martedì 17 luglio 2012
ll revisionismo di Antonio Serena
di: Francesco Lamendola
Ben prima che Gianpaolo Pansa cavalcasse con tanto successo, di pubblico e di quattrini, il filone del revisionismo storico, c’è stato qualcuno che aveva scoperchiato i sepolcri imbiancati della storiografia ufficiale, debitamente democratica e antifascista, per rivelare di che lacrime e di che sangue grondassero in realtà le “radiose” giornate dell’aprile 1945.
Ci era stato raccontato, fin dai banchi di scuola, che quei giorni videro una specie di festa nazionale, una gioiosa insurrezione di popolo contro biechi individui in camicia nera, per lo più criminali di guerra, sadici e pervertiti, manutengoli di Hitler e, quindi, servi del tedesco invasore; ci era stato detto e ripetuto che, quel 25 aprile, l’Italia aveva ritrovato la concordia e la dignità nazionale.
Così, mentre i “liberatori” angloamericani venivano accolti con fiori e grida di gioia, i biechi aguzzini in camicia nera pagavano il fio dei loro delitti; ma insomma si trattò di poca cosa, qualche rapido processo, qualche scarica di mitra e poi via, come per il Duce e per l’esposizione del suo cadavere in Piazzale Loreto: l’Italia aveva fretta di voltare pagina, di dimenticare l’oppressione e la vergogna della ventennale dittatura.
E tutti ricominciarono felici e contenti, democratici e libertari; tutti, ma proprio tutti: anche quegli scrittori e quei giornalisti che fino quasi all’ultimo avevano sollecitato e ottenuto spazio nelle istituzioni culturali del regime, ma che poi, folgorati dalla luce della libertà sulla via di Damasco, fecero la cosa giusta ed entrarono a vele spiegate nella nuova vita nazionale, per la maggior parte intruppandosi nel Partito comunista che, come è noto, non sognava di veder giungere i carri armati del compagno Stalin, ma di veder sorgere un Paese libero e pluralista, ove ci fosse libertà per tutti e rispetto per qualsiasi opinione.
Che le cose non siano andate proprio così, ma in maniera ben diversa; che alla fine di aprile si sia scatenata, al termine di una feroce guerra civile durata quasi due anni, un’orgia di violenze indescrivibili, basate sulla giustizia sommaria, sulla sete di vendetta e sull’odio belluino, coinvolgendo anche numerosi innocenti o persone colpevoli soltanto di aver professato onestamente le proprie idee politiche e sociali, non lo si sapeva, non lo si ammetteva, non si voleva che fosse reso noto; lo si voleva semplicemente dimenticare.
Tanto, quei morti erano stati pochi, e poi si erano meritata la loro sorte: avevano militato dalla parte sbagliata ed era stato giusto che pagassero il loro debito con la storia.
Non si voleva riconoscere che, per la maggior parte, i “repubblichini” di Salò non erano i tronfi gerarchi del Ventennio e tutta la pletora dei profittatori di regime, ma dei giovani e dei meno giovani idealisti, che erano stati emarginati dai fasti del potere e, talvolta, persino perseguitati; che si erano fatti avanti nell’ora più buia, con la Patria doppiamente invasa, dai nemici diventati amici e dagli amici diventati nemici, per ridare onore all’Italia e per vedere realizzate le loro generose idee sociali.
Né si voleva ammettere che le uccisioni erano state numerosissime, selvagge, senza un’ombra di legalità e di giustizia; che moltissimi militi di Salò erano stati passati per le armi e gettati nei fiumi, dopo essersi arresi in cambio della promessa di ricevere il trattamento dovuto a dei prigionieri di guerra; che gli assassinii continuarono per mesi e mesi, fin oltre il 1946, assumendo non di rado la forma di miserabili vendette personali; che coinvolsero migliaia di persone che non c’entravano nulla con la politica e meno ancora col fascismo.
Allo stesso modo, per decenni si riuscì a far passare sotto silenzio, o quasi, il dramma degli Italiani infoibati dai partigiani slavi del maresciallo Tito, nelle grotte della Venezia Giulia: uccisi non in quanto fascisti, ma proprio in quanto Italiani; e, tra essi, perfino dei partigiani antifascisti che avevano avuto il torto di non ammettere che quelle terre dovessero venire annesse, “sic et simpliciter”, alla nuova Repubblica jugoslava.
A raccontare tutte queste cose in maniera organica, con notevole coraggio civile, è stato uno studioso schivo e intellettualmente onesto, Antonio Serena, che, nel suo libro I giorni di Caino, (1990) ha fornito una documentazione ricchissima e inoppugnabile di quella galleria di orrori, ivi compresa una consistente mole di materiale fotografico.
Non si tratta di screditare il valore morale della Resistenza (per coloro che ci credono); quello di Serena non era, in fondo, un discorso politico: la sua ricerca nasceva da una esigenza etica: ridare voce alle vittime, alle vittime innocenti, che furono tante, troppe. Perché il silenzio che era calato su di esse equivaleva ad averle assassinate una seconda volta. Voleva dire, anche, ridare dignità alla loro memoria e offrire un sia pur minimo risarcimento morale ai loro parenti: a quelle vedove, a quei figli, a quei nipoti.
No, I giorni di Caino non è un libro di odio, ma un libro di giustizia e di pietà: bisognava che qualcuno placasse i Mani delle vittime, offrisse un sacrificio di riparazione, raccontando la loro vera storia e liberandola dalle incrostazioni faziose e menzognere che la Vulgata democratico-resistenziale ci aveva costruito sopra.
Da quando l’ho letto (e ho letto anche gli altri di Serena, tra cui La cartiera della morte), forse anche perché, come lui, vivo nella regione in cui tali crimini avvennero e rimasero, per lo più, impuniti, c’è una immagine che non vuole andarsene dalla mia mente: quella della fotografia di copertina. Rappresenta un uomo condotto alla morte tra una folla di partigiani comunisti, con un frate che gli cammina al fianco per impartirgli l’assoluzione. Quell’uomo è un vecchio, e il suo volto appare tumefatto per le sevizie e le percosse ricevute: e tuttavia conserva una dignità sovrumana, una fierezza che traspare dallo sguardo fermo e dal passo deciso.
Quell’uomo è uno dei tanti che scomparvero nel vortice di cieca violenza di quei giorni: il professor Tullio Santi, educatore e benefattore, processato per direttissima da un autoproclamato “tribunale del popolo” e passato per le armi, a Mestre: come si è detto, dopo aver subito un indegno pestaggio, senza riguardo all’età. La sua colpa? Aver insegnato ai suoi studenti idee “colpevoli”: troppo di destra, troppo cattoliche.
A proposito: un altro mito da sfatare è che, nella cosiddetta Liberazione, i preti fossero tutti schierati con la Resistenza; la verità è che a decine vennero raggiunti, pure loro, dalla “giustizia” comunista e trucidati. Ma anche questa è una di quelle verità scomode che, a guerra finita, tutti volevano far dimenticare, a cominciare dalla Chiesa stessa; così come la borghesia industriale voleva far dimenticare i suoi ventennali intrallazzi col fascismo, che le avevano permesso di arricchirsi, talvolta persino incoraggiando i partigiani “rossi” a togliere di mezzo, con la scusa della “lotta di liberazione”, quei podestà e quegli uomini del fascismo i quali avevano levato la voce contro i profittatori di guerra e denunciato gli scandali di un ceto di affaristi senza scrupoli che aveva speculato su tutto, perfino sulle suole di cartone dei nostri alpini in Russia.
Ma tutte queste bugie, tutte queste mezze verità e tutte queste versioni di comodo sono figlie di un’unica ipocrisia di fondo: aver voluto negare tenacemente, pervicacemente, per decenni, il carattere di guerra civile agli eventi italiani del 1943-45.
Una volta rimossa questa verità, non restava altro da fare che eliminare anche i suoi corollari: ad esempio, che la Chiesa stessa si trovò spaccata fra una parte del clero che, nel Centro-Nord, simpatizzò più o meno apertamente con gli Alleati e collaborò con i Comitati di liberazione nazionale, e quella parte che, invece (formata specialmente da cappellani militari), rimase fedele agli ideali del Ventennio e che subì, al termine del conflitto, una dura repressione.
Ne abbiamo già parlato altrove, fra l’altro nell’articolo Don Tullio Calcagno, il prete che andò a morire con Mussolini e ci riserviamo di farlo ancora nel prossimo futuro, per cui non insistiamo oltre su questo aspetto della guerra civile italiana che, ad un certo punto, registrò persino la minaccia di uno scisma all’interno della Chiesa cattolica.
E la stessa spaccatura si verificò nelle file stesse della Resistenza, tra partigiani comunisti e partigiani di orientamento moderato, specie in quelle regioni del confine orientale ove, per la presenza delle aggressive rivendicazioni dei “compagni” sloveni e croati, il contrasto ideologico nello stesso schieramento antifascista si fece talvolta incandescente, sino allo spargimento di sangue fraterno.
Anche di questo abbiamo parlato, ad esempio nell’articolo L’eccidio di Porzûs del 1945 visto da un “osovano” e da un “garibaldino” (pubblicato sul sito di Arianna in data 21/02/2008); eccidio nel quale, fra gli altri, perse la vita il fratello maggiore del futuro scrittore Pier Paolo Pasolini. Ma, al di fuori del Friuli, ove poi il processo ai responsabili destò un certo clamore, quanti Italiani sapevano dei fatti di Porzûs, visto che i libri “canonici” sulla Resistenza non ne parlavano affatto, o ne cominciarono a parlare, ovviamente in chiave minimalista e giustificazionista, solo quando il revisionismo li portò nuovamente alla ribalta, in anni assai recenti?
Tornando al libro di Serena, c’è da restare impressionati davanti all’ampiezza della documentazione raccolta e all’estrema brutalità e faziosità dei “tribunali del popolo” che, sorti come funghi nelle città e nei paesi del Nord, dopo il crollo della Linea Gotica, impazzarono, con licenza di uccidere, per giorni e settimane.
A Oderzo, per esempio, cento fascisti che si erano già arresi, con promessa di avere salva la vita, vennero caricati sui camion, portati sulla riva del Piave, a Ponte della Priula, e fucilati sul posto, in quel caso senza nemmeno l’ombra di una inchiesta e di un processo; dopo di che, alcuni contadini vennero obbligati a seppellire in fretta i cadaveri.
A Mignagola, presso Carbonera, nell’hinterland trevigiano, un altro centinaio di fascisti vennero passati per le armi dopo essersi arresi.
Delle donne incinte vennero impiccate insieme al proprio marito, per la sola “colpa” di aver accompagnato quest’ultimo in visita presso parenti, ove lui si era lasciato sfuggire qualche frase politicamente imprudente.
Ci furono persino dei sedicenti comandanti partigiani che presiedettero la giuria, in cui venne condannata a morte e giustiziata la loro moglie infedele, insieme all’amante: è il caso di Sebastiano Pastrello, che mandò a morire la moglie Maria Bellato e l’amico di lei, un certo Macrì; anche questo episodio è documentato nel libro di Serena.
Non si tratta, lo ripetiamo, di un libro d’odio, di un libro fazioso; al contrario: il suo scopo non è quello di gettare fango sulla Resistenza, in cui, senza dubbio, militarono anche persone idealiste e in perfetta buona fede; ma squarciare il velo dell’ipocrisia e restituire visibilità e dignità alle vittime di una “giustizia” che, in moltissimi casi, fu solo vendetta o peggio, scatenamento dei peggiori istinti sanguinari o regolamento di conti privati. Ma l’amnistia Togliatti ha cancellato tutto….
Era ora che qualcuno raccontasse quelle cose, che rompesse il muro di omertà e di silenzio, a costo di attirarsi ogni sorta di denigrazioni.
Ed è quello che è avvenuto.
Oggi, finalmente, il velo è stato definitivamente squarciato e si comincia a guardare a quella stagione con maggiore verità storica e senso della giustizia. Si ammette che da entrambe le parti combattenti vi furono persone oneste e vi furono dei criminali; e si ammette che, negli ultimi giorni di guerra e nel periodo successivo, vi fu un bagno di sangue raccapricciante e ingiustificato, che nulla ebbe a che fare con la giustizia.
Anche se è giusto dire che Pansa non ha “scoperto” niente, ha solo proseguito, senza dargliene doverosamente atto, il lavoro intrapreso da Antonio Serena, pioniere solitario.
Chi vive al Nordest ha sempre saputo queste cose; ma non le si poteva dire, pena la scomunica e una sorta di gogna civile.
Chi scrive, ad esempio, da ragazzo si trovò a partecipare, in quanto speleologo presso la sezione C.A.I. di Vittorio Veneto, al recupero dei poveri resti di alcuni fascisti infoibati in una grotta delle Prealpi Bellunesi, sopra Revine Lago, per conto della locale stazione dei carabinieri, affinché si potesse dare loro cristiana sepoltura. Vi erano anche le ossa di una donna e, forse, di un feto.
Finalmente, di queste cose si può parlare un po’ più liberamente, anche se ciò continua a dar fastidio a qualcuno.
Perciò grazie, Toni, per il tuo coraggio e per la tua onestà intellettuale.
http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=15992http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=15992
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