mercoledì 1 agosto 2012

A Milano il Ministro Tarchi illustra ai giornalisti la legge sulla socializzazione



“Sono molto lieto che abbiate aderito all’invito per potere esaminare insieme a Voi la legge sulla socializzazione onde poter portare in questo  settore,  attraverso  la  stampa,  una  propaganda  ancora  più intensa di quella che fino a oggi Voi avete svolto e della quale Vi ringrazio.
“Questa  riunione  ha  luogo  d’intesa  col  Ministro  della  Cultura Popolare e né è informato ance il Duce che l’ ha approvata.
Ho ritenuto opportuno uno scambio di idee con Voi per chiarire alcuni punti fondamentali della concezione sociale Mussoliniana che si realizzerà attraverso la legge della socializzazione.
“E’ logico che la stampa sia libera nella discussione perché della libera discussione si possono trarre elementi utili per l’applicazione della legge stessa che riteniamo di perfezionare man mano, anche perché questa non  è  necessariamente statica  ma  al  contrario deve trovare poi nella soluzione pratica l’indirizzo per evolversi. Però è, giusto che le Direzioni dei giornalisti abbiano conoscenza dei principi di  massima  che  la  legge  hanno  ispirato  e  sui  quali  è  necessario insistere particolarmente.”
“Questi principi generali sono già stati messi in evidenza sulle note della  “Corrispondenza Repubblicana” che  è  uscita  subito  dopo  la legge sulla socializzazione, furono da me ribaditi in una conversazione pronunciata alla radio a Milano ed ancora lumeggiati nell’ultima “Corrispondenza Repubblicana” di ieri l’altro circa le rivendicazioni sulla priorità e continuità della concezione sociale Mussoliniana.”
“Un punto, che è molto importante, riguarda il rapporto tra la socializzazione e i concetti politici che devono accompagnarla. Su questo  è  necessario  immediatamente  portare  la  nostra  attenzione perché  questi  giorni  noi  abbiamo  visto,  come  anche  in  alcuni quotidiani è stato manifestato, la tendenza a ritenere che ci saremo allontanati dal principio dal quale il Fascismo è partito e che noi rinunciamo a un tratto a tutta quella che è stata l’azione perseguita in questi ultimi  vent’anni. Che  ci  sia,  insomma nella  socializzazione dell’imprese una deviazione delle mete (come notato anche “Libro e Moschetto” perseguite per venti anni, rinuncia cioè alla concezione Corporativa.”
“Ritengo di non aver bisogno, dopo la chiara nota della “Corrispondenza Repubblicana” di ieri l’altro, di allungarmi molto, nell’argomento però  è  necessario  fissare  un  concetto:  noi,  con  la socializzazione, non rinunciamo alla Mussoliniana idea corporativa, ma anzi al contrario la rafforziamo e la svilupperemo con i provvedimenti che seguiranno quello sulla socializzazione.
“Il motivo di quello che è stato, non il fallimento dell’idea corporativa, ma la sua inefficiente realizzazione pratica, si deve, a mio modo di vedere ad un fatto. La legge del 1934 come è noto ha cercato di risolvere la lotta sempre latente ed esistente tra capitale e lavoro. Questa parità giuridica in effetti si doveva realizzare sul piano dello Stato e cioè attraverso le corporazioni. Si doveva ammettere, allora, che tanto il capitale quanto il lavoro fossero permeati della concezione della sovranità dello Stato e delle superiori esigenze di questo, a tal punto da non portare ami in seno alle discussioni ed agli orientamenti quello che poteva essere l’interesse particolaristico.
“Ma è logico che sul piano giuridico non era possibile risolvere, le lotte  secolari di  classe, perché da  un  lato  noi  avevamo il  lavoro, semplicemente con i suoi riconosciuti diritti di associazione, dall’altro noi avevamo il capitale con tutte le sue prerogative, cioè con tutte le possibilità che ad un certo momento potevano effettivamente avere il poter di imbrigliare lo Stato. Infatti, lo strapotere di una classe ha superato    l’uguaglianza    giuridica,    ha    iugulato    la    concezione corporativa ed ha imbrigliato l’azione della burocrazia, dello Stato maggiore delle forze Armate, con tutte le tristi conseguenze che ormai è    superfluo    ricordare.    Era,    quindi,    necessario    arrivare    alla realizzazione della concezione corporativa partendo da altre basi. Da quelle basi cioè sulle quali Mussolini, a cominciare dal discorso pronunciato a Dal mine, fino a quello pronunciato a Milano, metteva in evidenza quale doveva essere il ruolo del lavoro nella vita dello Stato e nella partecipazione della vita stessa dello Stato. Ora, anche precedentemente il lavoro ha cercato infinite volte di entrare nella vita delle aziende, ma tutte le volte vi è stato respinto; del resto anche il sistema delle commissioni di fabbrica, instaurato nell’ultimo periodo, non poteva portare al risultato sperato.
“ Per poter farse sì che effettivamente tutti i fattori produttivi giocassero il loro ruolo in parità di diritti e di doveri secondo le loro funzioni, era necessario che la corporazione avesse la sua vita e il perché funzionante nella stessa vita dell’azienda. La socializzazione dell’azienda significa quindi creare il catalizzatore del corporativismo se non addirittura la corporazione funzionante nella stessa vita dell’azienda significa far cooperare efficacemente tutti i vari fattori produttivi, nell’interesse dei partecipanti alla vita dell’azienda, subordinati, in ogni caso, a quelli più alti della vita della Nazione.
“Nella Repubblica Sociale, il lavoro attivamente operante assurge a soggetto dell’economia con funzioni di responsabilità e direzione. Il capitale, sul quale effettivamente troppo si è discusso si è parlato non è  che uno strumento a  somiglianza di  tutti  gli  altri  strumenti per incrementare quella che è la vita produttiva della nazione e quindi la ricchezza della Nazione stessa.
“Ma più che capitale vorrei che in generale si parlasse di risparmio. Perché per capitale si deve intendere, secondo la nostra concezione sociale corporativa, l’apporto che ancora le forze del lavoro danno attraverso il risparmio al quale ogni uomo tende spintovi da quel senso di possesso e di proprietà; aspirazione che sono molla ed incentivo dell’umana fatica.
“Quindi il capitale, intanto è ritenuto un considerevole fattore della produzione in quanto è risparmio, cioè ancora e sempre potenziale di lavoro svolto. E’ partendo questo modo di concepire la socializzazione delle aziende come corporazione di fattori operanti per la produzione che noi possiamo rapidamente rimontare ad un sistema che, rinato, non abbiamo mai messo in forse e che vogliamo completamente realizzare. Non quindi un fallimento del sistema ma perfezionamento o, se volete, sviluppo del sistema.
“Quello che vi ho sintetizzato è il fulcro dell’idea politica-sociale e corporativa alla quale si riferisce in maniera lapidaria la norma n.1 della premessa che voi conoscete.
“Faccio una piccola parentesi: com’è che noi potremo realizzare il sistema corporativo non solo nell’ambito dell’azienda ma nell’ambito dello Stato, dopodiché, come ho detto, abbiamo messo il catalizzatore per la creazione di questo Stato Corporativo? Noi potremmo realizzare lo Stato Corporativo non sul piano dell’impresa ma anche sul piano dello Stato, nel senso cioè che siano le forze produttive dei lavoratori a determinare quella che è la necessità economica nei vari settori produttivi e  quindi  ancora  a  dare  l’apporto  diretto  a  tutta  la  vita economica dello Stato. Voi avete veduto che il Decreto istitutivo della Confederazione del lavoro,della tecnica e delle arti prepara le basi di quello che sarà domani lo Stato Corporativo con l’eliminazione del riconoscimento giuridico del capitale. La possibilità di creare l’organo corporativo ci viene data proprio da questa eliminazione della rappresentanza del capitale in quanto tale. Domani, attraverso l’espressione delle migliori forze produttive dell’aziende lavoratrici, tecnici, dirigenti, noi potremo creare i consigli provinciali della economia corporativa, i quali saranno l’espressione dei migliori che operano nell’azienda e potranno esaminare, non più soltanto sul piano dell’azione ma sul piano provinciale, quelle che sono le necessità della produzione stessa in relazione a quello che sarà l’indirizzo dell’economia generale da parte dello Stato. E conseguentemente sul piano    nazionale    noi    potremo    realizzare    Consigli    Nazionali dell’Economia Corporativa, organi, che esamineremo nei vari settori le necessità le loro necessità soprattutto in riflesso a quella che dovrà essere l’economia generale da parte dello Stato. E’ conseguentemente sul piano nazionale noi potremmo realizzare Consigli Nazionali dell’Economia corporativa, organi, che esamineremo nei vari settori le loro necessità soprattutto in riflesso a che dovrà essere l’economia programmatica attraverso le forze vive di coloro i quali operano nelle aziende da esse provengono per vie elettive, o meglio per selezione di capacità e competenza. Conseguentemente gli elementi che saranno preposti a capo dei singoli Consigli Nazionali dell’economia Corporativa, i capi dei vari consigli nazionali dell’economia corporativa    provinciali,    formeranno    il     Comitato    Nazionale dell’Economia Corporativa, il quale sarà veramente l’espressione delle migliori forze operanti nella vita della Nazione. Esso, opportunamente integrato, avrà tutti quei compiti che aveva il Comitato corporativo centrale e dovrà dare il definitivo indirizzo a tutta l’economia del paese stesso, in maniera da far sì che effettivamente l’economia serva la politica e con questa realizzi la potenza della Repubblica sociale italiana.    Questa    parentesi    che    anticipo    sugli    sviluppi    della socializzazione, ho voluto aprire perché voi nella vostra azione quotidiana possiate effettivamente sapere che si sta preparando l’edificio avendo cominciato, come era, logico dalle fondamenta.
“Vorrei fermarmi su alcuni punti della premessa che del resto, è stata illustrata da molti di voi sui vostri giornali in maniera chiara e precisa. Forse su un punto non si insiste abbastanza, cioè su quello di accompagnare    un    idea    politica.    A    questo    riguardo    ritengo indispensabile un azione incisiva sulla stampa, perché di fronte al nuovo orientamento staliniano comunista, effettivamente l’Asse ha da opporre chiaramente l’ordine europeo che mette i popoli di fronte al loro divenire e al loro domani. Per far sì che questa guerra sia maggiormente  sentita,  poiché  specialmente  in  questo  periodo  gli italiani si sono dimenticati di tutta l’azione svolta da Mussolini e di tutto il perché della nostra lotta, è necessario ribadire il significato sociale della guerra, in modo che sul piano dell’Asse, ancora una volta la concezione mussoliniana che, ha generato tutto l’attuale movimento dei popoli, a dare il lume e l’indirizzo al divenire dei poli stessi. Così come  Roma  faceva  accompagnare  la  forza  delle  sue  armi  con l’affermazione  delle  idee  politiche  e  con  la  promulgazione  delle relative  leggi  ad  uso  dell’intera umanità,  così  questa  guerra  deve portare la concezione di un nuovo ordine basato sulla missione del lavoro  che  dai  ranghi,  attraverso la  socializzazione delle  imprese, assurge per moto spontaneo alla direzione della vita pubblica. Effettivamente i poli possono pensare al domani che è loro riservato alla fine del conflitto. Scartato il concetto liberale perché esso è ormai completamente superato; il  dilemma è  ancora Roma o  Mosca ma bisogna in realtà che questo ordine europeo, che noi abbiamo sempre proclamato, ma non chiaramente definito, possa vere finalmente una sua proiezione nel domani. Ora la legge sulla socializzazione effettivamente può aprire la visione esatta ai popoli di quella che sarà la concezione dello Stato dopo la guerra quando essa sarà vinta dall’Asse.
“Al secondo comma della premessa io ritengo non sia molto da aggiungere, specialmente dopo quando è stato pubblicato dalla “Corrispondenza Repubblicana” di alcuni giorni or sono. Vorrei soltanto mettere in  evidenza che il  raccorciamento materiale  delle distanze  significa  anche  in  fondo,  perseguire  attraverso  un’equa politica dei prezzi e una revisione dei costi tutta una politica tesa, quando  il  lavoro  sia  veramente  in  seno  all’azienda,  il  fine  di sviluppare  il  potere  di  acquisto  della  moneta.  E’  quindi  anche attraverso questo sviluppo del potere di acquisto della moneta che le masse potranno domani attraverso la socializzazione dominare i fattori speculativi che fino a ieri avevano imbrigliato questo concetto di una più equa distribuzione della ricchezza, e quindi di una più larga giustizia sociale. Se il lavoro non è seriamente e attivamente partecipe alla vita quotidiana dell’azienda non potrà mai concepirsi una giustizia sociale e ciò per infiniti motivi di carattere particolaristico. D’altra parte il compito della legge sulla socializzazione è quello di mettere in evidenza le norme della Carta del Lavoro che parlano di salari in rapporto   anche   alle   necessità   e   possibilità   dell’azienda   ed   al rendimento del lavoro. Insistendo su quanto ho già espresso mi domando e vi domando come era possibile che questo salario potesse essere determinato con tali criteri quando il lavoro restava ai cancelli delle fabbriche. Allora il lavoro era esclusivamente determinato dal capitale, le possibilità dell’azienda erano esclusivamente determinate dal capitale. Fin quando il lavoro rimaneva estraneo alla formazione del alla formazione del salario stesso, il salario corporativo rimaneva una    mera    aspirazione    se    non    una    mera    utopia.    Quindi    la socializzazione ha la grave lacuna della estraneità del lavoro al processo di  formazione del  giusto salario. Naturalmente in  questa azione di carattere unitario la Confederazione Generale del Lavoro, della Tecnica e delle Arti avrà il suo ruolo così come l’avevano i Consigli Nazionali dell’Economia Corporativa. E’ tuttavia opportuno che la stampa freni i troppi facili entusiasmi di quei faciloni i quali fermamente credono che, spalancate le porte al lavoro, si dia fondo e corpo  ad  una  specie  di  panacea  universale  in  cui,  abolito  ogni principio gerarchico di disciplina, tutti possono comandare e fare il proprio comodo. La socializzazione dell’impresa intende però fermamente raggiunger una maggiore giustizia sociale pretendendo da tutti i lavoratori il massimo impegno e ripartisce su tutti un senso di maggiore responsabilità per  conseguire un  incessante aumento del prodotto sociale. Questa è ancora e sempre l’unica via per il benessere sociale dei popoli.
“Il comma 2 della premessa ha parlato di normalizzazione la situazione interna dei rapporti fra capitale e lavoro. E’ necessario che questo risponda in pieno a quanto aveva già stabilito la Carta del Lavoro nella sua norma seconda. Ma lo scopo del comma è un altro: noi abbiamo una situazione in Italia, conseguenza del periodo badogliano, che ha portato uno stato di scosse e smarrimenti pericolosi acuito dalle vicende belliche soprattutto dalla propaganda comunista e anglo - pluto – giudaica. Per poter porre fine a questo senso di smarrimento,   per   poter   stroncare   l’azione   della   propaganda   è necessario arrivare celermente ad una normativa di rapporti tra dirigenti, tecnici e lavoratori. Per questo noi non condividiamo l’opinione di coloro che pensano non essere questo il momento più adatto per attuare una socializzazione. Esso pone i lavoratori e le masse di fronte al bivio: o accettare questa altissima conquista sociale con le guarentigie della indipendenza nazionale e della conservazione degli  usi  e  i  costumi  della  nostra  civiltà  (  ai  quali  il  popolo  è fortemente attaccato) o salto nel buio di una rivoluzi9one integrale che sradica gli istituti della nostra civiltà e che finirà con rendere spaesate moltitudini di uomini. E’ sulla scelta della prima via che noi puntiamo per la salvezza della nostra civiltà e della nostra economia. Una normalizzazione dei rapporti tra le categorie potenzierà anche l’industria bellica, necessaria per continuare la guerra e per far si che l’Italia giochi ancora nel concerto continentale dell’Asse, il suo ruolo.
“Un punto che interesserà voi tutti e sul quale effettivamente alcuni hanno portato la loro attenzione è la figura del Capo dell’impresa così come è stata concepita, attua il concetto di gerarchia che è necessaria in ogni forma della vita a cominciare dalla famiglia nella quale è rappresentata dal capo. Vorrei quasi dire che nel capo delle imprese si sintetizza effettivamente questa più alta concezione del dovere sociale, espressione del lavoro.. Quindi è il Capo dell’impresa colui il quale potrà dirigere l’impresa stessa e armonizzarla pel superiore interesse dello Stato. E’ il capo dell’impresa può, con la collaborazione di tutti i fattori produttivi, così come il capo della famiglia con quello di tutti i suoi figli, rende o meno perfetta l’azienda stessa. D’altra parte la figura del capo dell’impresa viene ad essere elevata di fronte a quella comunista, perché nel comunismo abbiamo il capo dell’impresa che è imposto dall’alto, il burocrate, il quale viene immesso a dirigere l’impresa anche se di essa non né faccia parte effettivamente, senza che in essa si sia fermato. Noi abbiamo fatto un notevole passo avanti in quanto il capo dell’impresa è eletto dalle forze del lavoro, perché noi abbiamo la certezza della maturità delle forze del lavoro e dell’attaccamento che esse porteranno al perfezionamento dell’azienda così come riteniamo che questo esista nei portatori di capitale, che avendo considerati risparmiatori non possono tendere che alla tutela del frutto della loro fatica e quindi a volere nel caso dell’impresa il migliore, il più tecnico, il più onesto, il più tenace nel lavoro, il più severo e più giusto nel comando.
“D’altra parte non è detto che tra i risparmiatori non vi siano gli stessi operai, tecnici, dirigenti, ma essi come tali sono dei portatori di capitale e come tali dovranno partecipare all’assemblea dalla quale scaturisce il capo dell’impresa.
“Desidero parlare della statizzazione. Ho veduto in questi ultimi tempi una serie di iniziative nelle varie province che effettivamente, attuate, minerebbe le basi di quello che è il concetto della socializzazione.   Statizzazione   non  significa,  come  taluni  hanno creduto e come fino ad oggi si è fatto, la direzione dell’impresa intesa come burocratizzazione della gestione da parte dello Stato. La statizzazione dell’impresa significa caso mai un’esperienza della socializzazione portata fino al massimo, cioè gestione diretta al massimo delle forze del lavoro. Non già uomini burocratici nominati dallo Stato bensì da tutti i fattori produttivi dell’azienda, lavoro, tecnica, dirigenti. Lo Stato necessariamente deve intervenire per tutelare quel capitale pubblico che è formato dai risparmiatori italiani. Ma il rappresentante dello Stato però non deve essere un burocrate, ma provenire anch’esso dalle vie del lavoro, che abbia cioè già dato nel lavoro prove di senso di responsabilità e di competenza. Quindi quando sulla stampa spesso si legge tra le righe – o la propaganda ci batte sopra – che noi arriveremo alla socializzazione per immetter gerarchi e  gerarconi nella  vita  produttiva, noi  rispondiamo di  no, perché nelle aziende a carattere sociale o privato il comando sarà dato effettivamente a coloro che partecipano o hanno partecipato alla vita del lavoro. Anche nella vita delle aziende, , chiamiamole statizzate, il comando sarà dato esclusivamente alle forze del lavoro e il rappresentante dello Stato sarà scelto dalle file del lavoro. Questo è il concetto che noi abbiamo dato alla statizzazione delle industrie basi, mentre effettivamente nella legge, come voi avete visto, non si parla di statizzazione, ma si parla di azienda a capitale pubblico.
“Ho visto inoltre in varie province che si è fatta la corsa alla nomina di Commissari. I Commissari delle aziende, se vi saranno quando effettivamente  le  imprese  non  rispondono  più  alle  esigenze  dello Stato,  ma  in  questo  caso  il  Commissario,  qualora  esista,  dovrà assumere la figura del capo temporaneo dell’impresa, in attesa che si crei il nuovo Consiglio di amministrazione, il quale sarà la espressione delle forze del lavoro.
“Voi avete visto che vi sono elle aziende non previste dalla legge sulla socializzazione. E’ tutta una massa di aziende minori. Ora, nelle aziende  artigiane  già  esiste  una  socializzazione in  atto,  perché  le aziende artigiane son concepite come le vecchie botteghe fiorentine nelle quali il maestro insegna all’allievo dividendo con esso gioie e dolori, miseria e benessere. Nelle aziende che hanno una struttura che sopra quella dell’artigiano, noi osserveremo i riflessi della legge sulla socializzazione. Ho la sensazione che molte di queste aziende si socializzeranno, spontaneamente, perché non vi è motivo, o per lo meno non vi dovrebbe essere motivo perché questi capi, che in fondo sono gente ha vissuto e proviene dal lavoro, non sentano come da questa legge derivi l’armonia, la prosperità della loro azienda. D’altra parte noi dobbiamo tener presente che le forme cooperativistiche non debbono morire e che anzi debbono essere potenziate. Anche questa può essere la via.
“Molti ritengono, e io stesso lo auspico, che queste aziende potranno avere una socializzazione più completa con forme cooperativistiche. Tanto è vero che attraverso il comunicato che ieri ho diramato alla stampa ho messo in evidenza che la cooperazione non deve né può morire; noi creeremo un istituto per la cooperazione, che provvederà a curare  l’attività  economica  e  finanziaria  di  quelle  imprese  che  a somiglianza delle aziende socializzate svolgono una propria attività cooperativistica. Forse io ritengo che con l’istituto della cooperazione possa  crearsi  anche  l’istituto  dell’artigianato  che  coaudivino  nel campo finanziario ed economico l’attività di queste che sono un vanto dell’Italia.
“Ho visto molte discussioni per quanto riguarda gli utili. Vi ho già parlato prima di quelli che sono i caratteri dei salari. E’ logico anche che la questione degli utili dovrà aver, la sua piena affermazione.
C’è chi ha detto che la quota fissata degli utili minimi, c’è chi ha detto che la quota fissata degli utili è esagerata, c’è addirittura chi ha detto
che tutta la quota degli utili eccedenti a quelli della riserva debbano essere destinati ai lavoratori, e mi auguro presto, io ritengo che essi stessi chiederanno che questo non si faccia. Quando poi i lavoratori avranno fatto parte effettiva della vita delle imprese e sapranno cosa significa un’impresa che lavora, che deve migliorare che deve pensare ad avere le scorte necessarie per il suo funzionamento, allora essi stessi diranno che la quota degli utili, che noi abbiamo previsto come massimo nel 30%, effettivamente è la cosa più logica nell’interesse stesso dei lavoratori che poi traggono la loro vita dalla prospettiva dell’azienda. Un  accorciamento della  distanza non  si  otterrà tanto direttamente    da    questa    partecipazione    agli    utili,    quanto    da socializzazione stessa delle gestioni aziendali, mediante la riduzione delle proporzioni indispensabili della speculazione commerciale. La quota degli utili stabilita come massimo del 30% darà la possibilità del premio giusto al rendimento generale del lavoratore, consentirà altresì di immettere nella cassa di compensazione, per quella destinazione di carattere generale della stessa azienda, i residuo degli eventuali utili. Questi fondi saranno utilizzati oltre che per il progresso dell’azienda anche per speciali motivi sociali.
“Se sono stato troppo lungo, vi chiedo scusa, ma sarete d’accordo che questa presa di contatto era necessari. Sarò lieto se mi farete conoscere tutte le critiche e richieste che talvolta vengono mandate ai giornali. Vi sarò grato anche se vorrete creare una rubrica, quando la legge sarà promulgata, nella quale sia espresso il pensiero dei lavoratori, dei dirigenti delle aziende dei tecnici e del pubblico in genere. In ogni modo, è opportuno, per quanto riguarda la socializzazione, ospitare nei giornali tutte le critiche che portino un contributo d’idee: la critica è stimolatrice, ed io sono del parere che essa  deve  essere ampia e  continua, poiché dalle  critiche  nasce  la possibilità della riposta e quindi la possibilità di mettere in luce il problema nella sua vera essenza”.
All’invito del  Ministro di  iniziare  la  discussione sull’argomento, Franco De Agazio ha fatto presente il caso in cui un’azienda non possa ripartire ai propri lavoratori perché in perdita.
“La domanda è giustificata – ha detto il Ministro. Effettivamente il lavoratore non deve cercare nella socializzazione soltanto il lato economico. Noi  ci  dobbiamo  opporre  a  questo  fatto.  Bisogna far comprendere    che    nella    attuale    situazione    le    perdite    portano all’intervento dello Stato o alla chiusura dell’azienda; invece in questo caso le riserve attraverso la Cassa dà Compensazione potranno permettere che l’azienda possa continuare la  sua attività.  Ecco un punto da mettere in evidenza; il lavoratore non si deve preoccupare soltanto  degli  utili,  deve  comprendere  che  la  sua  comparsa  nel consiglio d’amministrazione avrà notevoli effetti sulla produzione e distribuzione della  produzione sociale e  quindi sui redditi di puro lavoro  e   deve,  pertanto,  mettere   l’azienda  nelle   condizioni  di continuare la produzione; dalla continuità della produzione deriva la continuità del suo lavoro e del suo guadagno. Io sono ottimista: a parte i periodi di crisi economiche, le perdite di prima, molte volte risultavano sulla carta per chiedere allo Stato l’intervento sotto infinite forme che erano causate da illecite speculazioni svolte a far sì che una determinata industria fosse soffocata; lo scopo della socializzazione è di eliminare questo inconveniente.
“Io e mi auguro che l’organizzazione sindacale effettivamente si prepari ad elevare il tono della massa perché la nostra socializzazione a differenza – ripeto – della comunistizzazione è soprattutto in riferimento a quelli che sono i valori spirituali od individuali, funzioni che noi non volgiamo eliminare. Si è sempre parlato di materialismo forse perché effettivamente le situazioni economiche dei nostri operai erano tali che li portavano soltanto a vedere il concetto materialistico e non certo quella che era la  loro responsabilità. Mi auguro che in seguito l’attenzione economica si attenui al punto di consentire che l’organizzazione sindacale si trasformi in questo senso; in modo che così verso l’alto si abbaino migliori alla direzione della massa, perché la socializzazione non è una legge che è fatta per oggi, è fatta per i
secoli, per qualche secolo bisognerà studiarla e, naturalmente, bisognerà prepararsi”.
Fausto Brunelli interviene nella discussione affermando che c’è sempre un’aristocrazia che dirige le masse, sia nella forma dell’economia libera che collettiva. Hanno le nostre masse dimostrato di possedere una moralità politica, economica e sociale?
“Codesta pregiudiziale – risposto il Ministro – sarebbe giusta se non si   partisse   da   un   concetto   sbagliato.   Non   è   vero   che   nella
socializzazione delle gestioni è la massa che dirige, ma il contrario. Nelle aziende socializzate è l’aristocrazia del lavoro, intesa come selezione dei migliori che gestisce l’azienda ed equipara il capo della famiglia al dirigente dell’impresa nel senso che gli eletti, se sono veramente migliori, devono curare anche gli interessi di coloro che
non ebbero la ventura di essere i migliori, Non è vero che è la massa che decide; la  massa indica quali sono quelli più  atti  a  decidere. Quando io dico di creare i Consigli dell’Economia corporativa, io dico di arrivare a scegliere, tra la massa questa èlite di minoranza e quella che regola, non più sul piano dell’azienda, ma sul piano provinciale attraverso il comitato economico provinciale, quello che deve essere l’andamento armonizzato dei vari settori di tutta la provincia. Il consiglio    Nazionale    dell’Economia    Corporativa    sarà    appunto l’espressione di quell’”elite” del lavoro.
“Io mi auguro che queste organizzazioni sindacali, questi dirigenti che sono l’espressione vera della massa, effettivamente si pongano una domanda mazziniana: quella che mi pongo io tutte le sere quando vado a dormire: ho fatto io nella mia giornata il mio dovere di fronte al quale mi sono preposto, di fronte alla Nazione? E’ la mia coscienza, stasera, sicura di non aver effettivamente fatto compromessi, se non quelli utili al fine che mi propongo?
“Noi non abbiamo detto alla massa”tu sei proprietario e tu dirigerai l’azienda”. Noi abbiamo detto: “Ti diamo una funzione, ti diamo una responsabilità: tu fai il tuo dovere”. Altrimenti non giungeremo a fare una   vera   aristocrazia  del   lavoro  che   possa  rendersi  utili   alla
collettività, quanto abbiamo scontato le colpe – che non era un’aristocrazia, ma un’oligarchia.
“Infine, quando io devo arrivare alla nomina dei Sindacati di categoria, chi è che devo eleggere? L’espressione è dal basso, ma la nomina è fatta dall’alto. La massa non potrà più dire che la nomina è stata imposta dall’alto, è un espressione venuta dal basso che io ho scelto dall’alto. Tutta la vita dello Stato, dai Ministri in gi, deve essere
permeata di un solo concetto: il lavoro. Il lavoro come competenza,
come espressione, come fede, come dirittura morale. Non vi deve essere  più  posto  per  coloro  che  oggi  non  combattono  o  non producono. Questa è la funzione dell’aristocrazia dei migliori nella socializzazione.
“Tra la concezione staliniana e quella della Repubblica Sociale Italiana, vi è un abisso enorme. Forse il 25 luglio e l’8 settembre, se potremmo sorpassare questo periodo, non saranno stati un male per gli italiani poiché hanno servito veramente a chiarire ed a far sì che quelle idee che abbiamo sostenuto si siano affinate ed abbiano finalmente la loro pratica realizzazione.”






















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