mercoledì 14 marzo 2012

UCCIDETE MINO, LA PENNA SCOMODA AI POTENTI



Carmine "Mino" Pecorelli fu ucciso a Roma il 20 marzo del 1979.
Poco più di tre anni dopo, il 3 settembre del 1982, un agguato a Palermo pose fine anche alla vita del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (e di sua moglie).

Entrambi a conoscenza di importanti segreti di Stato, erano i depositari della vicenda Moro e dei tanti intrecci tra politica, terrorismo, P2, mafia e finanza.
E per questo furono uccisi.

Il 26 novembre del 1992, a tredici anni di distanza dal primo omicidio e a dieci dal secondo, il pentito di mafia Tommaso Buscetta dichiarò alla magistratura che «Pecorelli stava scoprendo porcherie politiche [...] segreti che anche Dalla Chiesa conosceva. Pecorelli e Dalla Chiesa sono cose che s'intrecciano».

Chi è stato Mino Pecorelli?
Nato a Sessano del Molise (Isernia), il 14 settembre 1928, Pecorelli si laurea in Giurisprudenza iniziando la carriera di avvocato, diventando esperto di diritto fallimentare con particolare riferimento ai crack fraudolenti. L'inserimento in questo particolare settore, inizierà a fargli capire, e a scoprire, i legami tra gli ambienti della finanza e della politici.

Dopo una breve esperienza in politica, come portavoce del ministro Fiorentino Sullo e come giornalista presso il periodico "Nuovo Mondo d'Oggi" (rivista caratterizzata dalla pubblicazione di scoop scandalistici), fonda nel 1968 l'agenzia OP (Osservatorio Politico), che nel marzo 1978 si trasforma in rivista settimanale.
La testata, il cui nome coincideva con l'acronimo in uso quel periodo "Ordine Pubblico", pubblicava una velina settimanale destinata a una selezionata lista di abbonati, che comprendeva alte sfere politiche, militari e industriali del nostro Paese.
OP trattava di politica, con particolare riguardo agli scandali e ai retroscena delle manovre di palazzo, descrivendo quadri illeciti, anticipando mosse, intuendo tradimenti, fornendo in anteprima notizie che lo stesso Pecorelli raccoglieva grazie alle sue numerose frequentazioni di ambienti dello Stato (servizi segreti, magistratura, forze armate, carabinieri e polizia), della finanza e dello spettacolo. Rapporti personali che gli permettevano non solo di conoscere in anteprima notizie riservate, ma anche di entrare in possesso di documenti scottanti su vicende delicate e di grande interesse pubblico.
Il flusso di queste notizie si arrestò con la sua morte. Privata della principale fonte di informazioni, la rivista chiuse rapidamente i battenti.

Accusato da più parti di essere al servizio del SID (i Servizi segreti italiani), Pecorelli rivendicò pubblicamente la sua autonomia e la sua professionalità nel numero 78/18 di OP: «Qualcuno ha detto che siamo l'agenzia del SID. Qualcun altro, l'agenzia di Miceli. Ognuno a tirare acqua al suo mulino, in un gran groviglio di inganni e cortine fumogene, pur di nascondere, pur di inquinare. [...] La verità è che OP ha una sua propria autonoma, rete di informatori. E che è bene introdotta in certi ambienti. E che mette in circolo tutte le notizie, nessuna esclusa, che riesce a raggiungere. Lasciando alla intelligenza e alla libertà dei suoi lettori analisi e giudizi. Il nostro archivio, il nostro pubblico, fa fede di questo. Questo nostro costume è talmente originale, talmente straordinario per il giornalismo italiano, da risultare sconvolgente e pericoloso per tutti gli attuali uomini del sistema (e delle veline). Tutti possono ricordare che abbiamo riportato, per rimanere al SID, note contro Henke, note contro Miceli, contro Maletti, contro La Bruna, contro altri».

A onore del vero, nessuna notizia o informazione fu occultata da Pecorelli che, anzi, permetteva ad altri colleghi di attingere alle sue fonti, dimostrando così che per lui era importante che la notizia pubblicata da OP avesse la massima diffusione.

Certo, il modo di presentare le notizie poteva apparire ambiguo, facendo ritenere a molti che questo stile fosse indice di forme velate di ricatto o di condizionamento politico. Tuttavia, come è stato appurato anche in sede processuale, il giornalista non aveva mai ricattato nessuno (lo confermò anche la situazione patrimoniale e finanziaria al momento della sua morte).

Pecorelli, infatti, era titolare di conti correnti modesti e, come emerge dalla deposizione di Franca Mangiavacca, compagna del giornalista, era solo proprietario dell'abitazione in via della Camilluccia (acquistata in cooperativa) e di villa Zincone (acquistata con il frutto del lavoro di entrambi).
Anche la situazione finanziaria della rivista non era delle più floride, tanto che il giornalista aveva contratto debiti nei confronti della tipografia che stampava il giornale.
Tuttavia, l'affannosa ricerca di denaro per far sopravvivere la sua testata, lo portò ad accettare finanziamenti non contabilizzati o a mettere a disposizione le pagine, a pagamento, per battaglie che non erano sue. Come, ad esempio, l'ospitalità data a Michele Sindona per un attacco violento alla Banca d'Italia che si opponeva al salvataggio dei suoi istituti bancari.
Sebbene il giornalista fosse iscritto alla loggia massonica P2 e benché fosse attestato su posizioni anticomuniste, Pecorelli non era per questo indulgente verso la parte politica a lui vicina. Fu anche per questo che raccolse intorno a se molti e potenti nemici.

Tutta la storia professionale di Pecorelli, dalla fondazione di OP fino al suo assassinio, è costellata da misteri, intrighi, clamorose rivelazioni e coincidenze.

Già la trasformazione dell'agenzia giornalista in un periodico a stampa regolarmente in vendita nelle edicole corrisponde con un periodo altamente simbolico: l'inizio della "Operazione Fritz" da parte delle Brigate Rosse. Lo stupefacente e sospetto tempismo tra il primo numero del settimanale OP e la strage di via Fani a Roma, con cui iniziò il periodo dei cinquantacinque giorni del sequestro di Aldo Moro, destò infatti molti perplessità. Se a ciò accostiamo la scarsezza dei fondi che Pecorelli aveva per questa avventura editoriale, i sospetti si fanno ancor più fitti.

Indubbiamente, Pecorelli con la sua "creatura" editoriale ¬- l'agenzia OP - si inserisce a pieno titolo nel clima della strategia della tensione. Molti sono i suoi bersagli, tra questi soprattutto Giulio Andreotti (accusato poi di essere il mandante dell'assassinio) e il suo entourage (dall'onorevole Franco Evangelisti al magistrato Claudio Vitalone), ma anche il venerabile maestro della Loggia P2 Licio Gelli, il presidente della Repubblica Leone e altri ancora.
Ma OP si occupò anche di una ipotetica loggia massonica in Vaticano (scoop pubblicato all'indomani dell'elezione al soglio pontificio di Albino Luciani, il papa che durò solo trentatré giorni) e di finanziamenti della CIA alla Democrazia Cristiana. Dalle colonne del giornale Pecorelli non risparmiò attacchi anche al generale Dalla Chiesa, indicandolo come il "Generale Amen" e profetizzando la sua morte violenta (scriveva Pecorelli nel numero 27 della sua rivista: «[...] Ora c'è solo da immaginarsi [...] quale sarà il Generale dei CC che sarà trovato suicida con la classica revolverata che fa tutto da sé [...] o con il solito incidente d'auto radiocomandato nelle curve [...] o la sbadataggine di un camionista [...] o l'incidente d'elicottero [...]. Purtroppo il nome del Generale dei CC è noto: Amen»).

Verso Licio Gelli e la sua loggia massonica Pecorelli assunse invece un atteggiamento ambiguo. A partire dal 1975, infatti, comincia a prendere di mira la P2: «Come non si sa», si leggeva in un articolo del 15 gennaio 1975, «la massoneria è una cosa che fa morire dal ridere. Ma è anche una bottega per quelli che la sanno sfruttare [...]. Tra l'altro si credono uomini del destino, incaricati dal Padreterno di tracciare le mete per la salvezza del Paese. Basta conoscerne qualcuno per farsi un'idea della massoneria». Ancora più esplicita era la denuncia fatta da Pecorelli sui reali scopi della Loggia P2: «Libertà, fratellanza e uguaglianza sono i tre termini della più geniale truffa che sia stata mai organizzata per sfruttare la democrazia [...]. In genere [i massoni] si riuniscono per fottere chi fotte più grana...».

Nel 1977, tuttavia, Pecorelli muta atteggiamento all'improvviso, e OP definisce il venerabile maestro Gelli «vittima di maldicenze».

Il 25 giugno 1977, un articolo di OP arriva a tessere le lodi della loggia segreta: «Si ha un bel dire che sia un covo di golpisti e sovversivi. Vi aderiscono personaggi politici delle più diverse espressioni, ma tutti di primo piano: militari, magistrati, alti funzionari della pubblica amministrazione. Si può dire che Gelli rappresenti quel che resta dello Stato. E ormai si può aggiungere pure che tutti insieme i fratelli della P2 hanno giurato di far giustizia e pulizia. A cominciare da Palazzo Giustiniani».

Il mutamento di registro da parte di OP segue di qualche mese l'affiliazione di Pecorelli alla P2, avvenuta il 1° gennaio 1977 (tessera n. 1750, codice massonico E.19.77). Ma la repentina indulgenza di OP verso Gelli e verso la sua lobby politico-affaristica è di breve durata: il 18 maggio del 1977, infatti, con una lettera indirizzata al venerabile maestro, Pecorelli annuncia formalmente il proprio distacco dalla Loggia P2.
Scrive il giornalista nella missiva: «Caro Licio, ho atteso invano una tua comunicazione riguardo Fratello Gigi. All'atto di sollecitare il Tuo autorevole intervento, ti avevo anche rappresentato la mia premura, data l'imminenza del processo [probabilmente, per una delle numerose querele per diffamazione a mezzo stampa che colpivano "Op", ndr]. Se la risposta non è arrivata vuol dire che nella Famiglia è venuta meno, o forse non c'è mai stata, la solidale assistenza dei Suoi componenti o che, nella migliore delle ipotesi, essa è indirizzata verso un'unica direzione. Esistono, per caso, Fratelli di serie A e Fratelli di serie B? Oppure "quello che è in alto non è uguale a quello che è in basso"? Ho notizia che Fratello Gigi almeno in due occasioni ha evitato guai per merito proprio della Famiglia. Io, invece, potrei essere punito per avere esercitato un diritto sancito dalla "legge comune". Nel constatare siffatta disparità, Ti rassegno la mia decisione di uscire definitivamente dall'Organizzazione. Ho fatto una breve ma significativa esperienza che mi conforta nel credere che non ci sono Templi da edificare alle Virtù, bensì solo all'ingiustizia e all'arroganza. Per quanto riguarda i nostri personali rapporti mi auguro, se lo desideri, che essi possano rimanere immutati».
Gli attacchi alla massoneria di Gelli continuano incalzanti fino a pochi giorni prima dell'uccisione del giornalista. Poco prima di morire Pecorelli attacca la P2 direttamente, scrivendo sulla sua rivista: «Attentati, stragi, tentativi di Golpe, l'ombra della massoneria ha aleggiato dappertutto: da Piazza Fontana al delitto Occorsio, dal golpe Borghese all'Anonima sequestri, alla fuga di Michele Sindona dall'Italia [...]».

Pecorelli inizia ad essere perseguitato e minacciato. È pedinato, fatto oggetto di
attentati contro la sua auto, accusato di falso in bilancio e di bancarotta, denunciato all'Ordine dei giornalisti per i continui reati di diffamazione.
Il clima che si crea intorno a sé lo turba, e inizia a preoccuparsi per la sua vita. Questi timori emergono anche dalla testimonianza della sorella, Rosina Pecorelli, la quale fa riferimento alle confidenze ricevute dall'avvocato De Cataldo il quale le aveva accennato ad apprensioni riferitegli dal giornalista poco prima di morire.
Egli stesso profetizza la sua fine. Scrivendo sulla rivista una nota "a futura memoria", afferma: «I nostri lettori e coloro che ci stimano saprebbero riconoscere immediatamente la mano che ha armato chi vorrà torcerci anche un solo capello».

La preveggenza di Pecorelli si fa realtà il 20 marzo 1979: il carabiniere ausiliario Ciro Formuso segnala alle 20.40 l'assassinio del giornalista alla sala operativa dei carabinieri. Mino Pecorelli è ucciso con quattro colpi di pistola calibro 7.65, tre alla schiena e uno in faccia. E' trovato steso sui sedili anteriori della sua Citroen parcheggiata in via Orazio, a pochi metri da via Tacito, sede della redazione di OP.

Ma chi ha ucciso Mino? E perché solo ora?

I proiettili che hanno ucciso il giornalista sono molto particolari, marca Gevelot, assai rari da trovare sul mercato, anche su quello clandestino. Sono tuttavia dello stesso tipo di quelli che sarebbero poi stati trovati nell'arsenale della Banda della Magliana, nascosto nei sotterranei del Ministero della Sanità.

Una prima indagine coinvolge Massimo Carminati, esponente dei Nuclei Armati Rivoluzionari e della Banda della Magliana, ma anche Licio Gelli, Antonio Viezzer, Cristiano e Valerio Fioravanti. Che però nel 1991 verranno prosciolti dal giudice istruttore Francesco Monastero.

Nei mesi a seguire le ipotesi sul mandante e sul movente si moltiplicano: da Gelli alla mafia, fino ad arrivare ai petrolieri e ai falsari di De Chirico.
Nel 1993 la svolta: il pentito Tommaso Buscetta, interrogato dai magistrati di Palermo, accusa Giulio Andreotti. Nell'interrogatorio reso il 6 aprile 1993, Buscetta dichiara infatti che "L'omicidio di Pecorelli è stato deciso da Stefano Bontate nell'interesse di Andreotti". Nell'inchiesta entrano anche Gaetano Badalamenti e Giuseppe Calò. Nell'agosto dello stesso anno le dichiarazioni dei pentiti della banda della Magliana, Vittorio Carnovale, Fabiola Moretti, Maurizio Abbatino, Antonio Mancini e Chiara Zossolo, coinvolgono l'allora magistrato romano Claudio Vitalone.

Si è saputo che la sera in cui Pecorelli fu ucciso, in tipografia era già pronto l'ultimo numero di OP che attaccava nuovamente Andreotti.
Sulla copertina vi compariva a tutto campo la foto del presidente del Consiglio Giulio Andreotti, con un titolo a caratteri cubitali: " Gli assegni del Presidente". La copertina fu ritrovata, le pagine interne mai: forse contenevano i nomi di chi aveva incassato gli assegni, come aveva anticipato Mino nelle settimane precedenti.

Il processo comincia a Perugia l'11 aprile 1996. A presiedere la Corte d'assise è Paolo Nannarone che però risulta incompatibile. È sostituito da Giancarlo Orzella.
Il 9 settembre Tommaso Buscetta conferma le accuse contro Andreotti: "Badalamenti e Stefano Bontade mi hanno riferito che l'omicidio Pecorelli lo avevano fatto loro, su richiesta dei cugini Salvo, nell'interesse del senatore Andreotti".
Secondo Buscetta, Pecorelli era in grado di pubblicare documenti che riguardavano il caso Moro e che erano in possesso del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Il 10 settembre Buscetta ritratta in parte le dichiarazioni del giorno prima.
Il 24 settembre 1999, dopo quattro giorni di camera di consiglio, la Corte d'assise di Perugia assolve tutti gli imputati.
Il 17 novembre 2002 la corte d'Appello di Perugia assolve tutti gli altri imputati, ma condanna a ventiquattro anni di reclusione il senatore a vita Giulio Andreotti e l'ex capomafia Gaetano Badalamenti.
Il 30 ottobre 2003 la Cassazione annulla senza rinvio la sentenza della Corte d'Appello di Perugia. Andreotti e Badalamenti sono completamente assolti d'accusa dell'omicidio di Mino Pecorelli. L'omicidio Pecorelli resta senza colpevoli.

La supposta relazione tra l'omicidio Moro e quello Pecorelli è la teoria che
attualmente gode del maggior credito.
Pecorelli sapeva molto sulla vicenda Moro.
Il periodico si occupò a più riprese del rapimento e dell'omicidio dello statista democristiano, arrivando a fare rivelazioni sconcertanti. Pecorelli aveva già annunciato che il 15 marzo 1978 in Italia sarebbe accaduto qualcosa di gravissimo. Sbaglia di un giorno.
Il 16 marzo Moro è sequestrato e la sua scorta trucidata. In seguito si saprà che le BR avevano inizialmente deciso di rapire Moro il 15 marzo.

Secondo Pecorelli, durante il sequestro Moro, Dalla Chiesa aveva informato il ministro dell'interno Cossiga dell'ubicazione del covo in cui era detenuto. Ma secondo il giornalista Cossiga non aveva potuto far nulla: "Cossiga non poteva fare niente per salvare Moro perché doveva sentire più in alto, ma in alto dove sino alla loggia di Cristo in Paradiso?". Forse un chiaro riferimento alla Loggia P2 o alle stanze del potere statunitense?

Sulla stessa rivista, Pecorelli riesce anche a pubblicare tre lettere (con autentica "copie conforme") scritte da Aldo Moro prigioniero della BR e destinate alla moglie, a Zaccagnini e al fidato Rana, che erano state sequestrate dalla magistratura.

In occasione del ritrovamento del memoriale di Moro nel covo delle BR di via Montenevoso, nei numeri 27, 28 e 29 di OP di ottobre, Pecorelli va giù duro. Scrive "Non credo all'autenticità del memoriale, o alla sua integrità, e alle banalità che sono state riportate alla luce. Moro non può aver detto quelle cose e solo quelle cose arcinote; non era stupido, dicendo solo quelle cose, sapeva che non sarebbe uscito vivo dalla prigione. Quindi c'è dell'altro. Così ora sappiamo che ci sono memoriali falsi e memoriali veri. Questo qui diffuso è anche mal confezionato".

La ricerca di documenti o novità compromettenti intensifica i contatti di Pecorelli.

Negli ultimi tre mesi di vita il giornalista si era incontrato più volte con Vitalone, con l'ex capo dell'Ufficio Affari Riservati Federico d'Amato, e poi con altri personaggi tra cui Franco Evangelisti, Pietro Musumeci, Antonio Varisco (poi ucciso in un attentato rivendicato dalle BR), Angelo Casentino (consigliere del presidente della Repubblica Giovanni Leone).
Il nome del PM Luciano Infelici ricorre cinque volte, i contatti telefonici con Evangelisti sono quasi settimanali.
La maggior parte dei personaggi che Pecorelli incontra sono personalità di primissimo piano della politica, della magistratura e dei servizi segreti, quasi tutti iscritti alla P2.

Nel gennaio del 1979 Pecorelli annuncia pubblicamente nuove rivelazioni sul delitto Moro: «Torneremo a parlare del furgone, dei piloti, del giovane dal giubbetto azzurro visto in via Fani, del rullino fotografico, del garage compiacente che ha ospitato le macchine servite all'operazione, del prete contattato dalle BR, del passo carrabile al centro di Roma, delle trattative intercorse [...]».
Rimane un annuncio.
Il 20 marzo 1979 il direttore di OP viene assassinato.

Articolo di RENZO PATERNOSTER


BIBLIOGRAFIA

* Pecorelli-OP. Storia di un'agenzia giornalistica, di V. Iacopino - SugarCo, Milano, 1981
* Scoop mortale. Mino Pecorelli. Storia di un giornalista kamikaze, di R. Di Giovacchino - Pironti, Napoli, 1994
* I veleni di OP. Le "notizie riservate" di Mino Pecorelli, di F. Pecorelli F. e R. Sommella - Kaos Edizioni, Milano, 1995
* Mino Pecorelli: un uomo che sapeva troppo. La ricostruzione di un caso ancora aperto nell'Italia dei misteri, di M. Corrias M. e R. Duiz - Sperling & Kupfer, 1996
* Il libro nero della Repubblica, di R. Di Giovacchino - Fazi, Roma, 2005
* Dossier Pecorelli, di S. Flamini - Kaos Edizioni, Milano, 2005

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