venerdì 30 marzo 2012

L’Italia, gli italiani e la Libia



di: Raffaele Panico

Nel 1924 ci fu un censimento degli italiani all’estero. I dati sono riportati in uno studio del 1996 di Liauzu Claude editato a Bruxelles sulla storia delle emigrazioni nel Mediterraneo occidentale. Questi i dati sugli italiani: Tunisia 91.000 presenze; in Marocco 12.000; in Egitto 45.000, e in Algeria 37.000 residenti. Non sono riportati gli italiani in Libia, una colonia pre-fascista, già dal 1911 territorio del Regno d’Italia e dove risiedevano, insieme all’elemento arabo ed ebreo, dai tempi di Leptis Magna, nei tempi antichi seconda città dell’Impero romano. Una città imperiale, dove si parlava un latino con accenti tipici della Libia, come riportano i cronisti del tempo ...
La presenza italiana in Tunisia è testimoniata anche ai tempi degli Stati italiani pre-unitari, ai tempi di Giuseppe Garibaldi e, molto di recente, da alcuni scritti pubblicati da un altro importante esule politico: Bettino Craxi, nella seconda metà degli anni Novanta del secolo scorso.
L’incremento della presenza italiana avviene però a partire dal 1881 quando la Francia occupa la Tunisia, già terra di cosce e pirateria.
La cosa interessante è rileggere una storia dimenticata attraverso la serie di pubblicistica, giornali, riviste, libri, sull’applicazione del lavoro degli italiani in quelle terre. Tra questi citiamo Achille Benedetti: “Tenaci rurali italiani vittoriosi in Tunisia” (Corriere della Sera del 24/071938); Marinette Pendola, “La riva lontana” (Sellerio, Palermo 2000); Vito Magliocco, “La nostra colonia di Tunisi” (Edizioni La Prora, Milano 1933); Giacomo De Martino, “Cirene e Cartagine, Note e impressioni della carovana De Martino Badari - giugno-luglio 1907” (Zanichelli, Bologna 1908); Tito Poggi, “Dalla vigna alla cantina. Lettera ai contadini - Il Viticoltore tunisino” (edizione del 10/11/1938).
Insomma da questa breve e scarna raccolta di produzione intellettuale in lingua italiana può vedersi l’approccio pre-consumistico, prima cioè del fallimento generale della seconda guerra mondiale e dei successivi anni di cosiddetto boom economico, dei quali forse a ben vedere scontiamo oggi il caro prezzo di tanta economia “americanizzata” prima che modernizzata e meccanizzata, a modo nostro.
Quella del buon lavoratore italiano che sapeva dare un approccio umanistico al lavoro ben eseguito, nel rispetto di parametri ecologici e antropologici insiti in popolazioni da sempre insistenti e coesistenti nel bacino del Mediterraneo. Scrive Magliocco: “Fate il conto di quanto costa mettere al mondo, allevare, educare curare un bambino, che poi sarà un ragazzo, che poi sarà un giovane, che poi sarà un uomo, che poi sarà un emigrante: ossia uno che all’economia italiana sarà costato decine di milioni e, poi, andrà a produrre ricchezza in un altro paese”.
Scrive queste parole Vito Magliocco nel 1957, quando dà alla stampa il volume “Dall’Italia alle rive della Sirte” (Milano, 1957 “Nuove ed. d’Italia, pagine 92), ritrovato nella Biblioteca di Anzio (Roma) Fondo Misiti. Nato in una città dell’Africa mediterranea, Magliocco frequenta le scuole italiane all’estero, poi le francesi e il Politecnico in Francia dove aveva anche lavorato.
Poi emigrato negli Usa, fece lavoro da operaio nelle officine Ford di Detroit. Pubblica varie opere e, prima del secondo conflitto mondiale, viene premiato dalla Reale Accademia d’Italia. Di alcuni suoi successi e brevetti i tedeschi, negli anni ’50, comprano anche i diritti letterari.
Nel 1957 Magliocco da Pisa parte in aereo per un viaggio in Libia, in piena estate, stagione meno propizia, per ritrovare, a dieci anni dal Trattato di Parigi, le terre dissodate dal sudore e dal sangue degli italiani.
Per 21 giorni documenta la realtà con coscienza di uomo civile, e scrive: “La terra di Cirenaica è bruna, buona come quella che conosco: «Cirenaica verde».
Ma non ci sono più gli italiani e nessuno coltiva la terra: è abbandonata. Dall’aeroplano hai la visione delle tappe della riconquista del deserto che avanza nuovamente verso la fascia costiera: e dalle zone che continuano a resistere; perché certi uomini (italiani) resistono ancora. E quando questi Italiani «molleranno», dopo aver resistito alla guerra, dopo aver resistito alla pace peggiore della guerra, il deserto compirà la sua opera”. E subito dopo, scrive: “Tobruk è base navale inglese. È in affitto. Nella Marmarica gli inglesi cercano il petrolio.
La Mellaha, presso Tripoli, è base strategica americana. È in affitto.
Gli americani cercano il petrolio nel Fezzan dove i francesi, dopo di noi, volevano tenerselo [il Fezzan; e si discuteva, ante guerra tra Roma e Parigi, quanto il confine dovesse andare a favore dell’Italia includendo il massiccio del Tibesti; Ndr ] ma hanno dovuto sgomberarlo pochi anni addietro per fare largo agli altri. A Tripoli gli alberghi sono zeppi di coloro di cui già vi dissi. A Bengasi idem (i cercatori di petrolio e loro cortigiane. Ndr). Villette qua e là sulla costa sono sorte per il riposo e le distrazioni di questi signori, signore e relativa prole. L’opera dell’Italia è spezzata. E tutto è rimasto fermo.
Si attende il petrolio? Si attende che la terza guerra mondiale chiarisca le posizioni? si attende. Gli italiani da 150.000 (il programma era di due milioni a fine anni Cinquanta) si sono ridotti a 35.000: nuovi arrivi non ne vogliono, nuove partenze, sì. A poco a poco, si ridurranno ancora: la stessa politica che in Egitto. Un paese non si tiene con le «basi», qualunque sia la loro potenza. Si tiene popolandolo, amministrandolo, incivilendolo, possedendolo. «Fortuna che non siamo più in Libia», dicono certuni in Italia davanti alle difficoltà della Francia nel Nord Africa. Se non ci avessero tolto la Libia, con qual trattato di pace accettato da un Governo che sembrava avere il sadico piacere di «bere l’amaro calice» dell’espiazione fino in fondo, di colpe non sue, le cose nel Nord Africa sarebbero andate diversamente.
L’Europa cominciò a perdere l’Africa il giorno in cui fu firmato il nostro trattato di pace. (…) Gli uomini passano, i problemi restano, si complicano, e altri problemi sorgono.”
Parole profetiche dell’ingegnere Magliocco, oggi la Libia e l’Europa sono distanti, e ancora senza speranza. Quella terra libica sempre amata anche più della stessa madre patria, era stata ben governata e amministrata, come la Somalia colonia pre-fascista lasciata dopo l’Amministrazione italiana, voluta dall’ONU dal 1947 fino al 1960, ben tenuta, organizzata con infrastrutture civili, ospedali strade ecc.
Per concludere, dalle pagine “attuali” ricavate da Vito Magliocco si aggiunga: “dare lavoro a una popolazione che non ha sufficienti risorse nel suo paese, che non ne avrà mai, con o senza la Cassa del Mezzogiorno, con o senza redenzione delle zone depresse, con o senza valorizzazione del turismo”.
Sugli Stati Uniti conclude: “conseguirono la più grande vittoria di tutti i secoli e i governanti di uno dei popoli più dinamici credettero di poter fermare il tempo e congelare gli altri popoli in stati di fatto al momento T (Trattati di pace. Ndr) in cui furono firmati i trattati, i quali non risolvevano nulla”.
E dell’Europa sotto il giogo sovietico: “In nome di chi abbiamo deciso di ucciderci con le nostre mani? A quale limite è arrivata la stoltezza dell’Europa! Se questo è il risultato del veleno russo che immobilizza il cervello dei nostri uomini politici, dove sono i politici, coloro il cui mestiere dovrebbe essere di sapere sintetizzare i problemi? Qualunque promessa non servirà a nulla”.
Tutte parole vere quelle di Magliocco, meno che su alcuni cambiamenti strutturali che l’ingegnere allora non poteva prevedere (la vita si allunga, migliora l’aspettativa di vita anche dopo gli ottanta anni, per gli europei e loro popolo amici e assimilati.
Abbiamo le comunicazioni che uniscono il globo e preparano un nuovo tentativo di unità del mondo, per dirla alla Carl Schmitt.
La terza guerra mondiale, in fondo, si è combattuta, ma non con armi convenzionali e meno che mai con l’uso dell’atomo. Questa opzione è stata solo un deterrente che unito alla propaganda sovietica che alimentava come un fiume sotterranei i partiti eurocomunisti, soprattutto in Francia ed in Italia, ha fatto una sporca guerra psicologica, in cui si versava di tutto sulle piazze, caso emblematico la Berlino Ovest tarlata dal consumismo, vizi e slogan vogliamo tutto e subito (ma cosa?) e i vari stupefacenti che hanno soppiantato le guerre dell’Oppio in Cina nell’800.
Dopo il 1945 e l’era dei Trattati dal calice amaro, propinati al nostro popolo da “uomini solo distintivo e peperoncini”, si vedano le recenti immagini dei film quali, “I ragazzi dello zoo di Berlino, e “Cristiana Effe”, quante vite hanno spezzato, generazioni di giovani, tra la fine degli anni ’60 e ’70, hanno visto una nuova guerra dell’oppio più letale più sintetico e più subdolo di quello versato ai cinesi ad intrapresa inglese.
Oggi, la situazione potrebbe essere così sintetizzata dalle parole pronunciate da Lenin in questi termini efficaci: “ Fra cinquant’anni le armi avranno ben poco senso. Avremo ‘imputridito’ abbastanza i nostri nemici prima dello scoppio delle ostilità, perché l’apparato militare possa venire utilizzato nell’ora del bisogno…” Lenin, morto nel 1924, ancora un mito oggi, per alcuni (mai stati) europei…

http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=13106

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