lunedì 12 novembre 2012

L'Inno di Mameli: il Canto degli Italiani

 

L'Inno di Mameli: il “Canto degli Italiani” Gennaio 2012

  1. L'Inno di Mameli: il “Canto degli Italiani”

  2. Un po’ di storia

  3. Il testo dell'Inno ed il suo significato

  4. L'utopia repubblicana risorgimentale

  5. Riferimenti massonici


Quante volte lo abbiamo canticchiato…

Ma quanti conoscono l’intero testo del nostro Inno Nazionale e non la classica strofa ripetuta due volte? Quanti sanno chi erano Goffredo Mameli e Michele Novaro?

Quanti sanno che l’Inno di Mameli non è l’Inno ufficiale della nostra Repubblica?

Ma andiamo per ordine e cerchiamo di ricostruire un minimo di storia del nostro Inno, partendo dal suo compositore.

Un po’ di storia

Goffredo Mameli dei Mannelli nasce a Genova il 5 settembre 1827. Di nobile famiglia, era figlio di Giorgio Giovanni, della famiglia aristocratica sarda dei "Mameli dei Mannelli", Cavaliere dell'Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro, contrammiraglio della Regia Marina Sarda, nonché parlamentare a Torino; la madre era Adelaide Zoagli, figlia del Marchese Nicolò Zoagli e di Angela dei Marchesi Lomellini. Non propriamente un figlio di nessuno, visti i tempi!
Goffredo Mameli, studente e poeta, era uno spirito libero e repubblicano e aderì agli ideali mazziniani fin dal 1847, anno in cui compose il “Canto degli Italiani” oggi noto proprio con il nome di Inno di Mameli.

Il suo spirito patriottico lo portò ad intraprendere alcune famose iniziative militari, nonostante la giovane età; nel marzo del 1848, a capo di 300 volontari, raggiunse Milano per liberare Nino Bixio e per poi combattere gli Austriaci sul Mincio col grado di capitano dei bersaglieri. Venne quindi arruolato da Giuseppe Garibaldi e qui è controverso se fosse stato insignito allora del grado di capitano o se già lo avesse ottenuto.

Successivamente tornò a Genova dove diresse il giornale “Diario del Popolo”, sempre improntato ad un’ideologia anti austriaca; ma era difficile tenere il giovane Goffredo lontano dal campo e quindi lo ritroviamo in seguito a Roma per la proclamazione del 9 febbraio 1849 della Repubblica Romana di Mazzini, Armellini e Saffi.

Nei mesi successivi tornò di nuovo a Genova, sempre al fianco di Nino Bixio nel movimento irredentista, fronteggiato dal generale Alberto La Marmora, e poi di nuovo a Roma nella lotta contro le truppe francesi venute in soccorso di Papa Pio IX.

Come spesso avviene, la morte di un grande della Patria è avvenuta in circostanze accidentali: nella difesa della Villa del Vascello, durante la breve Repubblica Romana del 1849, fu ferito in maniera non particolarmente grave da un commilitone, con la baionetta, ad una gamba e morì per la sopravvenuta infezione il 6 luglio 1849 a soli 22 anni, all'ospizio della Trinità dei Pellegrini.

Sepolto al cimitero romano del Verano (dove è ancor oggi visibile il suo monumento), le sue spoglie vennero traslate nel 1941 al Gianicolo, dove il regime fascista aveva ricostruito il “Monumento ai caduti per la causa di Roma Italiana”.

Ma come detto poco sopra, Goffredo Mameli è stato l’autore del testo, mentre le musiche sono di Michele Novaro.

Quest’ultimo nacque a Genova il 23 ottobre 1818 (altre fonti indicano il 1820 o il 1822), dove studiò composizione e canto. Da sempre convinto liberale, musicò decine di canti patriottici e organizzò spettacoli per la raccolta di fondi, destinati alle imprese garibaldine. Persona semplice e modesta, non trasse alcun vantaggio dal suo inno più famoso, neanche dopo l'Unità. Fra il 1864 e il 1865 fondò una Scuola Corale Popolare, alla quale avrebbe dedicato tutta la sua vita. Morì povero, il 21 ottobre 1885 e oggi riposa nel cimitero di Staglieno, vicino alla tomba di Mazzini.

Fu l’autore, Mameli, che inviò all’amico Novaro il testo della canzone perché venisse musicato, poiché a Goffredo non piaceva l’idea di adattarlo a musiche esistenti. La tradizione e l’aneddotica vuole che Novaro, una volta letto, se ne fosse innamorato e di getto scrisse la marcia oggi tanto conosciuta. Una curiosità: per tale lavoro Novaro non ricevette alcun compenso neppure le 50 lire che anni prima, nel 1834, erano state pagate a Giuseppe Gabetti autore della “Marcia Reale”.

Ecco come Carlo Alberto Barrili descrive il momento, nella città di Torino, in cui Novaro venne in possesso del testo di Mameli:

“Colà, in una sera di mezzo settembre, in casa di Lorenzo Valerio, fior di patriota e scrittore di buon nome, si faceva musica e politica insieme. Infatti, per mandarle d'accordo, si leggevano al pianoforte parecchi inni sbocciati appunto in quell'anno per ogni terra d'Italia, da quello del Meucci, di Roma, musicato dal Magazzari - Del nuovo anno già l'alba primiera - al recentissimo del piemontese Bertoldi - Coll'azzurra coccarda sul petto - musicata dal Rossi. In quel mezzo entra nel salotto un nuovo ospite, Ulisse Borzino, l'egregio pittore che tutti i miei genovesi rammentano. Giungeva egli appunto da Genova; e voltosi al Novaro, con un foglietto che aveva cavato di tasca in quel punto: - To' gli disse; te lo manda Goffredo. - Il Novaro apre il foglietto, legge, si commuove. Gli chiedono tutti cos'è; gli fan ressa d'attorno. - Una cosa stupenda! - esclama il maestro; e legge ad alta voce, e solleva ad entusiasmo tutto il suo uditorio. - Io sentii - mi diceva il Maestro nell'aprile del '75, avendogli io chiesto notizie dell'Inno, per una commemorazione che dovevo tenere del Mameli - io sentii dentro di me qualche cosa di straordinario, che non saprei definire adesso, con tutti i ventisette anni trascorsi. So che piansi, che ero agitato, e non potevo star fermo. Mi posi al cembalo, coi versi di Goffredo sul leggio, e strimpellavo, assassinavo colle dita convulse quel povero strumento, sempre cogli occhi all'inno, mettendo giù frasi melodiche, l'un sull'altra, ma lungi le mille miglia dall'idea che potessero adattarsi a quelle parole. Mi alzai scontento di me; mi trattenni ancora un po' in casa Valerio, ma sempre con quei versi davanti agli occhi della mente. Vidi che non c'era rimedio, presi congedo e corsi a casa. Là, senza neppure levarmi il cappello, mi buttai al pianoforte. Mi tornò alla memoria il motivo strimpellato in casa Valerio: lo scrissi su d'un foglio di carta, il primo che mi venne alle mani: nella mia agitazione rovesciai la lucerna sul cembalo e, per conseguenza, anche sul povero foglio; fu questo l'originale dell'inno Fratelli d'Italia.”

Il 10 dicembre 1847 l’Inno debuttò a Genova in occasione del centenario della cacciata degli austriaci e di lì a breve si diffuse così rapidamente che divenne l’Inno ufficioso del Risorgimento, nonostante le Autorità avessero cercato di vietarlo, considerandolo eversivo (per via dell'ispirazione repubblicana e anti-monarchica del suo autore).

L’Inno ormai aveva fatto breccia nel cuore degli Italiani e veniva cantato in ogni occasione, Garibaldi lo volle come “bandiera” durante lo sbarco dei Mille; le sue parole riecheggiavano nella breccia di Porta Pia; anche nella prima guerra mondiale “Fratelli d’Italia” era il vero Inno nazionale.

Sotto il regime fascista (in cui era in vigore l’unico inno ufficiale del regno, ovvero la “Marcia Reale”) l’Inno di Mameli continuava ad essere canticchiato dal Popolo nonostante, nel 1932, una disposizione del segretario del partito, Achille Starace, avesse vietato qualunque canto che non facesse riferimento al Duce o alla Rivoluzione Fascista. Successivamente, nel 1944, “Fratelli d’Italia” divenne l’inno della Repubblica Sociale Italiana.

Ed è qui che le cose si fanno davvero assurde ed è divertente andare a ripercorrerle con esattezza. Dopo l'armistizio dell’8 settembre 1943, sapendo che la monarchia sarebbe stata messa in discussione e che la “Marcia Reale” sarebbe stata perciò provocatoria, il governo adottò provvisoriamente come Inno nazionale “La leggenda del Piave” che, insieme alla “Marcia Reale” rimane ad oggi il secondo e unico Inno Ufficiale dell’Italia!

Con la fine della seconda guerra mondiale e la nascita della Repubblica Italiana, si sentì l’esigenza di adottare un emblema, una bandiera e un inno nazionale quali simboli della neonata Repubblica.

Ebbene, il popolo nonostante “La Leggenda del Piave” fosse l’Inno ufficiale, voleva fortemente l’Inno di Mameli come proprio Inno Nazionale e così nel Consiglio dei Ministri del 12 ottobre 1946 si legge: «On. Cipriano Facchinetti, Ministro per la Guerra - In merito al giuramento delle Forze armate avverte che sarà effettuato il 4 novembre. Quale inno si adotterà l'inno di Mameli. La formula nuova del giuramento sarà sottoposta all'Assemblea Costituente. Si proporrà schema di decreto col quale si stabilisca che provvisoriamente l'inno di Mameli sarà considerato inno nazionale”.

Questo è l’unico atto ufficiale dell’Italia (sia Repubblicana che Monarchica) in cui si parla dell’Inno di Mameli come Inno nazionale: e viene quindi citato come un Inno Provvisorio, in attesa di un apposito decreto che ne attribuisca l’ufficialità. Ma tale decreto non ha mai visto la luce, tanto che la successiva entrata in vigore della Costituzione sancì l’uso del tricolore come bandiera nazionale, senza accennare minimamente né all’Inno né all’Emblema della Repubblica.

Solo negli ultimi anni ed in particolare nel 2006, è stato discusso in Commissione Affari Costituzionali del Senato un disegno di legge che prevede l'adozione di un disciplinare circa il testo, la musica e le modalità di esecuzione dell'inno Fratelli d'Italia e successivamente è stato presentato sempre al Senato un disegno di legge costituzionale che prevede la modifica dell'art.12 della Costituzione italiana con l'aggiunta del comma «L'inno della Repubblica è Fratelli d'Italia». Ad oggi tali iniziative legislative si sono arenate nei meandri di Palazzo Madama!

E così, per assurdo, in Italia fin dalla metà del 1800 si canta “l’Inno di Mameli”, ma il Regno prima e la Repubblica poi sono solo stati capaci di riconoscerlo come Inno Provvisorio.

Il cerimoniale ufficiale prevede che dell’Inno di Mameli sia eseguita solo la prima strofa senza l'introduzione strumentale e che, durante l'esecuzione, i soldati devono rimanere fermi presentando le armi, gli ufficiali stare sull'attenti e i civili, qualora lo desiderino, tenere la mano destra sul cuore.
Negli ultimi anni, ovvero in un periodo in cui la società sembra perdere i propri valori fondanti, perdendosi sovente nella futile critica, molti si sono accaniti sull’opportunità di sostituire l’inno di Mameli
(1): in questo momento il verdiano “Và pensiero” è quello che riscuote il maggior numero di consensi (2). Sebbene il Và pensiero sia una delle arie più belle mai composte, a noi non sembra contenere elementi specifici della nostra cultura e, per di più, non è evidente alcun riferimento all'Unità d’Italia o alla sua storia…

Per questo, non è facile comprende il motivo di una tale sostituzione ne tantomeno avallarne l’idea.

Il testo dell’Inno ed il suo significato

L’Inno di Mameli: il “Canto degli Italiani”


      Come anticipato, quando si chiede ad un italiano di cantare il proprio Inno, tutti si limitano alla prima strofa, quella conosciuta e suonata in ogni manifestazione sportiva, cerimonia, cena ufficiale e così via.

Ma quanti sono coloro che conoscono realmente l’Inno di Mameli nella sua interezza e nel suo significato?

Proviamo a ripercorrerlo nel suo testo originario e al tempo stesso nella sua versione adattata e spiegata.

Fratelli d'Italia
L'Italia s'è desta,
Dell'elmo di Scipio
S'è cinta la testa.
Dov'è la Vittoria?

Le porga la chioma,
Ché schiava di Roma
Iddio la creò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò.

Fratelli d’Italia, l’Italia si è svegliata. Sul capo ha l’elmo di Scipione l’Africano, il vincitore di Cartagine, nella battaglia di Zama (in Algeria) nel 202 a.c. Dov’è la vittoria? L’Italia ne afferri la chioma. Dio infatti ha concepito la vittoria come schiava di Roma e delle sue glorie. Schieriamoci in battaglia come una coorte, la Legione romana. Siamo pronti alla morte. L’Italia ci ha chiamati.

Noi siamo da secoli

Calpesti, derisi,
Perché non siam popolo,
Perché siam divisi.
Raccolgaci un'unica
Bandiera, una speme:
Di fonderci insieme
Già l'ora suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò.

Da secoli veniamo calpestati e derisi, perché non siamo un popolo, perché nel 1848 siamo divisi in sette Stati. Ci accomuni una sola bandiera. Ci leghi un’unica speranza. L’ora di unirci è già suonata. Schieriamoci in battaglia. Siamo pronti alla morte. L’Italia ci ha chiamati.

Uniamoci, amiamoci,
l'Unione, e l'amore
Rivelano ai Popoli
Le vie del Signore;

Giuriamo far libero
Il suolo natìo:
Uniti per Dio
Chi vincer ci può?
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò.

Uniamoci e amiamoci. L’unione e l’amore indicano ai popoli le vie segnate dal Signore. Giuriamo di rendere libera la nostra patria. Se saremo uniti, per Dio, chi riuscirà a sconfiggerci?

(Per Dio è un francesismo e quindi significa “da Dio”, “per volere di Dio”) Schieriamoci in battaglia. Siamo pronti alla morte. L’Italia ci ha chiamati.

Dall'Alpi a Sicilia
Dovunque è Legnano,
Ogn'uom di Ferruccio
Ha il core, ha la mano,
I bimbi d'Italia
Si chiaman Balilla,
Il suon d'ogni squilla
I Vespri suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò.

Dalle Alpi alla Sicilia, è come se ogni angolo d’Italia fosse Legnano (qui la Lega Lombarda sconfisse, nel 1176, l’imperatore Federico Barbarossa). Ogni nostro compatriota ha il coraggio e il valore di Francesco Ferrucci che fu il difensore della Repubblica di Firenze, assediata nel 1530 dall’imperatore Carlo V. I bambini d’Italia si chiamano tutti Balilla (è il nomignolo di un ragazzo assurto a simbolo della sommossa contro gli austriaci a Genova nel 1746, iniziata proprio con un suo lancio di una pietra). Ogni campana evoca il suono dei Vespri siciliani (si vuole che siano state le campane a chiamare il popolo alla lotta, durante l’insurrezione antifrancese di Palermo, detta dei Vespri siciliani, il 30 marzo 1282). Schieriamoci in battaglia. Siamo pronti alla morte. L’Italia ci ha chiamati.

Son giunchi che piegano
Le spade vendute:
Già l'Aquila d'Austria
Le penne ha perdute.
Il sangue d'Italia,
Il sangue Polacco,
Bevé, col cosacco,
Ma il cor le bruciò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò

Le spade dei mercenari, al soldo degli austriaci, sono deboli come giunchi che si piegano. L’Austria, la potenza che oggi domina nei nostri confini, ha già perduto le penne di quell’aquila che adorna il suo stemma. L’Impero austro-ungarico ha bevuto il sangue dell’Italia. Alleato della Russia, con l’aiuto delle truppe cosacche, l’Impero ha represso nel sangue la libertà della Polonia. Ma tutto quel sangue gli ha bruciato il cuore. Schieriamoci in battaglia. Siamo pronti alla morte. L’Italia ci ha chiamati.

Sono passati oltre 160 anni da quando Goffredo Mameli lo ha composto e sarebbe opportuno cantarlo interamente ogni volta, non limitandosi a ripetere due volte la prima strofa, perché fra le righe sono contenuti alti valori simbolici dal significato profondo che rendono questa “marcetta”, come alcuni detrattori la etichettano, un Inno Nazionale di grande spessore come poche altre nazioni hanno la fortuna di possedere.

Infatti, la definizione di inno, prevede un componimento poetico, di solito accompagnato da musica, che in strofe esprima un argomento elevato di carattere, in origine, mitologico-religioso, successivamente, politico-patriottico…

L’utopia repubblicana risorgimentale


      Vediamo allora i contenuti di maggior rilievo presenti nel testo di Mameli che, senza falsa modestia, assurge al livello di un vero e proprio componimento letterario di elevato valore.

All’inizio troviamo l’esortazione “Fratelli d’Italia”, bisogna precisare che nel manoscritto originale l’incipit era "Evviva l'Italia", poi cambiato con "Fratelli" per due motivi: uno per indicare i figli di una stessa Patria, il secondo a causa della convinta fede mazziniana di Mameli.

A tal proposito, è bene ricordare una nota frase di Mazzini: «Tutti gli uomini di una Nazione sono chiamati, per la legge di Dio e dell’Umanità, ad essere uguali e fratelli»; sicuramente Mameli ha modificato l’inizio proprio per rendere quest’idea tanto cara alla dottrina mazziniana, di cui chiaramente l’inno è intriso.

L’inno di Mameli, come ricordato in precedenza, ha avuto vita difficile durante il Regno ed il Ventennio fascista, proprio a causa del suo contenuto espressamente repubblicano, tangibile anche nella specifica scelta di Publio Cornelio Scipione, ovvero il più grande condottiero della Roma repubblicana, e non di un Cesare imperatore. Allo stesso modo, se non bastasse, sono richiami alle capacità repubblicane di contrapporsi alla monarchia sia il Ferrucci che i giovani Balilla…

Riteniamo questo argomento fondamentale in quanto il grande patriottismo, coraggio e sacrificio di coloro che hanno combattuto durante il Risorgimento, assume un valore particolare: essi si sono immolati non per un gretto nazionalismo, ma per l’idea repubblicana di democrazia in una Nazione. Tant’è vero che durante il breve periodo della Seconda Repubblica Romana del ’49, si assisté alle prime elezioni a suffragio universale nel nostro Paese, e ricordiamo che per le successive si dovrà attendere circa un secolo.

Mameli, come ogni altro giovane o giovanissimo, sognava un’Italia unita, democratica, repubblicana e soprattutto libera, insomma un luogo ideale ove regnassero i principi di libertà, uguaglianza e fratellanza che potesse divenire esempio tangibile di una nuova società europea che finalmente avesse scelto di abbandonare, tout court, l’agire secondo la dottrina dell’homo homini lupus

Nascosto fra le righe del “canto degli Italiani” si celava quindi un’utopia ancor maggiore della semplice unità geopolitica italiana e, proprio per questo, pochi valorosi e determinati uomini riuscirono in quell’impresa che sinceramente appariva quasi impossibile. Nell’Inno poi è individuabile una delle più eterogenee e longeve tradizioni culturali, quella italiana, che per secoli ha rappresentato le vette più alte delle arti e della conoscenza, esprimendo alcuni fra i più grandi geni della storia umana. L’inno richiama i più alti valori morali, condannando al contempo l’imposizione violenta di sovranità dei grandi imperi europei, ormai logori e con le mani macchiate di sangue: queste è quello che Mameli, con gli altri, volevano veder attuato, queste sono le vere e profonde idee per le quali si sono sacrificati in tanti, sino alla morte. Credo fosse per questo che volessero essere ricordati, al di là di coloro che ne hanno approfittato per i più vari scopi.

Riferimenti massonici

Potrebbe, a prima vista, sembrare che il più importante riferimento massonico che possiamo trovare nel nostro Inno Nazionale sia proprio il suo incipit: Fratelli d’Italia! Come abbiamo detto, siamo propensi a riferire questa esortazione alle parole di Mazzini, in tal caso, comunque eppur indirettamente, la Massoneria può esser tirata in ballo quale mezzo di diffusione di tali, alti ed universali, principi e, secondariamente, perché riuniva sotto le proprie ali molti dei personaggi (1) chiave del Risorgimento. D’altro canto, riteniamo difficile che il nostro Goffredo Mameli, per il “Canto degli Italiani”, avesse tratto ispirazione direttamente dalla Massoneria: la sua appartenenza all’Istituzione è molto dibattuta, c’è chi sostiene che ne facesse parte, anche se non esistono documenti a riguardo, ma data la sua giovane età – ricordo che è morto appena ventiduenne - è presumibile che, pur avendo conosciuto e frequentato illustri personaggi aderenti all’Istituzione, non ne abbia mai fatto parte, fosse solo perché non ne aveva avuto il tempo materiale…

Beh, se volessimo scovare riferimenti massonici li potremmo vedere ovunque, ma c’è un fatto incontrovertibile che legherà per sempre l’Inno di Mameli con la Massoneria.

Come abbiamo visto poco sopra, l’Inno di Mameli è stato scelto nel 1946 dall’On. Cipriano Facchinetti come inno per il giuramento delle Forze Armate e da lì rimase poi come Inno provvisorio della nuova Repubblica fino ad oggi.

Ma non tutti sanno che proprio Facchinetti, giornalista e all’epoca Ministro della Guerra era un massone e non un massone qualunque, ma uno dei più attivi durante il periodo buio sotto il regime fascista. Facchinetti, proveniente dalla Loggia “Giovanni Amendola” si trasferì in seguito nella Loggia “Eugenio Chiesa” di Parigi - in quegli anni erano numerose le Officine italiane che lavoravano in esilio all’estero - e arrivò a ricoprire l’incarico di Primo Sorvegliante nel Consiglio dell'Ordine del Grande Oriente d'Italia in esilio.

Che sia un caso che proprio un massone di così alto rango abbia formalizzato la richiesta di ufficializzare “Fratelli d’Italia” come inno delle Forze Armate prima e inno provvisorio della Repubblica poi?

Come sempre quando ci addentriamo in simili ipotesi possiamo sostenere tutto e il contrario di tutto.

Lasciamoci con il dubbio ed il sorriso che ogni volta che sentiremo risuonare l’Inno di Mameli prima di una partita, beh, noi sappiamo che dietro c’è lo “zampino” della Massoneria!

M. Bianchini e G. Galassi
Da L’Utopia repubblicana ottocentesca ed “Il Canto degli Italiani”. Hiram vol.3/11, Erasmo Editore, Roma, 2011.

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NOTE

1) Sappiamo bene che proprio in quel periodo lì, a metà ottocento la Massoneria era una realtà radicata e a cui facevano capo numerose personalità: personaggi come Garibaldi, Mazzini e altri grandi politici dell’epoca erano fratelli, proprio Fratelli d’Italia!

NOTE

1) Curiosa in tal senso, la critica del filosofo Antonio Spinosa il quale sostiene che “Fratelli d'Italia” sarebbe maschilista, poiché non accenna minimamente a imprese compiute da donne italiane morte per la libertà e per il loro Paese. Su tale commento, mi verrebbe da pensare che forse non sono citate le donne semplicemente perché scritto ben prima dell’Unità e con soli riferimenti a personaggi storici molto antecedenti al periodo risorgimentale.

2) A conferma, i comizi della Lega Nord si aprono tutti proprio con la nota aria di Verdi.

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