domenica 29 aprile 2012

Fino a quando festeggeremo la nostra rovina? Note sugli italiani e il 25 aprile

di Enrico Galoppini
 
Ogni volta che s’appropinqua la data del 25 aprile, mi pongo – con sommo e crescente sgomento, anno dopo anno - la domanda sul senso e il valore di questa ricorrenza. Essa viene celebrata dallo Stato italiano come la “Festa della Liberazione”: liberazione, nel 1945, dal “tedesco invasore”, e dal regime fascista - o meglio da quanto ne era sopravvissuto per un paio d’anni (la Repubblica Sociale Italiana) - alleato della Germania (e del Giappone, nel famoso “Asse”), la quale – checché se ne possa pensare – era stata comunque il nostro alleato, praticamente contro il mondo intero, e che proditoriamente avevamo pugnalato alle spalle con il cosiddetto “armistizio” dell’8 settembre (in realtà una resa incondizionata di una composita classe di vili e felloni che il Fascismo avrebbe fatto bene ad estirpare – idealmente, s’intende - nel corso di un ventennio, invece di organizzare la solita cosa “all’italiana”).
In questa “Festa della Liberazione”, come non mai, viene esaltato il carattere di “Repubblica antifascista nata dalla Resistenza” dato alla compagine statale sorta all’indomani della fine della Seconda guerra mondiale. Con la parte sconfitta, esecrata al rango di “male assoluto”, che per semplificare al massimo grado una vicenda storica estremamente complessa diventa d’un tratto il cosiddetto “Nazifascismo”, un fenomeno praticamente inesistente sia nella realtà storica che in quella delle idee, eppure molto utile a chi ha tutto l’interesse (e vedremo chi è) a banalizzare incasellando tutto quanto in una bambinesca classifica dei “buoni” e dei “cattivi”.
Le “vittime del Nazifascismo” vengono ricordate ovunque, ad ogni piè sospinto, specialmente in determinate città, con dovizia di particolari sulla loro tragica ed eroica sorte. Agli occhi di uno sprovveduto, ciò sembrerebbe scaturire da un sincero moto dell’animo, al quale ripugna giustamente ogni sopruso e violenza, da qualsiasi parte provengano. Eppure, le rare targhe commemorative delle distruzioni e delle morti causate dai bombardamenti “alleati” – talmente rare che tocca cercarle col lanternino - non sono altrettanto esplicite e ‘didascaliche’, evitando accuratamente di nominare gli “anglo-americani”, diluiti in un anodino “eventi bellici” e in un vago “bombardamenti”; al che, un incolpevole indottrinato studente della scuola italiana – che tutto fa tranne che insegnare la Storia - potrebbe essere indotto a ritenere anche quei morti a carico della proverbiale “barbarie nazifascista”. Pertanto, come più volte ho avuto modo di commentare, non si è in presenza di una “questione di principio”, ma di un’interessata, variabile e moralistica valutazione di eventi egualmente luttuosi e tragici per l’intera nostra nazione, la quale, è bene ricordarlo, aveva nella stragrande maggioranza offerto il proprio volontario consenso al Fascismo in quanto aveva visto realizzarsi, grazie all’impulso dei capi e alla collaborazione del popolo, un’Italia forte e prospera di cui essere fieri (non come oggi, che c’è solo da vergognarsi e deprimersi).
Addirittura, in più d’un caso, i bombardamenti “alleati” furono molto più efferati e devastanti delle azioni condotte da reparti militari tedeschi contro italiani, sia quelli ad essi ostili sia quelli colpiti dalle loro “rappresaglie”. Eppure, nell’immaginario collettivo fabbricato da decenni di propaganda resta l’idea che da una parte vi fossero i “buoni”, i “liberatori”, dall’altra i “cattivi”, gli “invasori” (“nazifascisti”). Come si possa per tal via “pacificare gli italiani” resta un mistero… né – ammesso che sia possibile – si comprende come sia possibile giungere ad una “memoria condivisa”, che per essere tale dovrebbe considerare almeno in pari dignità tutte le particolari “memorie” che compongono i ricordi collettivi di una nazione.
I libri sull’argomento oramai abbondano e travalicano quelli contenibili in una normale biblioteca, quindi chi vuole andare oltre il consueto ‘esorcismo’ del “documentario storico” in prima serata o la “pagina culturale” dei giornali cosiddetti “autorevoli” non ha che l’imbarazzo della scelta per potersi fare un’idea di come sono andate le cose quasi settant’anni fa.
Ma non è questo il punto che m’interessa affrontare qui, anche perché sul passato non c’è mai verso di trovarsi tutti d’accordo. Di regola, infatti, tendiamo a prendere posizione nei confronti dei “grandi eventi” trascorsi non tanto in base alle informazioni in nostro possesso, quanto alle nostre tendenze caratteriali e predilezioni ideologiche, e, soprattutto, al grado di soddisfazione che il presente ci dà e alle aspettative che nutriamo verso il futuro, sia come individui che come collettività. Mi spiego meglio: siccome ogni sistema si dota di una sua retorica ufficiale, la nostra capacità di accoglierla e di conformarsi ad essa (accettarla e comportarsi di conseguenza) varia nella misura in cui condividiamo gli assetti di potere – e la relativa scala di priorità e valoriale - che quel dato sistema supporta grazie a quella retorica, di cui anche la “memoria storica” fa parte.
Paradossalmente, poi, le informazioni capaci di farci riconsiderare il passato sono spesso più quelle sul presente che quelle sul passato stesso, il che se non vuol dire sempre che “si stava meglio quando si stava peggio” conferma almeno che anche il “senno di poi” ha il suo peso nell’influenzare la nostra disposizione a rapportarci ai fatti storici. Propongo due esempi per spiegarmi meglio: se ci viene imposto lo smantellamento dello “Stato sociale” viene spontaneo informarsi sul perché e come esso è stato concepito e realizzato dal regime fascista; se assistiamo ad un crescendo di “liberazioni” in giro per il mondo, con modalità analoghe a quella somministrataci, e prendiamo atto che i “liberati” vanno a stare regolarmente peggio di prima, sorge il desiderio di approfondire come siamo stati “liberati” anche noi.
Pertanto, per rigettare la retorica antifascista e resistenziale non è necessario essere automaticamente “fascisti”, e nemmeno filo-fascisti, il che avrebbe poco senso visto che il Fascismo è nato nei primi anni Venti e morto, sconfitto militarmente, nel 1945. Basta solo essere un tantino avveduti, con gli occhi aperti sulla realtà, per comprendere a chi può far comodo la “dittatura del pensiero” che non prevede sconti a chi non s’allinea alla vulgata della “liberazione”.
Certamente conosco le varie obiezioni a questo ragionamento, tra le quali le più gettonate sono due. La prima è quella che postula l’esistenza di un “fascismo eterno” (Umberto Eco) sempre pronto a risorgere e ad “uscire dalle fogne”, come piace dire a certi “antifascisti” in servizio permanente effettivo. Ma che questa posizione sia sinceramente delirante, o meglio funzionale agli interessi del blocco dominante occidentale, lo dimostra il fatto che l’accusa di “fascismo” riguarda tutti quelli che finiscono nel mirino occidentale perché costituiscono, in vario modo, un ostacolo alla diffusione del Nuovo Ordine Mondiale: si va da Chavez a Ahmadinejad, da Berlusconi a Putin, in una lista che comprende tutto e il contrario di tutto (gli ultimi sono l’ungherese Orban e l’argentina Kirchner), senza che i novelli “antifascisti” – gli stessi che contestarono il “fascista” Gheddafi in visita a Roma - si rendano conto in quale vicolo di ridicolo e contraddizioni si sono cacciati. Un fatto è certo: per stare nel “salotto buono occidentale” si deve fare professione di “antifascismo”, col che il grottesco giunge a livelli imbarazzanti, dato che nell’arena, alla fine, si scontrano solo dichiarati “antifascisti” (da Fini ai “centri sociali”). La seconda obiezione – complementare rispetto alla prima - è quella che accusa di “ipocrisia” o di “tradimento” gli esponenti dell’ “antifascismo istituzionale” (da Napolitano in giù), il che permette agli “antifascisti duri e puri” di non fare mai i conti col fatto di condividere coi pretesi “nemici borghesi” la medesima retorica!
E così veniamo al punto. Se tutti quelli che intendono occupare una “posizione” in questa “Repubblica antifascista nata dalla Resistenza” devono – a parole e nei fatti – adeguarsi a questa sorta di ‘religione dell’antifascismo’, a prima vista non si capisce dove stia il problema del “fascismo” contro il quale dovremmo sempre “vigilare”. Il problema, infatti, non sussiste, se tutti quanti devono ostentare un antifascismo modaiolo e conformista. Tuttavia, siccome siamo nel Paese di Arlecchino e Pulcinella, tutto questo dare a vedere e sbracciarsi oltre il limite della dignità umana non dovrebbe preoccupare più di tanto, poiché al primo serio girar di vento (crollo dell’Occidente) c’è da esser sicuri che la solita pecoresca maggioranza assicurerà di non esser mai stata “americana”, e, colmo del trasformismo, affermerà di aver sempre avuto in odio l’Occidente e il suo modello, con tanti saluti al santino dell’“antifascismo”.
L’antifascismo non è, infatti, una scelta ponderata, ma imposta; imposta anche con le leggi (v. la famosa “XII disposizione transitoria della Costituzione”)[1], ma soprattutto da una pressione morale e psicologica che per i più risulta insostenibile ed autolesionista se tengono ad avere “successo” nella “politica”, nella “cultura” eccetera della “Repubblica antifascista nata dalla Resistenza”. È quindi necessario quantomeno non dare mostra di nutrire alcun dissenso in merito, pena l’esclusione e il bollo d’infamia.
Ma siamo sicuri che questa caccia alle streghe sia farina del nostro sacco? Mi riesce davvero difficile crederlo, per due motivi. Il primo è che il Fascismo storico è stato davvero “nostro”, un prodotto del “genio” italiano, tradottosi – facendo un bilancio generale – in un netto ed apprezzato miglioramento della condizione morale e materiale della popolazione italiana, sia rispetto al precedente periodo “liberale”[2] sia al confronto con le varie “democrazie” d’Europa e d’Oltreoceano; le quali, anzi, attanagliate dalla famosa “crisi del ‘29”, ed incapaci di cavare un ragno dal buco, non trovarono di meglio che ispirarsi proprio al Fascismo per uscirne, salvo poi attribuirsi ogni ‘diritto d’autore’ col senno di poi. Il secondo motivo è che se il Fascismo è stato un’originale soluzione escogitata in Italia (e non l’applicazione di una qualche ideologia preconfezionata) ciò indica che gli italiani potrebbero in qualsiasi momento ripetersi… insomma, “creare di nuovo problemi”…
Eh già, perché non si vorrà credere che la guerra fosse un esito al quale l’Italia potesse sottrarsi. Mussolini fece di tutto per non giungervi, ma la smania di dominio nel Mediterraneo da parte delle potenze “democratiche”, in primis l’Inghilterra, lanciate alla conquista del mondo intero com’è chiarissimo oggigiorno, non poteva tollerare “il posto al sole” che l’Italia, con la sua strategia geopolitica, andava perseguendo. Lo scontro, alla fine, era inevitabile: chi è al centro del Mediterraneo, noi o l’Inghilterra, o l’America?[3] Il che non vuol dire che una volta che ci si vede bombardati tutti i giorni non si possa nutrire un sano istinto di sopravvivenza che ci fa pensare “speriamo che la guerra finisca presto”. Non tutti infatti hanno la stoffa dell’eroe, quindi è comprensibile che la maggioranza degli italiani – quelli che “stavano alla finestra” in attesa di vedere come sarebbe finita – ad un certo punto abbiano “fatto festa” o comunque tirato un sospiro di sollievo per la fine delle sofferenze derivanti dalla guerra, tra cui buona parte avevano i bombardamenti terroristici anglo-americani più che le rappresaglie tedesche. Il “25 aprile” può avere  senso – per come lo concepiscono i suoi fautori - solo in quest’ottica, che però non ne fa certo lo spunto per una data da “ricordare” vita natural durante.
Dopo quel giorno, difatti, le truppe “alleate” s’impiantarono sul nostro territorio per non lasciarlo più, tant’è vero che le basi Usa e Nato col tempo sono aumentate e la loro operatività ha registrato un sensibile sviluppo specialmente dagli anni Novanta, col mutato quadro geopolitico mondiale. Ma per non scoprire troppo le carte ed alimentare anche un certo “orgoglio” ad un popolo vinto, ci dovevano raccontare che noi stessi ci eravamo “liberati” da soli, pertanto inscenarono, prima con delle vere e proprie troupe cinematografiche poi con una letteratura ad hoc, la storia delle “radiose giornate” lungo l’intero l’italico stivale. Era troppo imbarazzante creare una “memoria” in cui loro e solo loro avevano “liberato”, o meglio “occupato” l’Italia: servivano delle comparse, di nessun peso militare (per stessa ammissione dei più sinceri tra costoro) ma dal vivace sapore propagandistico. Le stesse mandate avanti ovunque i medesimi signori realizzano analoghe “liberazioni”: i curdi in Iraq, l’Alleanza del Nord in Afghanistan, i “ribelli” in Libia e così via, coi “consigli nazionali transitori” che svolgono la parte assegnata in Italia al CLN (già “Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia”!), tutti dai nomi tanto roboanti quanto insignificanti ed evanescenti nella sostanza.
Non è quindi un tantino incoerente interrogarsi sul significato delle “liberazioni” a stelle e strisce di questi ultimi anni, in giro per il mondo, e contemporaneamente approvare, senza tentennamenti, la retorica resistenziale a casa propria? Ma anche tra le fila della cosiddetta “sinistra antimperialista” sono sempre di più i tarantolati dal morbo dei “diritti umani”, cosicché l’incoerenza di fondo tra il dirsi “antiamericani” e “antifascisti” è stata recentemente risolta con l’“interventismo umanitario”, che mette d’accordo tutti i “democratici”, “falchi” e “colombe” uniti appassionatamente nella medesima gabbia di pappagalli della propalazione del modello di vita dissacrato e disumano che promana dall’Occidente.
Non capiscono che dove arriva l’Occidente sulla punta dei suoi eserciti ipertecnologici viene imbastita un’odiosa farsa in cui “governo” e “opposizione”, apparentemente scelti dalla “volontà popolare”, remano sistematicamente contro la locale popolazione per renderle la vita impossibile e non “a misura d’uomo”? Non si rendono conto che l’usuraio, che sarà il vero padrone, giunge sempre al seguito degli “esportatori di democrazia”? Sanno o non sanno che cosa li aspetta sul fronte dei veri “diritti umani” (casa, lavoro, salute, educazione)? Non sono capaci di realizzare che tutto quel che ci chiedono va a finire in un gorgo di sprechi e che uno alla fine si sbatte a destra e a manca per alimentare, con le sue “corvée”, un sistema truffaldino? Non sono abbastanza svegli da comprendere che se comandano altri si non hanno più nemmeno le ‘chiavi di casa’? Ma quanto sono offuscati per non vedere che l’uomo, in regime liberaldemocratico, dove arriva la “modernità”, si trasforma in una sua controfigura, preda di ogni tendenza centrifuga, abdicando su tutta linea da quello che è il suo imprescindibile compito?
Si consideri per quella che è l’Italia, dopo 67 anni di questa ricetta, e si ammetta francamente che la situazione è prossima al punto di non ritorno e che solo un “santo” ci può salvare.
Dunque il “25 aprile”, reinterpretato ed imbellettato come si vuole, è una data nefasta, il culmine calendariale della ‘religione antifascista’, il simbolo del nostro asservimento in quanto nazione italiana che non deve mai più alzare la testa, e per giunta assurto al rango di “festa”! Come si possa “festeggiare” la nostra occupazione, prima militare, poi economica, politica e culturale da cui discende lo sfacelo che abbiamo sotto gli occhi, resta un mistero che non è possibile spiegare se non con uno stato di prostrazione e di obnubilamento prodotto, esso stesso, dall'asservimento originato dalla esiziale sconfitta militare.
Ogni anno si replica la solita solfa, la solita sequela di mummie e luoghi comuni, la solita fanfaronata di tromboni senza dignità. Tutti terrorizzati dalla reprimenda del “Badrone anglo-usa-sion”, a sua volta strumento terreno dell’usura e del Diavolo, che impone questa favola, questa parodia dell’autentica “liberazione”[4], per evidenti fini di “dominio” e “snaturamento”. Il naturale conformismo della maggioranza fa il resto, cosicché il tutto procede automaticamente, in una stantia e vuota ritualità alla quale non credono per primi quelli che ce l'hanno imposta, giusto per far raccontare agli italiani, sin dalle scolaresche - alle quali, per inciso, non frega nulla della “Resistenza” né dell’”antifascismo” -, che avevamo combattuto il "Nazifascismo" e pertanto potevamo sederci in un cantuccio del tavolo dei “vincitori”.
Per capire il “25 aprile” quale strumento ideologico di asservimento d’una intera nazione, imbalsamata in un mito incapacitante e tenuta in una camicia di forza come un pazzo che “altrimenti fa danni”, o come un bambino perennemente bisognoso di tutela, non c’è dunque bisogno, come uno potrebbe credere d'acchito, di sentirsi “di destra”, il che, anzi, è più un impiccio che altro (tra l'altro il Fascismo, se solo ci si dà la pena di studiarlo, non fu “di destra”); né di dirsi “fascista”, se si sclerotizza un’originale esperienza storica collocata del tempo e nello spazio (Italia, 1922-1945) in un “nazionalismo” da piccolo cabotaggio elettorale, o, peggio ancora, in un ‘suprematismo  occidentale’, mentre si è di fronte più ad una disposizione dell’animo a collaborare per il bene comune che a un’ideologia imbalsamata alla quale attenersi “alla lettera”, più a un “fare” che a un “dire”.
Non c’è bisogno di tutto ciò. Basta solo aver capito che siamo o-c-c-u-p-a-t-i, eterodiretti e truffati su tutta la linea; che ciò discende – almeno su un piano dell’organizzazione dello Stato - dalla sconfitta militare del 1943-45, che tutto il seguito della storia è solo una conseguenza di quel tragico evento, e che oggi, che ci si dica (se la cosa ci fa piacere) “di sinistra”, “di centro”, “di destra”, o come cavolo ci pare, non si può che prendere atto che non si può avere al contempo un’Italia sovrana, libera e indipendente e continuare a ripetere la filastrocca antifascista imposta e dettata dai nostri padroni che hanno messo a tiranneggiarci i peggiori individui del nostro popolo.
Perciò, per esser chiari, non è necessario approvare in toto l'esperienza fascista (il che del resto non ha senso, se guardare al passato serve più che altro per trarre spunti riattivabili per il futuro, ovviamente considerando la situazione concreta), ma da qui a perseverare in una versione che oltretutto è farina del sacco di coloro dai quali ci si dovrebbe invece “liberare” (e non perdere tempo con la “corruzione” di questo o quel politicante da strapazzo), mi pare un tantino incoerente.
Che almeno ci si avveda dei rischi e delle insidie dell’“antifascismo”, oggi, a quasi settant’anni e coi protagonisti di quegli eventi che son quasi tutti morti; il che, se non dà automaticamente un “fascismo” (come meno e meno fanno più), almeno mette sul chi va là dal peggiore degli autolesionismi: l’“odio di sé”, che non può che rafforzare le catene che ci hanno messo, perché avremo sempre paura di alzare la testa per il timore, introiettato a forza, di fare sempre “danni”, cioè un “nuovo fascismo”; per il terrore indotto di “commettere il male”, il “Male assoluto”, cosicché si chiarisce ulteriormente che non è poi così astruso parlare di ‘religione dell’antifascismo’.
L’“odio di sé” è sempre una brutta bestia e conduce dritti al suicidio. C’è un libretto davvero interessante scritto da un giovane ebreo austriaco, Otto Weininger (1880-1903), “Ebraismo e odio di sé”, il quale, non trovando alcuna via d’uscita esistenziale alla sua condizione “disperata”, scelse coerentemente di suicidarsi dal momento che, a suo parere, la vita “non aveva senso”. Che equivale a dire “senza speranza” o anche senza alcuna possibilità di combinare nulla di buono, quindi destinata solo ad un inevitabile “commettere il male”.
Ecco, noi italiani siamo messi un po’ come quello sventurato acuto pensatore, che precludendosi le porte alla “speranza” e vedendo “tutto nero” si tolse la vita, probabilmente in un’estrema ed ‘anarchica’ affermazione di “libertà”. Noi italiani ci sentiamo, come lui, affetti da una “tara”, che se non è concepita in termini genetici, poco ci manca.
Noi siamo italiani, che ci piaccia o no, e far proprio l'antifascismo è come sputarsi in faccia ogni giorno, visto che quell'esperienza è uscita dal “genio italiano”, è stata farina del nostro sacco e, prima che stendessero la spessa coltre della disinformazione, ci è stata, prima dichiaratamente - persino nelle parole dei nemici - poi inconfessabilmente, addirittura invidiata e, nei limiti del possibile, copiata...
Possibile, dunque, che arrivati ad un punto in cui tutto, anche grazie ad una circolazione delle informazioni come mai s’è visto prima, diventa incredibilmente chiaro, ci siano ancora remore nel dire come stanno le cose? Ce la vogliamo dare o no una salutare sveglia? Vogliamo vivere oppure ciondolare come dei morti viventi prima dell’ineluttabile “suicidio”?



[1] La quale, beninteso, resta dov’è, intoccabile, per essere utilizzata alla bisogna, tant’è vero che per vedersi sciogliere un movimento non è necessario chiamarlo “Partito Nazionale Fascista”. Quanto al MSI, non è mai stato un “partito fascista”, e lo si è capito benissimo con la “svolta di Fiuggi”, già tentata anni prima con la “Destra Nazionale” e, per chi sapeva ben vedere, alla costituzione stessa di quel partito, ad opera di elementi già compromessisi con i “liberatori”. Ma ciò non ha mai impedito agli “antifascisti” più esacerbati di accusare questa “Repubblica antifascista nata dalla Resistenza” di aver consentito la formazione di un partito che, nella migliore delle ipotesi, si è rivelato piuttosto un’utile valvola di sfogo per le pulsioni e le illusioni di un bacino elettorale composto perlopiù da gente in buona fede che pensava di votare “fascista”. Quanto ai partitini “a destra della destra”, essi, oltre che rappresentare un necessario strumento per intercettare le fisiologiche defezioni dal MSI, hanno avuto l’ulteriore colpa d’inscenare il “fascista così come l’ha descritto l’antifascismo”, cosicché il “fascista” è diventato spesso e volentieri una macchietta ad immagine di certa “destra anglosassone”, dai simboli adottati, all’abbigliamento, allo stile di vita. Il tutto, poi, condito da un “occidentalismo” spinto all’ennesima potenza, complementare tuttavia a quello “dirittumanofilo” e “arcobalenista” ed altrettanto unilaterale nel posizionarsi in maniera ostile a quelli che a turno vengono additati a “nemici dell’umanità” (oggi l’Islam e i musulmani).
[2] E pensare che hanno la faccia tosta di affermare che “dopo il 1945 vi fu il ritorno alla democrazia”, quando il “prima” era stato nettamente peggiore per la maggioranza della popolazione italiana, la quale non rimpiangeva affatto i vari Giolitti, Salandra e Sonnino.
[3] Al che si comprende uno dei perché della creazione del “Focolare Nazionale Ebraico” in Palestina.
[4] Questo è un punto importantissimo che andrà sviluppato in un prossimo intervento. La contraffazione parodistica della “liberazione”, difatti, non è condotta solo con lo strumento militare. La “liberazione” quale ideale (“della donna”, “degli omosessuali”, “dei giovani” eccetera) è uno dei capisaldi della visione del mondo “moderna”, e c’è il concreto rischio che essa si espanda come un’alluvione anche in quelle realtà sin qui abbastanza protette, nell’essenziale, dalla credenza in un Dio che trascende ogni cosa. Non a caso i cantori delle “liberazioni” colpiscono duro contro la religione, incitando al “credi a te stesso” e “tu sei Dio”, che si risolve nell’atteggiamento fondamentale di chi, soddisfatto delle magnifiche sorti e progressive, non concepisce e non sopporta più alcun “freno” alle tendenze del basso “io” egoistico. Tutto un apparato propagandistico, dalla musica alle riviste, incita in questa direzione, gli individui e la società si plasmano di conseguenza e l’ordinamento giuridico alla fine recepisce come “leggi” quelle che sembrano innocenti “rivendicazioni” in nome della “libertà”, in un circolo vizioso che trascina solo verso la perdizione di sé e al caos sociale.

 http://europeanphoenix.net/it/component/content/article/3-societa/292-fino-a-quando-festeggeremo-la-nostra-rovina-note-sugli-italiani-e-il-25-aprile

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