plutocrazie occidentali.
Nel pensiero
e nel comportamento di Bombacci, quindi, ci fu molta più coerenza di quella di
altri socialisti e anarchici, come per esempio Leandro Arpinati e Torquato
Nanni, altri rivoluzionari romagnoli, tutti amici di Mussolini, che però
finirono per optare, di fatto, per l’Occidente liberista degli Alleati.
Bombacci,
invece, fu tra i più entusiasti della proclamazione della Repubblica Sociale da
parte di Mussolini dopo l’8 settembre.
Egli vide
finalmente il Duce libero dai condizionamenti savoiardi, dagli industriali,
dalla Chiesa e dai Generali. Mussolini, come sappiamo, pur “prigioniero” dei
tedeschi, non si fece sfuggire questa occasione storica, mai verificatasi in
Italia, e procedette alle sue grandi riforme rivoluzionarie. E “nicolino”, come
lo chiamava affettuosamente Mussolini, fu tra i più entusiasti e partecipi a
quel progetto fin dal congresso del PFR a Verona nel novembre 1943.
Se Angelo
Tarchi, ministro dell’Economia Corporativa e il prof. Manlio Sargenti, Capo
gabinetto al ministero e tra gli estensori del manifesto di Verona, erano
preposti alla attuazione della Socializzazione, Bombacci fu un tutto fare,
tanto che Mussolini ebbe a dire: "Bombacci, che vive giorni di passione, è in prima linea tra coloro che si battono per una vera rivoluzione sociale";.
Ma Bombacci
svolse anche un altro compito, assieme all’ex Prefetto e segretario di
Mussolini, Luigi Gatti, si impegnò in una inchiesta a tutto campo per
smascherare quegli ambienti massonici e di “putrido capitalismo” che erano
stati dietro al delitto Matteotti. Il dossier, a cui aveva lavorato anche
Bombacci, ovviamente sparì letteralmente una volta finito nelle mani dei
partigiani, ma per fortuna ne abbimo amie notizie dal socialista Carlo
Silvestri che ebbe modo di vederlo e di parlare spesso con Mussolini, Bombacci
e Gatti.
Fatto sta
che l’ inchiesta in RSI di Bombacci per il delitto Matteotti, la sua vecchia
partecipazione, negli anni ’20, ad accordi e traffici con i Sovietici, accordi
che tra l’altro evitarono all’Italia, fino al 1941, il terrorismo delle cellule
comuniste (i soli atti terroristici vennero compiuti durante il ventennio da
cellule politiche legate a lobby massoniche) ed infine un altra partecipazione
di Bombacci, nel primo semestre del 1943, alle iniziative di Mussolini per
addivenire ad una tregua con i Sovietici, giocarono sicuramente nella
decisione, altrimenti ingiustificata, che condannò Bombacci a morte in quel di
Dongo. Ed è questo un aspetto criminale e molto poco indagato e conosciuto.
Quando la
sera del 25 aprile, nella Prefettura di Milano, venne deciso lo sganciamento
verso Como, Bombacci, tranquillo, con la sua valigetta necessaire, seguì il suo
amico Mussolini. Salì con lui in macchina e con tutta la colonna si diressero
verso Como. Lo seguì fino all’ultimo, fin nell’autoblinda bloccata a Nesso.
In quelle
ultime ore, a chi gli chiedeva perchè, lui Bombacci, che in definitiva non
aveva indossato la camicia nera, andava adesso a correre quei rischi mortali,
lui rispose: “Mussolini è la rivoluzione socialista, dove va lui vado io!”.
Resta solo
da dire che Mussolini, Bombacci e la Rivoluzione, non solo furono liquidati
dagli anglo americani, vennero ripudiati dai comunisti, ma vennero anche
rinnegati dai “neofascisti” missisti nel dopoguerra.
La
socializzazione infatti, per un partito di destra, conservatore, da subito
stampella della DC in un ottica anticomunista, era un fardello ingombrante. Per
anni non se ne sentì più parlare, se non qualche accenno in sedi locali, o
retorici richiami sulla stampa di partito o qualche esponente missista.
Poi quando
il progetto di Michelini di fare del Msi la gamba liberale dei governi
democristiani, dopo un effimero successo con il governo Tambroni del 1960 fu, e
non a caso, subito liquidato e vennero varati i governi di centro sinistra, il
riferimento a destra della DC diventò il Pli di Malagodi. Si aprirono così, nel
partito spazi per una contestazione alla segreteria di Michelini (che però
teneva strette nelle mani le borse del partito). Attorno alla figura dell”
“attore” Almirante, sorse la corrente dissidente di “Rinnovamento”, la quale
fece propri alcuni presupposti sociali della RSI tra cui la Socializzazione. Se
ne venne così a parlare, la si dibattè, anche in opposizione alla destra di Romualdi,
ma era tutta una commedia, finalizzata alla spartizione delle poltrone. Ed
infatti, al congresso decisivo, quello missista di Pescara del 1965, Almirante,
di fatto, liquidò “Rinnovamento” accordandosi con Michelini.
E la
Socializzazione restò solo una vuota retorica, uno slogan da comizio, per
abbindolare gli sprovveduti.
Il progetto
di una ricomposizione socialista dell’economia, sognato da Mussolini, venne
quindi tradito, per primi, dai suoi falsi epigoni.
Di questo
progetto, aveva detto Mussolini a Milano a dicembre del 1944: “Qualunque cosa
accada, è destinato a germogliare”.
Giustamente
l’avvocato Manlio Sargenti, uno dei padri preposti da Mussolini a quel
progetto, rivelò: “Purtroppo questo progetto non si è avverato. Gli italiani
hanno dimenticato quella che costituiva la più originale, la più innovatrice
proposta della loro storia recente. L’hanno dimenticata quelli stessi che si
sono considerati gli epigoni dell’idea del Fascismo e della Repubblica Sociale”.
In altra
occasione venne anche chiesto al prof. Manlio Sargenti, che come tanti aveva
aderito al Msi, ma che poi ovviamente, come tanti altri, abbandonò il partito:
“Quali
furono le motivazione che la spinsero alla scelta del MSI?”
Risposta: “Questo
appariva come l’unico soggetto capace di continuare l’opera della RSI, della
quale conservava, nel segno distintivo il ricordo. E fu appunto questa
prospettiva a indurre me, come gli altri che nell’Italia settentrionale
aderirono al Movimento, a scegliere questa alternativa nonostante il pericolo a
cui si andava incontro”.
“Che
posizione ebbe Lei quando il MSI aderì alla Nato?
Risposta: “...
io fui della corrente che si oppose per i motivi che ora soprattutto si
rivelano determinanti; perchè la Nato si è sempre più rivelata lo strumento
della supremazia americana e del controllo dell’America sulla politica dei
paesi che vi hanno aderito. Lo spirito del MSI fu perduto nel momento in cui il
Movimento votò a favore dell’adesione alla Nato”.
Troppo
ottimista il buon Sargenti, in realtà il Msi era già nato bacato dietro un
preciso obiettivo reazionario e tramite manovre di forze reazionarie,
massoniche e dell’Oss americano, finalizzate a spostare a destra la gran massa
di reduce del fascismo repubblicano che di destra certo non erano.
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