domenica 22 luglio 2012

GIORGIO PINI L’ESEGETA DELLA CIVILTA’ SOCIALE

 
Soldato, partecipò alla prima Guerra Mondiale, diventando fascista nel 1920. Lavorò al giornale della Federazione Fascista di Bologna, prima come giornalista, poi come direttore. Nel 1930 fu direttore del Giornale di Genova, e poi del Gazzettino di Venezia. Diventò nel 1936 Caporedattore al Popolo d’ Italia e, spinto da Benito Mussolini, riuscì a potenziare le vendite quasi triplicandole. Vi lavorò fino al 25 Luglio 1943, quando il giornale cessò le pubblicazioni. Aderendo alla Repubblica Sociale Italiana diresse Il Resto del Carlino per pochi anni. Dal 1953 inizia la sua collaborazione con la testata Pensiero Nazionale; nel 1955, con Duilio Susmel , scrisse il saggio Mussolini l’ Uomo e l’ opera. Nel dopoguerra, fu uno dei principali esponenti della corrente di "sinistra nazionale" del Movimento Sociale Italiano, ed uno degli animatori del Raggruppamento Sociale Repubblicano. 
 di Bruno De Padova

Emerge in continuità dall’operosa regione d’Emilia-Romagna, da quell’ubertoso territorio che diede all’Italia uomini eccezionali quali Benito Mussolini, Guglielmo Marconi, Goffredo Coppola, Giuseppe Verdi e Ottorino Respighi, Italo Balbo, Ettore Muti e parecchi altri cittadini illustri provenienti dall’intera area geografica inclusa tra Piacenza, Ferrara e Rimini, il significativo insegnamento di coerenza morale e politica dello scrittore e giornalista Giorgio Pini, che ebbe i natali l’1 febbraio 1899 nel capoluogo felsineo, ove s’innalzano sopra i quartieri di Bologna le famose torri degli Asinelli e della Garisenda. Egli apportò, a chi seppe considerarlo, una lezione di stile e di rispetto dei maggiori valori spirituali, indispensabili oggigiorno per rinnovare la condanna di quel malcostume imperversante soprattutto nell’ambito della partitocrazia e in cui gli opportunisti – specie quelli deprecati già nel 1908 dal faentino Alfredo Oriani nell’opera ‘La rivolta ideale’ – continuano a rinnegare le conquiste della civiltà e la disciplina etica per il progresso sociale (quella osservata significativamente da Socrate a Giuseppe Mazzini ed anche dal romagnolo Nicola Bombacci), che rappresentano invece la forza motrice di quell’aristocrazia nuova caratterizzata dal vigore del carattere e dalla continuità morale.
Laureatosi in giurisprudenza, Giorgio Pini – dopo la sua partecipazione quale volontario alla ‘Grande Guerra’ conclusasi con la redenzione di Trento, Trieste, Fiume e la Dalmazia – aderì nel 1920 al movimento fascista; ma, la sua maturazione iniziale avvenne il 15.11.1914, allorché poté leggere nel primo numero del nascente quotidiano Il Popolo d’Italia l’articolo basilare di fondo e intitolato ‘Audacia!’, scritto impegnativo di Benito Mussolini che fu per migliaia di giovani italiani e per lui la vera iniziazione alla politica e il pieno incontro spirituale col suo autore.
Fu mediante la documentazione fornita col libro ‘Filo diretto con Palazzo Venezia’ (ediz. 1967), che G. Pini perfezionò il commento e l’ambientazione politica di B. Mussolini e poi del Fascismo nel grande panorama degli avvenimenti fra il 1914 e il 1943, cioè nel quadro storico della vita italiana e internazionale durante quei decenni di rivolgimenti interni e di guerre mondiali, in quanto essi promuovono l’equa considerazione e la successiva maturazione ad una interpretazione equilibrata della Repubblica Sociale, della sua programmazione evolutiva (d’autentica portata rivoluzionaria) nell’ordinamento dell’economia produttiva e dell’apoteosi del lavoro per la liberazione dei popoli verso il progresso civile, redenti dalla soggezione alle oligarchie plutocratiche e dalle falsità avvolgenti della dialettica marxiana.
Restiamo però, a Bologna, in quell’anno – 1920 – in cui Leandro Arpinati fondò il settimanale politico L’Assalto diretto poi da Baroncini e quindi da G. Pini, che per quest’ultimo significò 1’inizio d’una brillante carriera giornalistica, mentre gli consentì di contribuire con efficacia all’azione propulsiva del movimento fascista nell’incontro con le genti d’ogni categoria per affrancarle dal caos del primo dopoguerra e dal tormento di quelle ‘settimane rosse’ che sconvolsero le zone ferrarese, romagnola e marchigiana.
Poi, con l’ampliarsi di questo fulcro d’azione politica, Pini – alla fine del 1921 – osservò che soltanto il fascino personale di B. Mussolini ("con potenza certo non più posseduta da un uomo dopo Napoleone e Garibaldi") riuscì a coordinare in una disciplina unitaria gli elementi eterogenei che erano affluiti nei fasci di combattimento dai più disparati settori politici e così si realizzò la ‘marcia su Roma’ e la successiva conquista di Palazzo Chigi.
E’ doveroso nel contempo specificare che il problema della stampa, della sua libertà e della sua funzione di critica costruttiva fu per G. Pini di costante impegno, cioè di stile e, nonostante l’incedere di assolutismo esclusivista del 1925, il direttore de L’Assalto rimase sempre intransigente nella salvaguardia dell’autonomia del periodico della federazione del P.N.F. di Bologna. Tale fermezza fruttò a G. Pini la nomina a direttore del quotidiano felsineo Il Resto del Carlino, riuscendo ad animarlo – come gli chiese Mussolini – quanto il Corriere padano, cioè i1 battagliero foglio ferrarese di Italo Balbo condotto da Nello Quirici.
In questo G. Pini riuscì con capacità professionale; per cui, nel 1930 Augusto Turati e Arnaldo Mussolini ne promossero la designazione alla guida del Giornale di Genova. Nel capoluogo ligure perfezionò con analogo impulso le edizioni del pomeridiano Corriere mercantile, non mancando di segnalare già allora l’importanza determinante che la ‘camionale Genova-Serraval1e’ aveva assunto per il potenziamento dei collegamenti tra la Valle Padana e il massimo scalo marittimo d’Italia, nonché con le linee di navigazione verso l’Africa e le Americhe.
Dopo di che, G. Pini venne incaricato a risollevare le sorti del giornale Il Gazzettino, compromesse a Venezia dalle liti fra gli eredi e successori de1 fondatore Talamini.
Ovunque, da Bologna a Genova e Venezia, lo ‘stile’ giornalistico di G. Pini, la sua capacità di perfezionare la collaborazione con i redattori, i corrispondenti esterni, gli inviati e le agenzie d’informazione (specie la Stefani) e il costante dialogo con il pubblico dei lettori vitalizzarono l’efficienza della sua stampa, specie con l’opinione popolare. Ciò lo compresero bene a Roma ed a Palazzo Venezia.
Infatti, la missione giornalista d’informazione formatrice di G. Pini venne agevolata dal complesso di realizzazioni politiche e d’impegno sociale sincronizzate dal programma di Sansepolcro (23.3.1919) al caposaldo della Carta del Lavoro (21.4.1927), al contratto collettivo per qualsiasi categoria produttrice, dalla riforma gentiliana della scuola (1923) sino a quella di Bottai (1939) che concretizzarono la Carta della Scuola, dal Concordato con la Chiesa (1929) al risanamento nazionale dell’agricoltura (dalla ‘battaglia del grano’ alla bonifica integrale delle paludi pontine – con l’edificazione di Littoria/Latina – a quella della Maremma e della Valdichiana), dal riordinamento giudiziario all’incremento responsabile della Cultura, e quando – nel dicembre 1936 – sostituì Sandro Giuliani nel ruolo di caporedattore a Il Popolo d’Italia, la tiratura, che stazionava sulle 150.000 copie giornaliere, riprese ad aumentare.
Nell’assumere l’incarico di caporedattore (la direzione de Il Popolo d’Italia dal 1931 al 26.7.1943 fu sempre di Vito Mussolini), G. Pini il 22.12.1936 ricevette dal suo fondatore il preciso compito di rinnovarlo e lo fece bene, con rapidità, col programma di globale ricomposizione, sostituendo le attrezzature anche tipografiche, l’impaginazione ecc. senza esitazioni. Con una terza pagina più varia, con l’inserimento di rubriche d’evasione (molto sport, racconti e persino la moda), la tiratura del quotidiano salì a 170.000 copie nel marzo 1937, a 263.000 in giugno e dopo, durante la Guerra di Spagna, la richiesta crebbe a 360.000 copie.
E’ bene rammentare che tra i redattori, i corrispondenti, gli articolisti si distinsero M. Appelius, L. Barzini, E. Daquanno, U. Manunta, N. Nutrizio, C. Costamagna, N. Giani, G. Pallotta, S. Panunzio, A. Soffici, U. Spirito, G. B. Vicari e molti altri.
Il quotidiano indicato ottenne con G. Pini la tiratura eccezionale di 434.000 copie il 28.10.1938, di 435.000 il 10.6.1940 e di 348.000 nel febbraio 1943. Egli ebbe tra il 1936 e il 1943 più di trecento incontri telefonici con Mussolini, otto udienze ed innumerevoli altri durante le manifestazioni pubbliche. Dopo il 26.7.1943 – in seguito al complotto di Grandi, dei Savoia e di Badoglio – tale quotidiano cessò le pubblicazioni e, dopo l’8 settembre, Mussolini – anche con l’istituzione della Repubblica Sociale – non volle farlo rinascere.
Quell’Italia che, per l’infamia del tradimento sabaudo, annoverò – insieme a Mussolini – una schiera di uomini che, aderendo alla Repubblica Sociale, promosse una straordinaria complessità d’intendimenti per la rinascita della Nazione per cui C. A. Biggini attivò il progetto di Costituzione della R.S.I., ebbe in Giorgio Pini uno tra i più validi sostenitori: non soltanto quale nuovo direttore del quotidiano bolognese Il Resto del Carlino (incarico che assolse con inconsueto equilibrio d’informazione nonostante l’inasprimento della guerra civile), ma anche – quale Sottosegretario agli Interni a fianco del Ministro Zerbino in riva al Garda – per sollecitare sempre, in qualsiasi struttura del Fascismo repubblicano, una maggiore forma di democrazia, precisamente, quella di una libertà capace di soddisfare l’esigenza collettiva d’intendimenti, pertanto di convocare le assemblee del P.F.R. non solo quando piace ai gerarchi, ma quando lo vogliono i fascisti della base.
Ciò conferma che tale sua richiesta venne recepita da Mussolini (G. Pini, ‘Itinerario tragico’ – ediz. 1950 – pag. 75), tanto che, alla vigilia dell’epilogo della R.S.I. e del Secondo Conflitto Mondiale, precisò a quanti l’avevano seguito: "Dovete sopravvivere e mantenere nel cuore la fede. Il mondo – me scomparso – avrà bisogno ancora dell’Idea che è stata e sarà la più audace, la più originale e la più mediterranea delle idee. La storia mi darà ragione".
Inoltre, insieme a Duilio Susmel, G. Pini nel 1955 approntò quell’esatto studio enciclopedico intitolato ‘Mussolini, l’Uomo e l’opera’ che nel volume IV, quello intitolato ‘Dall’Impero alla Repubblica’, a pag. 367, specifica che "la rivoluzione sociale del fascismo, iniziata fin dal sorgere del movimento, ha dovuto per alcuni anni seguire un moto lento e non rettilineo a causa degli ostacoli che le classi capitalistiche, protette dalla monarchia, hanno opposto", ma che – dopo il congresso del P.F.R. a Verona nel novembre 1943 – con il decreto legge sulla socializzazione delle imprese (12.2.1944) il lavoro attivamente operante assurse a soggetto fondamentale dell’economia con funzioni di responsabilità e di direzione.
Poi, al termine del capitolo VIII del quarto volume dell’opera citata col titolo ‘Ritorno al socialismo’ (pag. 466), Pini e Susmel indicano come Mussolini – quando la sconfitta militare nel 1945 gli apparve ormai ineluttabile – presagì quanto il destino d’Italia era segnato, ma non quello delle idee: "tutto sarà fatto nel nome della democrazia, della giustizia e della libertà, un paravento dietro il quale si nascondono gli interessi del più sudicio capitalismo, venga questo da Londra, da New York o da Mosca. Il popolo italiano vivrà un periodo amarissimo, che vedrà scardinati tutti i principi dell’onestà e della morale".
Pini e Susmel ricordano (volume IV dell’opera citata, pag. 453) che Mussolini, nel discorso del Lirico il 16 dicembre 1944 a Milano, precisò come l’art. 3 del manifesto di Verona ed elaborato dal P.F.R. ammetteva nella Repubblica Sociale la presenza di altri gruppi politici con diritto di controllo e di responsabilità critica (ricordiamo quello di Emondo Cione, ad esempio) partendo però, dall’accettazione leale, integrale e senza riserve del trinomio Italia, Repubblica, Socializzazione, indiscusso vessillo di un nuovo ordinamento di progresso civile.
"Qualunque cosa accada" – ribadì Mussolini – "la socializzazione è la soluzione logica e razionale che evita da un lato la burocratizzazione dell’economia, attraverso il totalitarismo di Stato e supera l’individualismo dell’economia liberale che fu un efficace strumento di progresso agli esordi dell’economia capitalista, ma oggi è da considerarsi non più in fase con le nuove esigenze di carattere sociale delle comunità".
Nel dopoguerra successivo all’aprile 1945, Giorgio Pini venne perseguitato dal C.N.L., ma ciò non valse a ridurre la capacità di convalidazione della propria opera politica, omologazione chiesta al M.S.I. affinché tale schieramento politico non degenerasse – come avvenne poi col suo scioglimento a Fiuggi nel 1994 – in quel camaleontismo d’opportunismi che oggidì è attivissimo nell’agglomerato di Alleanza Nazionale.
Allorché tale degenerazione, anzi un’autentica defezione ideologica, s’accentuò nel M.S.I. con lo stravolgimento dei presupposti fondamentali della rivolta ideale intrapresa da Oriani e perfezionata da Mussolini, Giorgio Pini condannò inequivocabilmente quel tradimento; e negli anni successivi ai congressi di Milano (1956) e di Pescara, molto prima della sua morte avvenuta a Bologna il 30 marzo 1987, richiamò le nuove generazioni ai valori fondamentali della storia e della civiltà politica, quelli che non accettano i funambolismi dei doppiogiochisti e che proiettano la distinzione del lavoro per l’affermazione nel futuro dell’inno della giovinezza morale.







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Giorgio Pini. La Nostra Rivalsa (1953)
PINI MMMPubblichiamo questa lectio magistralis di Giorgio Pini pubblicata il 15 febbraio 1953 ne “La Prima Fiamma”, l’organo del Raggruppamento Sociale Repubblicano. L’intenzione di Pini era quella di riaffermare “la nostra qualifica di Socialismo Nazionale”.
Non vorremmo aver l’aria di mettere le mani avanti perché preoccupati di certe insinuazioni altrui, e precisamente delle voci che ci vogliono rappresentare come dei convertiti – un po’ tardi invero – al socialismo più o meno scientifico, materialista e internazionalista. Si tratta di uninsinuazione ridicola, messa in giro da chi ha interesse a sminuire il valore della più limpida e coerente presa di posizione che immaginar si possa. Abbiamo già smentito altrove questa voce non disinteressata, tanto perchè non ci caschino certi innocenti o finti innocenti che pure, conoscendoci, sono del torto. Qui, dunque, non si tratta di insistere su questioni personali, né di raccogliere pettegolezzi dic arattere deteriormente elettoralistico. Si tratta invece per noi, di precisare alcuni punti di carattere storico-ideologico molto importanti per l’esatta interpretazione della nostra carta Costitutiva. Poiché in essa si parla di socialismo nazionale, è bene insistere sul significato di questa definizione. Nel termine ”nazionale” sono impliciti i valori storici e spirituali che distinguono la nostra concezione del mondo e della vita dalle concezioni materialiste del liberalismo e del comunismo, le quali, col pretesto di tutelare prevalentemente la libertà dell’individuo o la giustizia sociale, si riconducono praticamente alla stessa concezione positivistica e soprattutto economica della vita.
Per noi invece il primato spetta sempre ai valori spirituali e morali.
Ciò premesso, quando si passi a considerare i rapporti giuridici ed economici in cui la vita si concreta nella sfera materiale subordinata a quella morale, appare indiscutibile che essi rapporti possono essere regolati secondo due soli criteri: quello della libera concorrenza imposta sui diritti dell’individuo (donde il liberalismo politico e il liberismo economico), e quello del coordinamento sociale, della collaborazione fra le categorie, della subordinazione dei diritti individuali ai diritti collettivi, infine dell’economia regolata secondo l’interesse della Nazione (donde le varie forme del dirigismo sociale che si chiama socialismo.)
Noi respingiamo la concezione liberale e liberista; accettiamo quella socialista senza preoccuparci degli spaccatori di peli in quattro i quali obbiettano che socialismo significa determinismo economico in senso materialista. Dei socialismi ce ne sono – è ben noto – tanti. C’è un socialismo cristiano detto ”solidarismo”; c’è un socialismo utopistico; c’è un socialismo laburista e fabiano; c’è un socialismo che trascende nel comunismo; c’è un socialismo rivoluzionario e quasi anarchico; c’è il socialismo scientifico marxista, ecc… Nessuno di questi è il nostro socialismo, il quale si concreta in un ordinamento corporativo impostato sulla socializzazione delle imprese, nella collaborazione fra le categorie produttrici, nella libera concorrenza delle iniziative suburdinata soltanto al superiore interesse della Nazione.
Si diano dunque pace i confusionari maligni e quelli in buona fede: il nostro socialismo non è per nulla sovvertitore, non inverte per nulla la precedenza dello spirituale sul materiale, non si prospetta un livellamento verso il basso, non esclude la graduatoria dei valori individuali e di categoria. Perciò, mentre riaffermiamo qui la qualifica di socialismo nazionale che abbiamo assunta per definire i principi della nostra carta – sviluppo logico, diretto ed esatto della Carta del Lavoro, delle Corporazioni, del Manifesto di Verona e della socializzazione – crediamo opportuno aggiungere qualcosa che incide sull’interpretazione politica del nostro programma in rapporto alla situazione attuale.
Ed avvertiamo che il nostro socialismo nazionale non sente il bisogno di far la corte agli altri socialismi, e se, in sede storica e politica, implica la revisione di certi aspetti e metodi del passato regime, che furono aspetti di congiuntura, connessi a un sistema dittatoriale (revisione che fu iniziata già col Manifesto di Verona), non per questo si accoda né al socialismo borghese di Saragat, né al socialismo ortodosso di Nenni, né al socialismo sublimato in comunismo di Togliatti.
Tantomeno riconosce il mito della cosiddetta ”liberazione” risoltasi, come ognuno può constatare, nel trionfo della più gretta consorteria conservatrice, nella scissione delle forze sindacali, nella distruzione di un imponente legislazione sociale, nella rinuncia a diritti acquisiti. Noi vediamo bensì chiaramente ciò che molti occhi miopi non vedono: ossia il fatale, progressivo avvicinamento delle masse proletarie alla patria che fino a ieri esse avevano ostentato di ignorare o di rinnegare per due motivi: la propaganda dei capintesta e la politica antinazionale dei ceti dirigenti.
Di fronte a questo fenomeno di assunzione del mito di patria da parte dei partiti estremisti, fatte alcune riserve necessarie per tutto quanto in ciò è pura tattica di circostanza, riconosciamo con gioia una effettiva evoluzione di idee e di sentimenti che si delinea e che consideriamo come una magnifica vendetta della storia, una segreta, fatale, incontenibile rivalsa del passato sul presente, una consolante premessa per l’avvenire. Resta vero l’antico motto: ”la patria non si nega, si conquista”! E noi siamo precisamente favorevoli alla conquista della patria da parte delle forze del lavoro. Sarà questa la nostra più bella vittoria, il massimo risarcimento della tragedia patita.
Noi vogliamo appunto che questa conquista si verifichi, poiché insieme alla patria il popolo conquisterà una elevazione spirituale oltreché materiale, acquisterà un nuovo costume di vita, si formerà un’educazione civile e politica, si creerà una tradizione fresca e nuova, cioè valida e non accattata da superatissimi evi storici, riconoscerà infine i massimi valori della vita associata. Ma non attraverso una fallita liberazione che quei valori ha rigettato e tradito risolvendosi nell’attuale conformismo conservatore.
Non siamo noi che dobbiamo o possiamo agganciarci al socialismo materialista, ma saranno i lavoratori ad agganciarsi finalmente al socialismo nazionale, il nostro principio che fu, e resterà saldo ad attenderli. Sono considerazioni elementari, ma la confusione attuale, a destra come a sinistra, è tanta che ci è sembrato necessario precisare, nella speranza che destri e sinistri ci abbiano finalmente compresi.
Giorgio Pini

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