giovedì 12 gennaio 2012

Rivoluzione Europea (sconfitta solo dalla forza delle armi)



di Mario Consoli

Nel corso del XX secolo, alle due ideologie preponderanti, quella liberalcapitalistica e quella comunista - con gli USA alla testa di tutte le demoplutocrazie e l'URSS guida mondiale della «classe operaia» - si manifestò una sola opposizione realmente alternativa.
Si trattò di un fenomeno rivoluzionario che nacque e si sviluppò tra le due guerre mondiali. Prese il potere in Italia e Germania, ma trovò corpo e agì in ogni angolo d'Europa (1). Fu anzi così coinvolgente, alternativo e vitale da essere ripreso anche al di fuori dell'antico continente(2).
Considerando dunque l'ampiezza, la poliedricità e l'importanza politica e sociale di questo movimento, riteniamo opportuno definirlo in modo diverso da come sinora fatto dalla storiografia ufficiale, e cioè Rivoluzione Nazionale e Sociale Europea, da cui il più sintetico «Rivoluzione Europea».
Questa scelta è dettata da riflessioni tanto storico-geografiche che culturali e politiche. Culturali perché il movimento si è arricchito dei più svariati contenuti che ne hanno aumentato la portata e arricchito gli aspetti propositivi, e sarebbe limitativo continuarlo a chiamare con il nome di questa o di quella componente; politiche perché, identificandolo solo con una delle sue realizzazioni storiche, si circoscriverebbe e daterebbe un progetto che invece appare, sempre di più, ampio e avveniristico: il solo in grado di rappresentare l'alternativa al potere che attualmente domina il mondo.
Il Fascismo insomma, cui pur spetta un incontestabile diritto di primogenitura - per gran parte dei leader dei movimenti che hanno dato vita alla Rivoluzione Europea, a partire da Hitler, Mussolini è stato considerato un maestro - non riteniamo possa rappresentare l'intero fenomeno, né in termini politici, né in termini storici. E lo stesso dicasi per il Nazionalsocialismo, per la Falange e per tutti gli altri movimenti che hanno fatto parte della Rivoluzione Europea. Noi anzi pensiamo, con profonda convinzione, che ciò che è avvenuto in Europa tra le due guerre mondiali sia stato solo il tentativo parziale e iniziale di costruire, in alternativa al comunismo e al sistema demoplutocratico - che oggi si è trasformato in dittatura del capitalismo finanziario o, più semplicemente, in Mondialismo - una nuova Europa civile, organica, popolare e sociale. Un progetto ancora tutto da realizzare e che riteniamo probabile possa guidare, a prescindere dalle nomenclature usate e dalle insegne scelte, gli sviluppi storici dei prossimi decenni.
Non si tratta cioè di negare la validità delle esperienze storiche vissute dall'una o dall'altra nazione europea, ma di ricondurre il discorso sul piano delle idee, della loro vitalità e della loro attualità.
Storicamente, l'opera di precisazione, approfondimento, revisione è di assoluta importanza, soprattutto per riparare ai danni recati da una storiografia cialtronesca e mercenaria che ha agito per sessant'anni al solo scopo di minimizzare, criminalizzare, nascondere il buono, ingigantire il negativo, facilitata da un'amplificazione offerta a piene mani da mass-media politicamente interessati alla buona riuscita dell'opera mistificatrice. Un impegno di verità che riteniamo talmente importante da avergli sempre dedicato gran parte dello spazio della nostra rivista.
Ma politicamente, per lanciare le idee-forza che avranno il compito di offrire all'Europa di domani l'entusiasmo della rivolta, la volontà dell'indipendenza e la certezza delle costruzioni civili e sociali, poco importano le contingenze storiche. Non conta affatto che Mussolini si sia accorto in ritardo dei tradimenti e che, quando disponeva di tutto il consenso necessario, non abbia tolto all'Italia quella pesante ipoteca rappresentata da Casa Savoia. Poco importa come Hitler abbia gestito i suoi piani di strategia militare. Non interessa se la Falange spagnola non sia riuscita a contrastare il ruolo profondamente conservatore di Francisco Franco.
Ciò che importa è che quelle idee, oggi, risultano valide, attuali e idonee a ricondurre l'Europa sul suo tradizionale percorso di civiltà e a ridare vigore ai suoi popoli nella riconquista della sovranità nazionale.
Affrontando i temi politici dell'oggi e del domani, parleremo quindi sempre più spesso di Rivoluzione Europea, perché si tratta proprio della rivoluzione di cui abbiamo bisogno e per la quale continueremo ad offrire le nostre energie.

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Come può essere sottovalutata, presentata come fenomeno sostenuto solo da sciocchi o esaltati, una rivoluzione cui aderirono, e che contribuirono a vitalizzare, uomini dello spessore di un Gabriele d'Annunzio, di un Tommaso Filippo Marinetti, di un Giovanni Gentile, di un Julius Evola, di un Drieu_La Rochelle, di un Robert Brasillach, di un Céline, di un Knut Hamsun, di un Ezra Pound, per citare solo i più importanti uomini di cultura dell'epoca?
L'ininterrotto e insistente tentativo di criminalizzare e di ridurre la Rivoluzione Europea a episodi locali, personalistici e storicamente datati, operato da fonti di informazione, cinematografia, pubblicistica storica e politica, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, ne rappresenta a ben guardare il primo e più evidente «attestato di importanza».
Se si fosse trattato solo di due dittature personali e strettamente vincolate alla contingenza storica; se, come si vorrebbe far credere, il Fascismo non fosse stato altro che il teatro delle «megalomanie» di Benito Mussolini e il Nazionalsocialismo il risultato della «follia criminale» di Adolf Hitler, perché mai sull'argomento si sarebbero scritti e si continuerebbero a pubblicare migliaia di libri, saggi e articoli; a produrre e trasmettere migliaia di film, documentari e dibattiti televisivi?
Mussolini fu al potere ventidue anni, Hitler dodici. Prima dell'avvento del Fascismo, in Italia ci furono sessant'anni di regime liberal-democratico; dopo la fine della guerra altri sessant'anni di regime democristiano. Come mai su questi due lunghi periodi si è scritto, detto e dibattuto meno di un centesimo di ciò che si è fatto per i regimi fascisti?
Il grande interesse sull'argomento fu determinato dal fatto che la Rivoluzione Europea dimostrò sin da subito, diversamente da quanto palesato dalle utopie marxiste e leniniste, di poter realmente e durevolmente costruire un potere alternativo a quello del liberal-capitalismo e dei partiti ad esso funzionali.
E infatti il marxismo-leninismo, dopo aver guidato, tra URSS e paesi satellite, quasi mezzo mondo, senza che nessuno lo costringesse ha portato «i libri in tribunale», si è suicidato, ha pubblicamente ammesso di avere sbagliato. E i suoi reduci più fedeli, quelli che non hanno accettato il ruolo di vinti e hanno voluto rimanere «in carriera», sono finiti anch'essi nel coro dei legittimatori del capitalismo internazionale e del Mondialismo.
Il Fascismo e il Nazionalsocialismo invece hanno dovuto interrompere la loro attività di governo solo perché hanno perso la guerra. Ma, finché la violenza delle bombe demoplutocratiche lo ha consentito, in Italia e in Germania le cose funzionavano. L'economia era in crescita, la disoccupazione pressoché sparita, le leggi si erano modernizzate, le strutture dello Stato erano risanate, la socialità aveva smesso di essere un'istanza di classe ed era divenuta «giustizia sociale» per tutto il popolo, pratica di vita e opera di civiltà. La cultura era viva e creativa, si costruivano città e si bonificavano regioni. Il rapporto con la natura era rispettoso e lungimirante; sarebbe bene ricordare ai verdi di oggi, che si agitano in modo disorganico e inconcludente, che l'ecologia è nata in Germania quando al governo c'era il Nazionalsocialismo, e che allora operava con efficacia, in buon accordo col potere politico (3).
Ecco quello che mise in allarme le demoplutocrazie, sino a spingerle a scatenare una guerra repressiva di una violenza e di una barbarie inaudite: la Rivoluzione Europea, oltre a mantenere vivi gli antichi valori della tradizione, funzionava davvero.
Mentre l'URSS aspettava dagli USA carri armati e munizioni, in Italia e Germania si produceva e si perfezionava l'autarchia. Mentre le demoplutocrazie si organizzavano per sfruttare le nazioni e i popoli del mondo, in Europa si ipotizzava la socializzazione mondiale delle materie prime.
La Rivoluzione Europea, uscendo dalle beghe parlamentaristiche - che coinvolgevano destre e sinistre in un unico gioco sostanzialmente convergente, al servizio del sistema demoplutocratico - spostò il dibattito a un livello superiore: quello che contrapponeva le oligarchie partitocratiche, monarchiche, massoniche e finanziarie al nuovo potere, quello della comunità popolare.
Con la Rivoluzione Europea si opera una sintesi di valori nazionali e una costruttiva convivenza tra le componenti popolari legate ai valori della tradizione e quelle impegnate nel rinnovamento e nelle legittime e improcrastinabili battaglie per la giustizia sociale.
Non più destra contro sinistra, ma interesse del popolo e della nazione contro gli interessi delle oligarchie e quelli extranazionali.
Quelli di destra e sinistra sono termini talvolta comparsi anche nell'àmbito della Rivoluzione Europea, per indicare una o l'altra componente - quella più o meno aperta al sociale - del movimento, ma, pur comprendendo la comodità dialettica che può aver ispirato tali scelte, riteniamo opportuno sottolineare l'evidente contraddizione ideologica e il rischio di creare confusione politica che tali scelte comportano.
Non si può infatti rifiutare in blocco il sistema demoplutocratico e cercare di salvare termini che a quel sistema geneticamente appartengono. Non si può dirigere la propria azione in senso alternativo e contemporaneamente rischiare di essere confusi con forze che non fanno parte e, così come si propongono attualmente, non potranno mai far parte del sia pur ampio alveo della Rivoluzione Europea.
Per essere ancor più chiari, specificatamente per ciò che riguarda l'uso del termine
«sinistra», pensiamo utile ricordare l'itinerario esistenziale e politico di Nicola Bombacci. Dette vita, assieme a Gramsci, Bordiga, Fortichiari, Lazzari e Serrati, a quelle riunioni dell'ala massimalista del Partito Socialista iniziate a Firenze nel 1917 e concluse a Livorno nel 1921 con la scissione che rappresentò la nascita del Partito Comunista Italiano.
Nel corso del Ventennio ebbe l'onestà intellettuale di apprezzare le reali conquiste sociali del Fascismo e di prendere gradualmente le distanze dall'utopia marxista, fino a guadagnare, nel 1927, l'espulsione dal Partito Comunista. Nel 1943 aderì alla Repubblica Sociale Italiana, fu tra i più entusiasti sostenitori della Socializzazione e il 28 aprile 1945 fu ucciso sul lungolago di Dongo assieme a Pavolini, Mezzasoma, Barracu e altri dodici dirigenti del Fascismo repubblicano, a pochi chilometri dal paese dove, poche ore dopo, sarebbe stato assassinato Benito Mussolini.
Ebbene, Bombacci non aderì al Fascismo perché il Fascismo era diventato «di sinistra», ma perché aveva riconosciuto nel meraviglioso ideale dello Stato popolare, organico e sociale perseguito dalla Rivoluzione Europea l'integrazione e il superamento delle proprie istanze di uomo «di sinistra». Così come avevano fatto tantissimi socialisti dal tempo dell'interventismo in poi.
Così come avrebbero potuto fare i socialisti alla fine della guerra: scegliere di gestire «in eredità» una concreta, avanzata costruzione sociale, invece di ricoprire ruoli minori nelle coalizioni antinazionali del Comitato Nazionale di Liberazione prima e nei Parlamenti «d'occupazione» poi. Ma tant'è, i Bombacci erano morti, da martiri, nelle file della Rivoluzione Europea, e sulla piazza erano rimasti disponibili i Pietro Nenni, con i loro timori e limiti politici ben testimoniati sin dai lontani anni d'inizio secolo, quando Mussolini cominciava a camminare col popolo ed essi preferivano seguire le ombre dei romantici sogni e delle fumose utopie, e i Sandro Pertini, impazienti di mettere all'incasso la cambiale antifascista maturata attraverso anni di livore, di astio politico, di colpevole collaborazione coi nemici del proprio popolo.
Ecco, i Nenni e i Pertini erano rimasti uomini di sinistra, i Bombacci no.
Per l'utilizzo del termine «destra» il discorso si fa ancor più pesante. Quando, infatti, elementi di sinistra si sono inseriti nell'alveo della Rivoluzione Europea, superando il proprio discorso di partenza, quello classista, a conti fatti, ne è quasi sempre uscito un sostanziale arricchimento dei contenuti sociali del movimento, mentre, quando gli «inserimenti» provenivano da destra le cose sono spesso andate molto meno bene. Di «destra» sono stati il 25 luglio, i circoli savoiardi, filomassonici, gli ambienti filoinglesi dell'Esercito e della Marina, gli industriali che vestivano l'orbace e finanziavano l'antifascismo.
Gianfranco Fini, a ben guardare - con le sue attuali posizioni politiche assolutamente estranee sia ai contenuti che agli ideali della Rivoluzione Europea - non è altro che la logica, inevitabile conseguenza dell'immane errore commesso da Michelini, Romualdi e Almirante quando, fondando il Movimento Sociale Italiano, ritennero possibile gestire l'eredità politica della Rivoluzione Europea e al tempo stesso collocare a destra la nuova formazione politica. Di lì a trovarsi a braccetto coi monarchici, a far da guardie bianche dei capitalisti, ad accettare la NATO e sventolare le bandiere stelle-e-strisce, a far le novene di penitenza per meritare un pellegrinaggio in Israele il passo è sempre stato molto breve.
Coerentemente con gli alti ideali e i contenuti della Rivoluzione Europea, riteniamo dunque sconsigliabile l'utilizzazione tanto del termine «destra» quanto di quello di «sinistra». Sempre e solo per l'alternativa nazionale, organica e sociale. Tutta la Rivoluzione Europea si fonda sull'intuizione di ricercare la sintesi di tutti gli elementi presenti nella comunità popolare. Una sintesi che può, anzi deve, comprendere anche quei settori della società e del pensiero originariamente di destra e di sinistra, ma che non può identificarsi con nessuno di questi, senza perdere l'intrinseca validità e la dimensione di alternativa globale. Vediamo ora, in rapido excursus, i valori base coi quali la Rivoluzione Europea si è inserita nella storia del XX secolo e da lì ha lanciato la sua sfida al comunismo e alle demoplutocrazie, sfida che assume sempre più la dimensione di unica alternativa al Mondialismo.
Il Mondialismo, nel suo delirio di onnipotenza, poggia il suo progetto sulla decomposizione dei popoli. Di qui la diffusione, nella cultura, nel costume e nelle strutture della società, del modello multirazziale, l'esasperata esaltazione di ogni devianza, il pervicace perseguire un individualismo assoluto, atomizzato e debilitante. Ma i popoli, quando han dimostrato per millenni sufficiente vitalità, non sono disponibili ad estinguersi facilmente. Per farli sparire, la storia ci ha insegnato che esiste un solo sistema, quello del genocidio. E sopprimere fisicamente tutti i popoli d'Europa ci sembra un'operazione davvero improponibile, anche coi mezzi oggi a disposizione del Mondialismo.

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Nel XX secolo le demoplutocrazie privilegiarono, nella società, la ricchezza e il guadagno, ed il loro governo fu coerentemente affidato a chi era disposto a tutelare in primis gli interessi dei banchieri, della grande industria e delle concentrazioni finanziarie. A scapito di tutti gli altri.
Il comunismo, inversamente, si batteva in nome della classe operaia e si prefiggeva l'annientamento, anche fisico, delle altre classi.

La Rivoluzione Europea, invece, puntava alla costruzione di uno Stato nazionale entro il quale tutte le componenti della comunità popolare avrebbero dovuto trovare cittadinanza e tutela grazie a istituzioni solidali e organiche.
Un insieme di cittadini rappresenta una popolazione. Solo quando essi vivono e agiscono attraverso comuni valori, sono figli dello stesso crogiuolo di tradizioni e di culture, danno vita a una comunità di destino, si può parlare di popolo.
E la Nazione è il momento storico nel quale un popolo riesce a manifestare la propria anima e costruire la propria unità.
Unità non vuol dire uniformità, ma comune destino, ed è per questo che tra le verghe del Fascismo riuscirono a convivere, diversissime fra di loro, ma convergenti, solidali e sinergiche, realtà come la tradizione e il sindacalismo nazionale, la romanità e il futurismo, Giovanni Gentile e la Scuola di Mistica Fascista, Achille Starace ed Ettore Muti.
È come un treno dove viaggiano, intenti nelle proprie diverse attività, operai, intellettuali, dirigenti, militari, artisti. Ognuno ha un ruolo diverso e nulla vieta che possa differenziarsi dagli altri viaggiatori dello stesso treno: ma tutti assieme procedono nella stessa direzione, verso lo stesso luogo. È il comune destino.
Ed è proprio per l'impossibilità di giungere a questa comunità di popolo che nessuna Nazione può scaturire da una popolazione governata da demoplutocrati o da nomenklature sovietiche. Nel primo caso il destino di cui si tiene conto è solo quello degli oligarchi e dei finanzieri; dove va a finire il treno nel quale viaggia il popolo poco interessa, fosse anche un burrone. Nel secondo caso, non essendo riusciti a creare una reale partecipazione delle masse alla gestione del potere, a tutti i livelli, la nomenklatura al governo ha semplicemente fatto scendere tutti dal treno, e il popolo non va da nessuna parte; non ha, né può avere, alcun comune destino. La dirigenza sovietica è divenuta cioè un'oligarchia né più né meno come nella demoplutocrazia. La rivoluzione della classe operaia si cristallizza e si annulla nell'istante della conquista del potere. La partecipazione delle masse popolari nelle fasi successive non c'è. Ciò che ne esce è solo un sistema oligarchico, prigioniero della propria burocrazia, che con la rivoluzione non ha nulla a che vedere. È per questo che, come tutti i poteri cui manca il consenso popolare, il comunismo è stato costretto, alla fin fine, a portare i «libri in tribunale».
La Rivoluzione Europea voleva invece rifondare le Nazioni europee attraverso la consapevolezza del destino dei propri popoli e l'interpretazione della loro anima.
Quella dello spirito nazionale è infatti la prima condizione indispensabile alla realizzazione di qualsivoglia autentico cambiamento politico. Senza sovranità nazionale non può esservi libertà, senza un destino comune non si costruisce un benessere duraturo, senza Patria non può esservi giustizia sociale.

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La democrazia sta all'individualista - al consumista, all'egoista, a colui che ignora il senso di continuità tra chi lo ha preceduto e chi verrà - così come al popolo sta l'eroe. Ciò non significa che quando una comunità diviene popolo tutti, ipso facto, diventano eroi. Significa solo che quando si incontra un eroe, dietro di lui, certamente c'è un popolo.
E a testimoniare che la Rivoluzione Europea abbia prodotto dei popoli, c'è un altissimo numero di eroi. Persone che hanno accettato di morire, serenamente, non perché erano dei fanatici o non avevano nulla da perdere. No, semplicemente perché «chi intende misticamente la Rivoluzione non può non essere preparato a morire per essa, perché vi è un solo modo di essere mistici quando la Patria chiede sangue: offrirlo», come disse Guido Pallotta all'ultimo Congresso di Mistica Fascista, convocato nel febbraio del 1940 da Vito Mussolini e Niccolò Giani a Milano. «Noi sentiamo che la nostra missione è il combattimento, di idee oggi, di baionette domani; noi pensiamo che la vita sia bella soltanto perché possiamo donarla all'Idea; noi riteniamo che senza l'azione eroica, senza la possibilità di cingerci domani la fronte d'un rosso gallone di sacrificio, senza la possibilità di misurare la fede a buon metro d'ardimento la vita sarebbe una ben misera, una ben triste cosa».

E Guido Pallotta, col suo sorriso pieno di gioia di vivere, di lì a breve lasciò i brillanti impegni giornalistici, le prestigiose cariche politiche, gli amici e la famiglia e andò in guerra, in Africa, a incontrare la morte sulle dune di Alam el Nibeiwa, a Sidi el Barrani, nell'estremo tentativo di contrastare l'avanzata dei carri armati britannici. Era il 9 dicembre del 1940 e Pallotta aveva 39 anni. Eroe, tra moltissimi eroi: Teseo Tesei, Niccolò Giani, Berto Ricci, Ettore Muti ed altre migliaia di nomi che esigono enorme rispetto (4).
Dietro gli eroi c'è sempre un popolo. E quando c'è un popolo c'è anche la sua Patria. La Rivoluzione Europea aveva creato dei popoli e li aveva condotti a partecipare alla costruzione della storia. Quando, dopo il 25 luglio, dopo l'8 settembre, tutto appariva perduto, quando le speranze d'invertire il corso degli eventi bellici erano finite, quando tutti erano fiaccati nel fisico e nel morale, per difendere l'onore della Patria quasi un milione di volontari andò a combattere nella Repubblica Sociale Italiana per cercare una «bella morte» capace di riscattare la vergogna del tradimento. Eccome se c'era un popolo; eccome se c'era una Patria.
Quando ci fu l'ultima battaglia, quella per Berlino, l'Armata Rossa scaraventò su quello che era l'estremo baluardo d'Europa, due milioni di uomini, ventimila cannoni e quattromila carri armati.
A difendere Berlino, tra tedeschi, volontari francesi, scandinavi, lettoni, olandesi, belgi, danesi e soldati di ogni altra parte d'Europa, erano 80.000.
L'assoluta determinazione, lo spirito di sacrificio, la rabbia di questi valorosi che, strada per strada, difesero allo spasimo quel che rimaneva della capitale del Reich dopo i bombardamenti terroristici angloamericani, fecero sì che, per riuscire a completare l'occupazione, in quindici giorni di violentissima battaglia, i sovietici lasciassero sul campo centomila uomini.
Eccome se a Berlino, in quei quindici giorni, c'era un popolo; eccome se c'era la Patria europea.

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La proprietà, per i padri fondatori degli Stati Uniti d'America, era il supremo dei valori, quello sul quale si dovevano basare le istituzioni, ispirare le leggi e governare l'economia. La proprietà - senza condizioni e senza limiti - come primo e fondamentale dei diritti. La ricchezza, per quei padri fondatori, era d'altronde il tangibile segno della benevolenza divina, e come tale doveva essere rispettata e tutelata; la ricchezza e, di conseguenza, la proprietà appartenevano cioè alla categoria del sacro.
Per il marxismo la proprietà rappresentava invece il furto di un bene pubblico. Andava eliminata. Tutto doveva essere dello Stato, perché lo Stato era l'istituzione della classe operaia, e solo allo Stato poteva appartenere il diritto di amministrare e governare ogni forma di proprietà e di ricchezza. In nome della classe operaia. Ma non avevano capito che senza proprietà manca l'incentivo per produrre ricchezza e, quindi, alla fine, non c'è nulla da spartire.
Per la Rivoluzione Europea il diritto alla proprietà è strettamente legato al valore della libertà e, nel campo della produzione, l'iniziativa privata è ritenuta lo strumento più efficace e più utile nell'interesse della Nazione.
«La proprietà privata, frutto del lavoro e del risparmio individuale, integrazione della personalità umana, è garantita dallo Stato. Essa non deve però diventare disintegratrice della personalità fisica e morale di altri uomini, attraverso lo sfruttamento del lavoro» (5).
Pieno diritto alla proprietà privata dunque, che va anzi difesa e tutelata (6), ma con tutti i limiti che derivano dal dovere di privilegiare sempre, e innanzi tutto, l'interesse della Nazione, cioè del popolo inteso come comunità di individui legati tra loro da un senso d'appartenenza ad un'unica anima e ad un comune destino.
Per la Rivoluzione Europea, la proprietà, oltre ad essere espressione di un diritto, è anche portatrice di importanti e vincolanti doveri. Se una costruzione, o un'industria porta beneficio e ricchezza a un individuo o a un gruppo di individui, ma è nociva per la comunità perché inquina, o provoca rischi geologici, o quant'altro, deve essere proibita dallo Stato.
Per la Rivoluzione Europea vi era inoltre un altro limite per la ricchezza e la proprietà: oltre una certa soglia la ricchezza non può più servire al benessere dell'individuo o della sua famiglia, ma diviene mero strumento di potere. E il potere, sia quello economico che quello politico - giacché sono saldamente legati l'uno all'altro - può essere solo del popolo e quindi deve essere gestito dallo Stato, nell'interesse della Nazione (7). Per capirci: la Rivoluzione Europea favorisce e tutela gli artigiani, la piccola e media industria, i coltivatori diretti, le piccole e medie aziende agricole e le realtà commerciali locali; non concepisce, e combatte, le grandi industrie di interesse strategico nazionale in mano a privati, il latifondo e le concentrazioni della distribuzione.
Non deve indurre in errore la considerazione che, ad esempio, una Fiat di proprietà della famiglia Agnelli sia passata indenne attraverso il Ventennio fascista. Se si vogliono effettivamente comprendere i reali contenuti della Rivoluzione Europea si deve smettere di identificarla, sic et sempliciter, con il Ventennio fascista o con altre realizzazioni istituzionali sorte in Europa tra gli anni Venti e i Quaranta. Il Ventennio fu solo - è opportuno ribadirlo - l'inizio di attuazione di un ampio percorso rivoluzionario, peraltro viziato da gravi e sciagurati compromessi con forze che non avevano nulla a che fare con la Rivoluzione Europea, e che anzi spesso le si schieravano contro: una casa reale filoinglese e filomassonica, ambienti clericali invidiosi del vasto consenso popolare ottenuto dal Fascismo, poteri conservatori dell'industria e della finanza che si muovevano all'ombra di movimenti pseudo-patriottici.
Ciononostante, lo storico onesto può rintracciare in quel regime, a dispetto del contraddittorio scenario d'insieme, testimonianze concrete, efficaci, lungimiranti e durature.
Delle leggi, delle riforme e delle istituzioni parleremo più avanti, quando ci soffermeremo sullo Stato Sociale, ora ci limiteremo a un accenno alle cose concrete, tangibili ed ancor oggi verificabili, realizzate in quel periodo.
Lo scrittore comunista Antonio Pennacchi, incaricato dalla rivista LiMes (Gruppo editoriale l'Espresso) di scrivere alcuni pezzi sulle «città di Mussolini» e sulle bonifiche delle pianure del centro-sud, confessa candidamente di essersi imbattuto in una realtà della cui esistenza, e della cui mole, non avrebbe mai sospettato.
Scrive Pennacchi col suo caratteristico stile: «Un pezzo ha tirato l'altro, e una città altre dieci. Ho dovuto studiare, documentarmi. E più mi documentavo più m'accorgevo che gli altri - gli storici di professione, ivi compresi, anzi soprattutto, quelli dell'urbanistica e dell'architettura - erano tutti più cazzari di me. "Ah fresca", ho detto a un certo punto, "qua s'è ribaltato il mondo" e m'è toccato cambiare registro: la storia vera la stavo a fare io, quelli fino adesso avevano raccontato Cappuccetto rosso. Ma a te ti pare che uno storico di professione continua a dire per quarant'anni che il Duce ha fatto 12 città e non s'accorge che invece ne ha fatte 130? [...] Erano almeno sette od ottocento anni che la gente s'era ritirata tutta sopra i monti; prima per la difesa dalle invasioni, poi per i latifondi e la malaria. La pianura italiana era un deserto, "un deserto paludoso-malarico" dicono i geografi. E quelli - tra gli anni Venti e i Quaranta - sono andati a riconquistarlo. 130 nuove fondazioni. Hanno ripopolato la pianura».
«Per ragionare di storia - continua Pennacchi - lo si deve fare in maniera corretta, non si possono raccontare le puttanate. Anzi, a dire il vero, io il mio giudizio l'ho rivisto. E più di qualche volta. Man mano che facevo il viaggio. Andavo in una città, scavavo e ne trovavo altre dieci. Come fai a non rivedere i giudizi? (a un certo punto mi sono pure stufato: "Qua non si finisce più", ho detto a mia moglie, e mi sono fermato a 130. Ma se continui a scavare sai quante ancora ne trovi? È l'ira di Dio. Quello era matto. Aveva il mal della pietra» (8).

Nei sessant'anni che seguirono, dalla fine della guerra ad oggi, di nuove città non se ne son viste. Al loro posto si sono costruite decine di migliaia di chilometri di autostrade, tutte dedicate a favorire gli interessi dell'industria automobilistica.
In compenso, le città esistenti si sono gonfiate allo spasimo, in modo scomposto, disorganico e caotico. Ottimi affari per gli speculatori di ogni tipo. Nessun occhio all'interesse del popolo. D'altronde, in questi sessant'anni, lui, il popolo, nella cittadella del potere proprio non c'è stato.

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Sia per il comunismo che per il liberal-capitalismo, il lavoro non è altro che uno dei fattori della produzione. Oggi, nell'epoca del capitalismo selvaggio e mafioso del postcomunismo e del capitalismo finanziario della globalizzazione e del Mondialismo, il lavoro è solo il mezzo necessario per procurarsi quel denaro indispensabile a svolgere l'unico ruolo attualmente riconosciuto all'uomo: quello del consumatore. Da fattore della produzione, quindi, a ingranaggio del dominio finanziario.
Per la Rivoluzione Europea il lavoro, invece, «sotto tutte le sue forme organizzative ed esecutive, intellettuali, tecniche, manuali è un dovere sociale. A questo titolo, e solo a questo titolo, è tutelato dallo Stato» (9).
Il lavoro è lo strumento della collaborazione, concreta e fattiva, alla costruzione civile; è il primo atto di partecipazione dell'individuo alla comunità popolare.
Il guadagno ottenuto a seguito del proprio impegno lavorativo è, quindi, la conseguenza del dovere ottemperato, e non il fine. Il popolo, con il proprio lavoro, costruisce la civiltà nazionale. Lo Stato si prende cura dell'individuo non già per quello che costui ha o per quello che ha fatto, ma per la sua appartenenza al popolo.
Sulla base di questo principio la Rivoluzione Europea crea lo Stato Sociale e, dove raggiunge il potere o riesce a condizionare i governi, lo traduce in leggi, provvedimenti, istituzioni.
Son cose talmente entrate nel nostro patrimonio culturale e civile da farci sembrare incredibile che solo ottant'anni fa non esistesse altro che quella clientelare, interessata forma di assistenzialismo che per secoli è stata una specialità e uno strumento di potere delle congregazioni religiose. Non c'erano pensione e assicurazione obbligatoria per invalidità e vecchiaia, tutela del lavoro femminile e dell'infanzia, libretto di lavoro e settimana lavorativa di 40 ore, ferie retribuite, assegni familiari, assistenza ospedaliera per tutti, poveri compresi, cassa integrazione e sussidio di disoccupazione.
È bene ricordarlo: son tutte cose ottenute dalla Rivoluzione Europea e, in Italia, realizzate dal Fascismo, e sopravvissute per decenni nelle leggi e nelle istituzioni, sino ad oggi.
Complici il sinistro governo D'Alema e il servile governo Berlusconi - con il solo sgangherato freno della Lega - l'incombente americanizzazione ha cominciato infatti a smantellare, in primo luogo, lo Stato Sociale.
Già, perché in America lo Stato Sociale nessuno lo ha mai costruito. E nemmeno immaginato. Lì i poveri muoiono per strada; se non hai la carta di credito in ospedale non c'entri. I poveri non godono della «benevolenza divina». Se vuoi conoscere i super-poveri devi andare lì, nelle città dei super-ricchi.
America. Terra di calvinisti, puritani, quaccheri e venditori di schiavi. Terra di ebrei e usurai. E vorrebbero farci diventare tutti americani!
In Europa per millenni s'è vissuto tra grande storia e civiltà. La Rivoluzione Europea ha fatto solo i primi passi e probabilmente dobbiamo ancora viverne tutto lo svolgimento.
In ogni angolo d'Europa si trovano pietre e leggi segnate dalla grandezza di Roma e degli imperi che seguirono. E profumo di popoli che han versato copioso il proprio sangue per una fede, la terra, l'onore, l'ideale.
Americani? Proprio no!

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Lo Stato Sociale è dunque uno degli strumenti utilizzati dalla Rivoluzione Europea per realizzare lo Stato del popolo. Un mezzo, non il fine. Il fine rimane sempre la costruzione dell'unità nazionale e la partecipazione del popolo a tutti i livelli della vita sociale. Mezzo, come lo fu il Corporativismo: il ruolo di giudice assunto dallo Stato per comporre i contrasti tra datori di lavoro e prestatori d'opera e dare unitarietà ai processi produttivi nel superiore interesse della Nazione.
Mezzo, come doveva esserlo la Socializzazione, ideata e proposta sin dal 1919, dalla fondazione dei Fasci di Combattimento, ma codificata in legge solo durante la Repubblica Sociale Italiana, per elevare e allargare la partecipazione dei lavoratori alla gestione e agli utili dell'impresa e contrastare il potere del grande capitale in modo più efficace di ciò che era riuscito a fare il Corporativismo.
Mezzo, come lo sarebbero state sicuramente numerose altre istituzioni, leggi e soluzioni sociali, economiche e politiche che la Rivoluzione Europea avrebbe creato se la sua opera rivoluzionaria non fosse stata bloccata dall'invasione e dalla conseguente colonizzazione politica e culturale delle nostre popolazioni.
Come per tutti gli strumenti, se non sono utilizzati da mano sapiente e pratica, di per sé, non sono in grado di garantire alcun risultato. La mano che deve gestire ogni istituzione sociale deve essere quella di un potere politico effettivamente nazionale e popolare. In tempi di democrazia corrotta e condizionata, persino un sacrosanto istituto sociale come la «cassa integrazione» si è riusciti a farlo funzionare per favorire l'arricchimento del grande capitale ai danni delle casse previdenziali dei lavoratori.
È facile immaginare quale tipo di risultato si otterrebbe attuando la Socializzazione delle imprese in presenza di lavoratori inquadrati in sindacati asserviti all'odierna partitocrazia; o con la proprietà azionaria in mano alle finanziarie multinazionali.
La grande proposta della Rivoluzione Europea è stato il trinomio libertànazione-socialismo che ha rappresentato il perno di tutto il suo messaggio politico e della sua costruzione istituzionale.
Libertà, che vuol dire indipendenza, sovranità nazionale, autosufficienza alimentare, economica e produttiva. Perché nessun uomo può essere libero se non è indipendente il suo popolo e sovrano il suo Stato.
Nazione, perché il popolo deve acquisire coscienza di sé, delle proprie tradizioni e del proprio destino. E deve partecipare attivamente agli eventi della propria storia. E con la Rivoluzione Europea che le masse entrano nel mondo della politica. È con la Rivoluzione Europea che lo Stato diventa strumento del popolo. Socialismo, perché il cordone che lega popolo, Nazione e Stato ha bisogno di leggi, istituzioni, costruzioni pubbliche capaci di rinnovarsi e garantire sempre la partecipazione del popolo in tutti i suoi aspetti e in ogni momento della sua vita, difendendolo dalle risorgenze di ogni cristallizzazione di potere e di ogni ingerenza di interessi economici e politici esterni.
Socialismo, perché l'uomo deve essere tutelato e assistito, non perché è influente o perché appartiene al partito che detiene il potere, ma perché fa parte della comunità popolare. Socialismo perché, soprattutto dopo la Rivoluzione industriale, esiste una «cartina di tornasole» per valutare la legittimità di un potere politico: il perseguimento della giustizia sociale.
Libertà-nazione-socialismo. Un trinomio inscindibile. L'assenza di uno di questi tre elementi invalida automaticamente l'efficacia degli altri due.
Una nazione sociale senza indipendenza e sovranità nazionale è un non senso, perché dovrà sempre subordinare le proprie scelte alle pressioni, agli interessi e alle decisioni che provengono dall'esterno.
Una nazione libera e indipendente, ma incapace di darsi un ordinamento organico e sociale, di garantire la partecipazione popolare e di tutelare gli interessi di tutti i cittadini, è destinata ad esaurirsi in breve tempo e a lacerare i rapporti tra le categorie che compongono il popolo.

Un socialismo, sia pure in uno Stato formalmente indipendente, ma con una popolazione disunita, multietnica e multiculturale è preda di qualsiasi forza condizionante, soprattutto di tipo economico e finanziario.

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La Socializzazione, nello specifico, si presentò come rivoluzionaria ristrutturazione della grande industria.
Il decreto legge, emanato il 13 gennaio del 1944 dal governo della Repubblica Sociale Italiana, prevedeva la Socializzazione di tutte le aziende con un capitale versato maggiore di un milione di lire - ben più di un miliardo di oggi - e con più' di cento dipendenti. Alla gestione erano chiamati, oltre ai rappresentanti degli azionisti o i proprietari, in misura paritetica, i rappresentanti di impiegati, tecnici e operai. La rendita del capitale era calcolata su coefficienti stabiliti, anno per anno, dal «Comitato ministeriale per la tutela del risparmio e l'esercizio del credito» e una quota degli utili doveva essere distribuita tra i dipendenti per un importo che non poteva superare il 30% della retribuzione netta corrisposta. La parte di utili restante doveva essere versata in una «Cassa di compensazione» destinata a scopi di natura sociale e produttiva.
L'intuizione socializzatrice, oltre a elevare il dipendente al ruolo di cogestore dell'azienda, colloca il lavoratore nella posizione di responsabilità diretta ed attiva del proprio apporto operativo; una dimensione sempre rigettata dal capitalismo, ma altrettanto latitante anche negli esperimenti comunisti.
Oggi questa legge, giungendo ad una possibile fase operativa, per garantire tutte le proprie funzionalità necessarie a realizzare concretamente i suoi principi ispiratori - quello della partecipazione e quello della responsabilità - dovrebbe essere ovviamente riscritta. Innanzitutto perché non è ipotizzabile, dopo sessant'anni, l'integrale riproposizione di una legge, per quanto rivoluzionaria e avveniristica essa sia stata, soprattutto se questa si riferisce all'àmbito mutevole dell'economia e della socialità. Poi perché da allora c'è stato un cambiamento sostanziale sul piano del capitalismo. La socializzazione è stata una legge ideata per regolarlo. I cambiamenti del capitalismo impongono quindi alla Socializzazione, per mantenere il suo valore di alternativa e la sua credibilità, un adeguato aggiornamento tecnico.
Il capitalismo, in sessant'anni, da imprenditoriale «classico» individuale o familiare, si è trasformato in capitalismo finanziario e in questa sua nuova veste si è dimostrato ancor più potente, quindi pericoloso e incontrollabile.
All'antico «padrone», alle famiglie dinasticamente proprietarie delle grandi industrie, si sono sostituite le banche, le finanziarie, le concentrazioni di capitali internazionali.
Alla tradizionale figura del «capitano d'azienda», proprietario, imprenditore, dirigente e amministratore contemporaneamente, a gestire le aziende sono subentrati i «manager», spersonalizzati, disponibili ad ogni condizionamento e soprattutto sempre intercambiabili.
Dunque, prima di socializzare le aziende sarà opportuno che le leggi si occupino dei capitali; cioè di quale e quanta circolazione può essere consentita al capitale multinazionale, di quanta forza può essere concessa ai patrimoni privati e alle concentrazioni finanziarie.
La legge sulla socializzazione dovrà essere riscritta con molta attenzione e dovranno essere tenuti presenti anche tutti i cambiamenti subiti dai processi di produzione e infine, per essere efficace, dovrà essere applicata quando l'evolversi della situazione avrà consentito alla politica un effettivo controllo dell'economia e dei suoi strumenti.
Sessant'anni di superpotere planetario in mano alle forze del dio-denaro hanno compiuto sfaceli tali che sarebbe un fatale errore sottovalutarne la portata. L'attuale dittatura del capitalismo finanziario ha raggiunto un livello di controllo economico e politico che mai prima era riuscito a nessun altro potere. Chi vuole veramente raggiungere effettivi risultati socializzanti deve aver chiaro che i primi obiettivi da individuare e neutralizzare dovranno essere i gangli del potere finanziario.

In Iraq, subito dopo l'ingresso dei carri armati americani a Bagdad, sono arrivati aerei carichi di casse di dollari. Prima di tutto si è voluta la dollarizzazione della regione. Prima degli ospedali, delle strade, delle case, degli acquedotti e delle centrali elettriche, si è pensato alle banche.
Socializzare un'azienda consentendo che la proprietà del pacchetto azionario (cioè, di fatto, il 50% del potere dell'azienda) rimanga nelle mani di centrali finanziarie riconducibili al mondialismo, vorrebbe dire aver inficiato tutta l'azione rivoluzionaria e aver realizzato solo un'operazione di facciata, una sceneggiata destinata a non lasciare grandi tracce sia nel sociale che nell'economico e nel politico.
Ma la Socializzazione, oltre al contenuto specificatamente tecnico di una ristrutturazione industriale atta a bloccare il potere del capitale e coinvolgere i lavoratori nella gestione tecnica e nella ripartizione degli utili, voleva essere, è stata ed è ancor oggi molto di più: una potentissima sfida ideale, politica e sociale. Un'idea-forza capace di sintetizzare il più alto significato evocato dalla Rivoluzione Europea.
L'immagine del lavoratore che partecipa attivamente, in tutti i sensi, alla vita dell'azienda può proiettarsi nell'immaginario collettivo ad indicare il cittadino che partecipa veramente alla vita politica, il popolo che partecipa alla sua storia. Il popolo, valore supremo, autocosciente, libero, organica sintesi di tutti i differenti apporti individuali, virile forgiatore delle proprie specificità, difensore della propria terra, creatore del proprio destino, orgoglioso detentore della propria anima.
Siamo al concetto di Patria, oggi così obsoleto, bistrattato e frainteso, che si staglia in opposizione e alternativa alla società odierna. Una società, appunto, senza anima, accozzaglia di individui esposti ad ogni forma di condizionamento, economico, culturale, politico; preda indifesa di ogni usuraio; carne da macello per ogni schiavista; ignaro e impotente ingranaggio di un sistema che tutto e tutti sfrutta e controlla. Una popolazione che, dietro la sbandierata facciata di società multirazziale, multiculturale e multiconfessionale, nasconde la squallida immagine di una massa senza radici, senza cultura, né ideali, né sogni. Senza anima e senza destino. Senza Patria.

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In questi mesi i discorsi sulle ventilate riforme costituzionali e sul prossimo varo della Costituzione europea inducono l'attento osservatore a leggerne progetti e bozze. Una lettura che evidenzia una tale desolazione politica, istituzionale ed ideologica, da provocare sconcerto e incredulità.
Non un'idea nuova, non un contenuto all'altezza di millenni di civiltà, non un solo tentativo di differenziare ciò che si vuole preparare per i nostri popoli dalla tragica omologazione mondialista che continua a diffondersi strisciante e distruttiva.
È per questo che abbiamo voluto pubblicare, qui di seguito, un'«Appendice storica» contenente i documenti che hanno contrassegnato l'esperienza della Rivoluzione Europea in Italia nel XX secolo. Riteniamo infatti che questa lettura possa offrire ai lettori, nell'attuale assenza di idee e di valori, preziose riflessioni: avere ben chiara la concezione del mondo espressa nel passato per prepararci a formulare e diffondere i nuovi documenti, quelli che nel XXI secolo contraddistingueranno la riconquista della sovranità europea e la costruzione dell'alternativa al potere mondialista.
È giusto che si abbia la serena consapevolezza di come quella iniziata ottant'anni fa fosse la rivoluzione giusta, perché più funzionale alle concrete esigenze dei nostri popoli.
Non si deve cedere a complessi di inferiorità per sessant'anni di criminalizzazioni, per tante battaglie perdute, perché restar isolati per un'intera vita può essere molto duro da sopportare.
Oggi in Europa i rivoluzionari siamo noi, solo noi. E questa è già una gran bella vittoria.
Ma si tratta di portare avanti il discorso dell'alternativa, della sovranità nazionale, delle conquiste sociali, nel popolo e tra i giovani. Perché l'elemento di partenza dovrà essere - lo ribadiamo ancora una volta - quello del popolo che prende coscienza di sé e rifonda la propria Nazione, e perché non è concepibile un qualsiasi cambiamento quando a sventolarne le insegne non siano le nuove generazioni.

È solo così che la Rivoluzione potrà diventare guerra di liberazione e di indipendenza; e poi costruzione di civiltà e di giustizia sociale.
Rivoluzione Europea!

NOTE
1 Procedendo in ordine alfabetico, e limitandoci ad elencare solo le realtà più significative: in Austria la Vaterländische Front, il Landbund e le Heimwehren; in Belgio la Legione Nazionale Belga, il movimento Dinasos e il Vlaamsche Nationale Verbond; in Bulgaria il Nazionalna Zadruga Fascista, il Partito Zveno, la Rodna Saschtita, il Partito Nazional-socialista Bulgaro del Lavoro e il Movimento Socia!-nazionale; in Cecoslovacchia il movimento sorto attorno al settimanale fascista ceco Narodni Sjednoceni, il Partito Popolare Slovacco, le Guardie di Hlinka e il Partito Slovacco di Unità Nazionale; in Danimarca la Schleswigske Kameradeschaft, il Nyt Seind e il Hjemmevaernet; in Estonia il Partito Fascista Estone; in Finlandia il Movimento Lappista Fascista; in Francia i Fasci Francesi di Georges Valois, la Jeunesses Patriotes, il Nuovo Fronte, il Françisme, le Croci di Fuoco, I'Union Populaire Républicaine, il Parti Populaire Français, il Rassemblement National Populaire; in Grecia l'Organossis Etuiki Kiriarchu Kratus, l'Alleanza Nazionale Greca, la Sidera Irini e i Philiki Eteria Ellinon; in Inghilterra la British Union of Fascists, la Imperial Fascist League ed i British Fascists; in Irlanda l'Associazione delle Camicie Azzurre e il Partito Irlanda Unita; in Islanda il Partito Fascista Islandese; in Jugoslavia gli Ustascia e lo Zbor; in Lettonia i Perkonkrusts e le Croci di Tuono; in Lituania il Partito Nazionalista Lituano e i Lupi d'Acciaio; in Lussemburgo la Volksdeutsche Bewegung; in Norvegia il Norske Nasjonal Socialistike Arbeiderparti, la National Unie e l'Associazione dei Giovani Fascisti; in Olanda il Nationaal Socialistische Beweging, Nederlandse Unie e il Gruppo Nazionalsocialista Mussert; in Polonia il Movimento Radicale di Rinnovamento; in Portogallo l'Associazione delle Camicie Azzurre e l'Associacão Escolar Vanguardia ed altri movimenti promossi dall'allora Capo del Governo De Oliveira Salazar; in Romania il Movimento delle Guardie di Ferro; in Spagna la Falange Española e la Giunta di offensiva Nazional-sindacalista; in Svezia il Partito Nazional Socialista Svedese e l'Associazione della Giovinezza Nazionale; in Svizzera il Der Schweizer Fascist e i Fasci della Svizzera Italiana; in Ungheria il Movimento Socialnazionalista Ungherese e le Croci Frecciate.
2 Procedendo, anche qui, in ordine alfabetico: in Argentina il Partito Fascista Argentino e poi il più noto
Partito Giustizialista di Peron; in Australia la New Guard; in Brasile l'Accão Social Brasileira e l'Accão Integralista Brasileira; in Canada il Partito Fascista e il Parti de l'Unité Nationale du Canada; in Cile il Partito Fascista Cileno; in Giappone il Nippon Kokka Shakai-to, il Kokuhou-Sha e il Nichou Nomin Kumnai; in India il Blocco del Progresso di Subhas Chandra Bose e l'Organizzazione al servizio della Nazione; nell'Islam il Partito Popolare Siriano, la Falange Libanese, la Nazione Araba del Gran Mufì di Gerusalemme, il Partito Nazional-socialista Arabo egiziano, e i Liberi Ufficiali di Nasser; a Panama la Union de Defensa Nacional; in Perù il Partito Fascista; in URSS il Russki Fascism e il Partito Fascista Panrusso.
3 È il caso di ricordare che, invece, in Unione Sovietica lo sviluppo avvenne senza il minimo riguardo per l'ambiente al punto che la Russia di oggi è il paese più inquinato del mondo.
4 Pregevole, sull'argomento, l'ultima opera di Luigi Emilio Longo, I vincitori della guerra perduta, Edizioni
Settimo Sigillo, 2003.
5 Punto 10 del Manifesto di Verona.
6 È significativo a questo proposito l'impegno dimostrato particolarmente dalla Falange spagnola in difesa della proprietà dai pericoli derivanti dagli abusi del potere finanziario.
7 È circolato con insistenza, negli ambienti della Scuola di Mistica Fascista, il progetto di una legge in grado di individuare i meccanismi di calcolo per stabilire il confine tra patrimonio privato e potere pubblico e garantirne il rispetto. Quelli erano tempi poco «democratici», ma nei quali si poteva tranquillamente parlare contro la grande industria, contro la grande finanza, e persino contro i «cumulisti» - come li chiamava Guido Pallotta - coloro i quali cioè accumulavano cariche pubbliche per aumentare a dismisura i propri guadagni.
8 Antonio Pennacchi, Viaggio per le città del Duce, Asefi, 2003.
9 Punto 2 della Carta del Lavoro.

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