venerdì 7 settembre 2012

DELIRANTE ENTRATA NELLA CAPITALE


Il grande Giacinto de' Sivo così magistralmente sintetizza l'avanzata di Garibaldi tra Reggio e Salerno:

"Il Nizzardo, sendo tutte le scene preparate, fè la sua miracolosa parte: egli innanzi, altri pochi di lato, a drappelli, chi a piè, chi cavalcione a un mulo, chi su carri, chi in barca con arme varie, sbevazzando per osterie, dormendo disseminati qua e là, tutti inadatti a qualsiasi pugna. Arrivano Calabresi prezzolati, men valenti di loro, buoni a correre, a farsi veder da lontano su creste di monti, a simular fuochi di campi, a tagliar telegrafi, a trarre moschettate all'aria. Egli poi appare sur un monticello, i soldati gli fan fuoco, ei retrocede, e manda il parlamentario, il duce regio chiama consiglio, si dice circondato, licenzia la truppa e sparisce. I soldati gridano tradimento, si sbandano, e si raggranellano dietro ad altri battaglioni, ch'han stessa sorte. Con tal reiterata commedia l'eroe s'appressò a Salerno, dove sarebbe finita, se la reggia non l'aiutava."

Come per entrare in Sicilia c’era stato l’accordo con le larve della mafia, per accedere in Napoli è indispensabile patteggiare con quelle della camorra.
Ormai la revisione storica in atto sta dimostrando sempre più nitidamente l’irrisorio peso della criminalità nel Regno delle Due Sicilie. Essa era organizzata saltuariamente dai baroni avidi e disubbidienti (specie in Sicilia) e dai rivoluzionari a corto di uomini (come nel Cilento degli anni ’20). Lo scellerato afflato tra baroni e rivoluzionari conduce ai patti di Marsala prima e di Salerno dopo. Così agli inizi di settembre 1860 il sindaco di Napoli d’Alessandria si reca a Salerno per presentare al bandito Garibaldi colui che gli spalancherà le porte della capitale borbonica. Si tratta di Tore ‘e Criscienzo (Salvatore De Crescenzo) in persona, capo della camorra mortificata e ristretta dai Borbone. Che cosa abbiano chiesto mafiosi e camorristi al nizzardo è facilmente intuibile guardando al loro floridissimo sviluppo e al ruolo loro assegnato dai vari uomini di potere succedutisi in 150 anni di nazione italiana.
E’ tanto suadente la protezione camorristica che il cosiddetto eroe si avvia praticamente da solo in treno per Napoli. Ivi è pronto lo spettacolo orchestrato dalla faccia meno torva della camorra, quel Liborio Romano assurto a furor di delinquenti a capo della polizia. Vi è la “folla” in delirio costituita dai rivoluzionari di tutte le province appositamente radunati, i militari sabaudi ormai già padroni della città, altri rivoluzionari trasferiti velocemente per il lauto banchetto partenopeo che stava per cominciare, i criminali locali con famiglie al completo che avevano costretto con la forza qualche sventurato passante a imitarli. Vi è lo scenario che incita al delirio perché i palazzi sono pavesati dal tricolore, previa imposizione ai proprietari delle finestre e dei balconi di esporre quello consegnato per evitare problemi con il nuovo padrone. Vi è anche chi il delirio deve sognarlo e immortalarlo per una manciata di ducati (pubblici) e tira giù acquarelli e disegni da utilizzare per la stampa internazionale ignara e per i gonzi che ancor oggi prendono per oro colato quelle immagini false e tendenziose. E’ un turbinio di deliri che fa perdere ai Napoletani la tramontana. Purtroppo ciò prosegue rovinosamente anche oggi, 7 settembre 2010…

V.G.

Sempre da libro dello scrivente “Il saccheggio del Sud” riportiamo le pagine dedicate alla nefasta entrata del condottiero in Napoli.

Il lurido trio di efferati traditori a Napoli funziona a pieno ritmo: Spinelli, Pianelli e Romano convincono il Re ad abbandonare la capitale. La storia è purtroppo costellata di tradimenti ma raramente si sono visti ministri costituzionali usare il potere loro elargito dal sovrano per liberarsi di lui, distruggendo con mille menzogne il suo esercito fidato, comprimendo con ogni mezzo la spontanea reazione popolare e regalare l'opulenta patria intatta a banditi stranieri.
La Corte lascia la capitale per i citati intrighi ma non si riesce a comprendere ancora il perchè della precipitazione che provoca pesantissime conseguenze, soprattutto finanziarie. Il Re s'imbarca come se un terremoto lo costringesse a staccare i suoi piedi il più presto possibile da Napoli. Nella capitale giacciono derelitti oltre 33 milioni di Ducati in contanti nei banchi, musei ricchissimi ed unici al mondo, regge sontuose e intatte, fortezze inespugnabili per la potenza del nemico, arsenali stracarichi di armi e munizioni. Senza ordini di difendere tali ricchezze, a chi esse potevano andare se non agli invasori? E con quali soldi si sarebbe proseguita la dura lotta che si prospettava a nord della capitale? Quanto sarebbero stati più deboli i Regi senza quella sussistenza, e quanto invece più forti i garibaldeschi con quella manna piovuta dal cielo? Queste domande inquietanti a tutt'oggi non trovano adeguata risposta. Occorre solo registrare il fatto assurdo e veramente unico nelle fughe di regnanti che lasciano, senza essere molestati da vicino, i mezzi del potere ai loro avversari! Forse un altro atto di buona volontà per ingraziarsi le nazioni europee? Forse una fiducia nella Provvidenza, difficilmente accettabile per un re che ha la responsabilità di quasi 10 milioni di sudditi? Forse l'ultimo tranello della quinta colonna promettente mari e monti al monarca che finalmente sparisce? Comunque quasi come chi si reca nelle sue riserve di caccia, il Re parte da Napoli; un osservatore neutrale ed ignaro non avrebbe rilevato un solo sintomo capace di far concepire un arretramento strategico verso nord per evitare alla capitale gli orrori della guerra e per preparare adeguatamente la grande battaglia per la vittoria conclusiva.
La piccola nave a disposizione dei reali, la "Saetta", salpando dà ordini alla flotta in rada con bandiera gigliata di dirigersi a Gaeta. Il tradimento della Marina si consuma completamente quando da ogni unità si accampa una scusa per disobbedire, oppure, nel partire, si prendono direzioni del tutto diverse.
Una volta a Gaeta, il Re riflette finalmente sulla necessità di avere fondi sufficienti per pagare almeno il soldo alla truppa. Gli evidenti accordi conclusi a Napoli prima della partenza dimostrano tutta la immotivabile fiducia nutrita sino alla fine dal Capo dello Stato nei suoi inqualificabili ministri. Quando reiterati dispacci chiedono trasferimenti di denaro dalla capitale, la risposta, che qualunque persona con un minimo di senso pratico si può attendere, arriva precisa col silenzio-rifiuto che chiude un altro atto della tragicommedia del crollo del Regno di Napoli. Naturalmente la mancanza della solita mesata, insieme a tutte le considerazioni già fatte sui militari, porta all'assottigliamento delle fila napoletane perchè alcuni preferiscono tornare a casa propria uscendo dal caos totale che governa sovrano.
Villamarina coglie l'occasione di Napoli acefala per offrire i servizi dei battaglioni sardi da tempo in attesa del lieto evento dell'abbandono del Re per tenere l'ordine pubblico; il che vuol dire sostituire i Regi nella repressione della reazione. Un rantolo di dignità viene dal Municipio ove sdegnosamente si rifiuta. Tuttavia il problema di vigilare sulla reazione popolare sussiste e il sindaco D'Alessandria vien mandato a Salerno da Garibaldi per sincerarsi sull'imminenza del suo arrivo a Napoli in modo che il controllo sia fatto direttamente dai rossi. Il primo cittadino di Napoli ha il coraggio di dichiarare al filibustiere la sua indisponibilità ad accoglierlo festosamente e la sua persistente fedeltà al Re Francesco. La fabbrica settaria delle falsità dipinge invece l'incontro come "l'invito solenne del sindaco all'eroe per l'ingresso in Napoli in trepida attesa per lui liberatore". Ovviamente nessuna smentita circola come questo subisso di menzogne e per tutto il mondo quella è la verità. Il 7 settembre Garibaldi con pochi seguaci sale sulla ferrovia, vanto dei Borbone, e si dirige verso la città di Partenope. A Vietri i mercenari bavaresi, che presidiano la stazione, notano il loro fantomatico nemico e ringraziano il Cielo di essere tedeschi, non capacitandosi affatto che non si attui un minuscolo sforzo per salvare il Regno bloccando quei quattro temerari (ben edotti del rischio infinitesimale corso) coi tanti soldati armati di tutto punto che fanno ala all'esiziale convoglio. Il repentino arrivo del nizzardo, che segue la partenza della Corte di poco più di mezza giornata, è dovuto sia al desiderio di tener d'occhio la possibile reazione (che comunque i camorristi e la Guardia Nazionale ben potevano sostenere), sia, soprattutto, al dispetto da fare al Cavour surrogando l'utilizzo dei respinti militari piemontesi. In questa occasione Garibaldi mostra un certo coraggio perchè pur di fare il più presto possibile, non aspetta i suoi battaglioni e si avvia molto vulnerabilmente verso la capitale. E' chiaro che la piega presa dagli avvenimenti che l'avevano proiettato sempre più agevolmente verso Napoli lo avevano più che convinto della sicurezza della strada appianata per lui da tanti e da tanto lontano. La coreografia tramandata descrive il "trionfo" di Garibaldi quando a mezzodì entra nelle mura di Napoli con un "tripudio generale di popolo e festeggiamenti d'ogni sorta intorno a lui". In effetti, come usi a fare per le altre manifestazioni "di massa" della setta, vengono coagulati presso la Stazione vicino al Mercato tutti i rivoluzionari reperiti anche nelle province, sono presenti le migliaia di sardi schierati apposta, la regia dei prezzolati camorristi è quasi perfetta nel distribuire gli amuleti della libertà (come i ritratti di Garibaldi e Vittorio Emanuele, le coccarde e le bandiere tricolori) a chiunque ha la curiosità ma anche la sventura di trovarsi sul tragitto del corteo sia in strada che ai balconi. A costoro la violenza camorristica lascia la scelta tra il sembrare inneggianti al filibustiere o l'essere accusati di reazione e tosto perseguiti. Ecco come Garibaldi, dopo aver letto negli occhi dei soldati nazionali o delle innumerevoli genti incontrate nel lungo viaggio l'odio per lo straniero, sicuramente capta il medesimo sentimento tra i cittadini di Napoli, ben distinguendo l'entusiasmo forzato, perchè senza fede unitaria, della maggioranza che lo circonda. Preso possesso del Palazzo il nizzardo inizia a recitare una delle parti più ostiche, perchè niente affatto congeniali, del copione recandosi al Duomo. L'infamia dei rivoluzionari si sciorina in tutta la sua intensità proprio nei forzati atteggiamenti religiosi di un peccatore ed ateo come Giseppe Garibaldi e degli altri suoi degni compari. La setta gli aveva parlato del grande attaccamento dei Napoletani alla Chiesa e il filibustiere, durante i giorni della celebrazione del Santo Patrono Gennaro, vuole dimostrare nel Duomo di essere un loro degno capo. la dignità del card.Riario Sforza si rivela sin dalla prima opportunità: in pieno giorno la Cattedrale è chiusa e i garibaldeschi devono abbattere le porte per accedervi. Per intonare ritualmente il Te Deum di ringraziamento per l'inizio ufficiale della schiavitù del Regno occorre però un prete: nessuno è disponibile per la blasfema farsa. Uno spretato assassino suo fiero seguace, Pantaleo, sembra il più prossimo ad una celebrazione con parvenza di serietà e la "funzione" ha luogo. Nel pio "dopo Messa" Garibaldi riceve l'omaggio di parecchi malfattori della quinta colonna; tra i primi quel gen.Lanza con cui probabilmente ancora ha qualche conticino in sospeso..........
A spese dell'erario pubblico sino a notte inoltrata si festeggia e si gozzoviglia, anche profanando il Duomo.
 Segue un link con intervista a V. Gulì sulle controcelebrazioni a Napoli del 7-9-10

Tratto da: http://www.neoborbonici.it/portal/index.php?option=com_content&task=view&id=3791&Itemid=69

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