lunedì 23 gennaio 2012

Il fascio littorio nell’Antica Roma



Pubblichiamo la prima parte di uno studio di Arturo Reghini sul fascio littorio.
Nonostante Reghini non rappresenti uno dei nostri punti di riferimento e nonostante alcune posizioni da cui dissentiamo rispetto al presente articolo (es. esistenza di una molteplicità di differenze tra Roma e gli etruschi; provenienza non etrusca del principio dell’imperium e del fascio littorio a Roma; etc.) riteniamo vi siano all’interno degli spunti di riflessione comunque interessanti.

di Arturo Reghini

«Nel linguaggio del diritto pubblico romano, dice il Dizionario Epigrafico di Antichità Romane di Ettore De Roggiero (1922, pag. 37), fasces sono quei mazzi o fastelli composti di una scure (securis) e di più vimini o bacchette (virgae) legati insieme da una correggia, secondo la notizia di Lydus (De Mag. I, 32) di color rosso, e che servivano come insegna propria soprattutto dei magistrati superiori». II nome fasces, il cui significato originale etimologico appare ancora nell’italiano fascio e fascina, sta ad indicare il carattere fondamentale di questo simbolo, ossia il legame e l’unione delle varie verghe del fascio in una unità cui compete l’imperio della giustizia rappresentato dalle verghe. I Romani usavano la parola fasces al plurale, i fasci, perché in generale i littori, che portavano i fasci e precedevano i magistrati cui spettava tale diritto, erano in numero variabile, ma, tranne pochissimi casi, erano sempre più di uno. Così i littori che precedono i consoli sono in numero di dodici (1); e questo numero di dodici littori divenne addirittura il segno della dignità consolare (2). Il dittatore, almeno al tempo di Silla, ne aveva ventiquattro (3), il decemviro del giorno ne aveva dodici, e dodici ne ebbero gli imperatori romani sino a Domiziano che ne ebbe ventiquattro. Altri magistrati ne ebbero in numero minore, come ad esempio il magister equitum che ne aveva sei; ma gli esempii addotti fanno vedere che nel caso fondamentale dei consoli e degli imperatori il numero dei fasci era dodici, e gli altri casi danno per numero dei littori multipli o sottomultipli del numero dodici. È questa una prima importante e sicura constatazione.
Primitivamente, al dire di Plauto (4), i fasci erano fatti con dei polloni di olmo; ma in tempi posteriori Plinio ci apprende (5) che erano fatti di betulla. Quanto alla origine dei fasci littorii romani la tradizione afferma concorde e chiaramente che si tratta di una derivazione dagli Etruschi. I varii autori dissentono soltanto circa il momento in cui tale derivazione si effettuò; vi è chi la attribuisce a Romolo (6), chi a Tullo Ostilio, od a Tarquinio Prisco (7). Tito Livio (8) dice che Romolo assunse i dodici littori; ed aggiunge che sebbene taluni pensino che Romolo determinò il loro numero in dodici dal numero degli uccelli che gli avevano presagito il regno: «Io condivido il parere di coloro cui piace trarre e gli apparitori e simil genere di cose dagli Etruschi finitimi, da cui la sedia curale e la toga pretesta è tratta, ed anche questo stesso numero; e così avere avuto (dodici littori) gli Etruschi perché, creato un unico comune re dai dodici popoli, i singoli popoli dettero i singoli littori». Altri scrittori che fanno dei fasci romani una importazione etrusca sono Dionisio di Alicarnasso, Strabone, Macrobio, Silio Italico, Diodoro Siculo e L. Anneo Floro. Quest’ultimo afferma nettamente (9) (che i Romani derivarono dagli Etruschi “i fasci littorii”, le toghe di apparato (trabeae curules) eccetera, infine tutte le decorazioni e le insegne da cui risplende la dignità del comando.
L’insigne etruscologo Pericle Ducati scrive a questo proposito (10): «Si deve accentuare la origine etrusca del simbolo più celebre della giustizia presso i Romani, il fascio littorio. Riferisce Silio Italico nel Canto VII, V. 485 e seg. delle Puniche: “Vetulonia fu un tempo decoro della gente Meonia (cioè della Lidia): fu la prima città a far precedere dodici fasci ed a congiungere ad essi, con silenzioso terrore altrettante scuri”. È cosa curiosa che appunto una tomba vetuloniese del sec. VII a. c.; la così detta tomba del Littore, ha dato alla luce (nel 1897) i residui di un esemplare pregevolissimo di fascio littorio costituito da verghe di ferro, da cui emerge una scure a doppio taglio o bipenne (Firenze, R. Museo Archeologico), che rivela appunto nella sua forma la persistenza in pieno secolo VII del tipo di doppia scure, a noi noto da documentazioni della vetusta civiltà preellenica o cretese-micenea. La indagine archeologica verrebbe così a dare nuovo appoggio alla notizia di Silio Italico; in ogni modo questa notizia e questo rinvenimento archeologico costituiscono una chiarissima prova della origine etrusca del fascio littorio romano. Ed etrusco è anche il numero dei littori: i dodici littori che stavano al seguito del re prima, poi dei due consoli, ci fanno ricordare la dodecapoli etrusca. Dodici dovevano essere i littori in ciascuna città e tale numero aveva per base la divisione in tre parti della cittadinanza…». Il Ducati poche pagine più innanzi (pag. 142), considerando i nomi di origine etrusca delle tre tribù primitive di Roma, suppone che i Romani abbiano preso dagli Etruschi non i soli nomi ma la stessa ripartizione, e suppone che una analoga ripartizione in tre tribù fosse in ogni singola città etrusca; e fa vedere che a questa ripartizione corrisponde la triplice porta che doveva esistere nella città etrusca, il triplice tempio a Giove, Giunone e Minerva del commento di Servio all’Eneide (11); tutto questo basato sopra il numero tre che è un summultiplo di dodici.
Il Ducati ricorda in proposito (12) una notizia di Servio nel Commento all’Eneide (X, 202), secondo cui «a Mantova, città che mantenne caratteri etruschi sino ai tempi di Plinio (Storia Natur. III, 23, 130), si aveva la divisione della cittadinanza in tre tribù, ciascuna delle quali comprendeva quattro curie che avevano ciascuna a capo un lucumone. Da ciò il numero di dodici littori che sopra abbiamo attribuito ad ogni città etrusca e che riappare come elemento etrusco in Roma. Nella notizia preziosa di Servio è un indizio sugli attributi dei lucumoni che, come i curioni delle curie di Roma, assumevano in sé poteri di sacerdoti, di capitani, di magistrati». Il Ducati ha senza dubbio ragione di porre in evidenza la relazione tra il numero dei dodici littori della città etrusca ed il numero delle quattro curie in cui era divisa ognuna delle tre tribù; tanto più in quanto Servio nel passo citato (X, 202) dice che «in queste singole curie i singoli lucumoni im- peravano, i quali in tutta la Tuscia (Etruria) è manifesto erano dodici, dei quali dodici uno presiedeva a tutti». Ma che questa sia la causa o la ragione della determinazione in dodici del numero dei littori ci sembra assai meno provato. Il numero dodici in Roma ed in Etruria ed in generale dovunque, compare con tanta insistenza e frequenza e con carattere talmente sacro e tradizionale che si impone la determinazione di una ragione più profonda e di natura meno contingente anche per spiegare la sua presenza nei fasci littorii. È appunto quanto ci proponiamo di fare. Aggiungiamo che non soltanto erano dodici i littori, ma ben anche, quasi certamente, dodici erano le verghe costituenti ogni fascio.
Gli autori antichi non specificano quale fosse il loro numero, e nulla dicono in proposito le più importanti opere dedicate all’antichità classica, come la Pauly’s R. Encyclopaedia (VI, 2002), il già citato Dizionario Epigrafico del De Roggiero, il Dictionnaire des Antiquités Grecques et Romaines; il Dictionary of Greek and Roman Antiquities eccetera; ma la derivazione dei fasci romani da quelli etruschi rende verosimile che le verghe riunite e fasciate insieme debbano essere state dodici, sia nel caso che ogni verga come ogni littore corrispondesse ad una delle città federate secondo l’interpretazione di Livio, sia nel caso che il numero dodici corrispondesse alle dodici curie delle tre tribù. Questa nostra induzione ed opinione è del resto confermata dalle rappresentazioni antiche dei fasci; per esempio il fascio originale romano del bassorilievo esistente al Museo Capitolino presenta all’osservatore precisamente sei verghe, le altre sei essendo naturalmente situate dall’altra parte rispetto all’osservatore e quindi non raffigurate nel bassorilievo. Il fascio della tomba del littore di Vetulonia è stato restaurato, ed il numero delle verghe che lo compongono è incerto, quantunque pare che debbano esser dodici. Le verghe del fascio romano erano dunque ben dodici e non a caso.

I fasci erano simbolo dell’imperium (13); ed, oltreché simbolo, erano addirittura strumento della giurisdizione capitale, del jus vitae necisque, attributo ed elemento caratteristico dell’imperio. Per questa ragione erano formati di verghe cui era unita una scure, essendo le verghe e la scure gli strumenti per la esecuzione delle condanne.

Giovanni Battista Vico, però, ha veduto (14) nei fasci romani qualche cosa di più. Secondo il Vico i fasci romani sono i litui dei Padri nello stato della famiglia: «… con tali litui, presi gli auspicii, che lo comandassero, i padri dettavano le pene dei loro figliuoli». Se questa visione del Vico fosse esatta il fascio assumerebbe senz’altro carattere magico e religioso. Il lituus, difatti, il bastone augurale, che serviva (non essendo lecito farlo con le mani) all’augure etrusco per determinare il templum nello spazio celeste in corrispondenza a quello terrestre, e di cui Romolo fece uso durante le cerimonie per la fondazione di Roma, aveva carattere eminentemente magico.

L’affermazione del Vico trova un appoggio in Servio, il quale dice (15) che il bastone regio, in cui era la potestà di dirimere le liti, si chiamava anche esso lituus. Dato, come abbiamo già rilevato, il carattere triplice del lucumone etrusco, ossia il carattere di sacerdote, di magistrato, di re o capitano, non è in vero strano che il bastone del re sia stato ad un tempo lo scettro regale, il bastone della giustizia, ed il lituo o verga magica.

Ad ogni modo, anche se le verghe dei fasci non vanno connesse con i litui dei lucumoni e con quelli degli auguri, e se non si può servirsi di questo particolare per riconoscere il carattere sacro e tradizionale del fascio, occorre sempre indagare quale era il significato ed il riferimento del numero dodici così spesso ed in varii modi ricorrente a proposito dei fasci. Lo studio dei fasci littorii ci riporta quindi all’analisi di una questione ben altrimenti ardua e vasta, quella della funzione, della importanza e della origine del numero dodici nella religione, nella magia e nella civiltà dei popoli antichi. È quanto intendiamo indagare; ma, naturalmente, ci limiteremo ad una rapida analisi, con il solo intento di mettere in luce il valore occulto e tradizionale del glorioso simbolo del fascio littorio.

Il Dictionnaire des Antiquités Grecques et Romaines (16), dice che «il numero delle città confe-derate era di dodici, numero consacrato senza dubbio da certe teorie religiose».

Infatti, come osserva lo stesso Dictionnaire, dovunque gli Etruschi sono stati condotti ad orga-nizzarsi in corpo politico, si ritrova una dodecapoli; in Toscana (17), al Nord dell’Appennino, in Campania (18). Nel racconto di Strabone (19) Atys, emigrato dalla Lidia in Italia conducendo una colonia, fonda in Etruria dodici città; e se dai tempi leggendarii della colonizzazione lidia veniamo ai tempi della decadenza, al tempo dell’Impero, quando l’Etruria non è piu che una regione soggetta al dominio romano, troviamo che il simbolo dell’Etruria è sempre una dodecapoli. Che una consuetudine così radicata ed in così importante argomento abbia dovuto avere per base una idea religiosa è suggerito in un modo generico dalla estimazione che gli antichi avevano dell’Etruria come popolo eminentemente religioso e dalla importanza sociale che sappiamo avere avuto presso questo popolo quella che i Romani chiamavano la “etrusca disciplina“. Tito Livio per esempio chiama l’Etruria (20) una nazione religiosa per eccellenza, ed altrettanto dice, a modo suo, il cristiano Arnobio (21) per il quale è «genitrix et mater superstitionis Etruria».

Ora se di questo religiosissimo popolo esaminiamo proprio la religione, troviamo al grado più elevato della gerarchia divina gli dei involuti o superiores od opertanei, cioè misteriosi, divinità a-stratte ed inafferrabili di cui nulla è detto; ma immediatamente dopo vediamo apparire il nostro numero dodici, perché dopo gli dei involuti, vengono i dodici dei consentes o complices (sei maschili e sei femminili), tra i quali emerge Tinia (Giove), e la suprema triade di Tinia, Uni (Giunone) e Menrva (Minerva), la triade del Campidoglio romano, la triade il cui precipuo attributo è quello del fulmine. Sorge quindi spontanea l’idea che l’aggruppamento delle dodici verghe nel fascio, quello dei dodici littori innanzi al capo della dodecapoli, innanzi ai re romani, ai consoli ed agli imperatori, e l’aggruppamento delle dodici città e dei dodici lucumoni si corrispondessero l’un l’altro, e corrispondessero analogicamente tutti quanti all’aggruppamento supremo dei dodici dei consentes, dei dodici dei che stanno insieme (cfr. absens, praesens), nel consiglio celeste presieduto da Giove. Questa corrispondenza tra i dodici dei in cielo ed i dodici lucumoni in terra è del resto conforme alle consuetudini degli antichi; in simile modo il territorio dell’antico Egitto era diviso in nomi, sicché per questa e per altre ragioni l’Egitto, come è detto nell’Asclepio, era l’immagine del cielo.

Questo raggruppamento di dodici divinità non è certo una peculiarità dell’Etruria; ma la esistenza di consimili aggruppamenti altrove non sminuisce il valore e l’importanza della sua presenza in Etruria. Anzi. In Roma le statue degli Dei Consentes si trovavano in un portico sul fianco del Campidoglio, Varrone ci dice (22) che erano dodici; e Sant’Agostino li considera come il consiglio celeste presieduto da Giove. Furono riuniti la prima volta in Roma nel lectisternium del 217, ed Ennio ne riunì i nomi nei due seguenti celebri versi:

Juno, Vesta, Minerva, Ceres, Diana, Venus,

Mars, Mercurius, Jovi, Neptunus, Volcanus, Apollo.

Probabilmente i dodici dei consentes dei Romani sono derivati dagli Etruschi; certamente i due aggruppamenti si corrispondono, e questo gruppo di dodici divinità etrusco-romane venne presto identificato con l’analogo gruppo di dodici divinità dell’Olimpo greco, che a sua volta Erodoto aveva identificato con un gruppo di dodici divinità egizie. Data per altro la molto dibattuta ed ancor ir-resoluta questione dei rapporti e della derivazione degli Etruschi dall’Asia Minore, è necessario ri-cordare che anche l’Olimpo caldaico-babilonese presenta un aggruppamento di dodici grandi dei, che Diodoro Siculo chiama i maestri o signori degli Dei, ed i quali, sempre secondo Diodoro, presiedono ai dodici mesi dell’anno ed ai dodici segni dello zodiaco; corrispondenza importante, sebbene non così completa come quella con il gruppo greco perché le dodici divinità del gruppo etrusco-romano non corrispondono singolarmente alle dodici divinità del gruppo caldaico (23).

Diodoro Siculo pone dunque in rapporto questo gruppo di dodici con i dodici mesi dell’anno ed i dodici segni dello zodiaco; e questo ci riporta ad un altro lato della questione: origine e divisione dodecimale dello zodiaco; origine e divisione dodecimale dell’anno solare. Secondo quanto racconta Erodoto (24), i sacerdoti di Eliopoli, da lui consultati, si vantavano perché, primi tra tutti gli uomini, gli Egiziani avevano scoperto l’anno, lo avevano diviso in dodici parti, che, dicevano, avevano ritrovato negli astri, ed avevano assegnato loro i nomi dei dodici dei. Da essi poi i Greci avevano tutto ricevuto. La corrispondenza tra i dodici dei, i dodici mesi dell’anno e le dodici costellazioni di astri, è chiara tanto in Egitto che in Babilonia; ma la esistenza della corrispondenza non ci dice quale dei tre, dei, mesi e costellazioni, costituisce il punto di partenza, la base della divisione dodecimale e della analogia. Ed evidentemente non è escluso che si debba risalire ancora più in su per rinvenire la base prima di questa analogia.

Osserviamo anzi tutto che il mese, come la etimologia del nome indica più o meno chiaramente nelle varie lingue, è essenzialmente il mese lunare di ventotto-ventinove giorni e che perciò l’anno solare di trecentosessantacinque giorni si presta male ad una suddivisione in mesi lunari: i calendari i che, come l’ebraico, si basano sopra il mese lunare sono costretti a rimediare alla inesattezza della suddivisione ricorrendo appunto ad un tredicesimo mese. Non sembra, dunque, che sia stato l’uso del mese lunare a condurre alla divisione dell’anno solare in dodici parti (presso a poco uguali). Né d’altra parte il numero trecentosessantacinque si presta ad una divisione in dodici parti eguali, poiché il dodici non ne è summultiplo; è vero per altro che l’unica divisione esatta possibile (astraendo naturalmente dal quarto di giorno che occorre aggiungere ai trecentosessantacinque giorni per avere effettivamente la vera durata dell’anno solare) era quella in cinque parti, che sono evidentemente troppo grosse.

Eppure quantunque l’anno non si presti ad essere diviso in dodici mesi, questa è la divisione ovunque prevalente, con qualche rara eccezione, che basta a mostrare per altro che si poteva benissimo ricorrere anche ad una altra suddivisione. L’uso generale, tradizionale, pare sia sempre stato quello di suddividere l’anno in dodici parti. Vediamolo brevemente.

I messicani (atzechi) dividevano l’anno in diciotto mesi, ciascuno di venti giorni (25), ed i cinque giorni residui e che mancano a costituire i trecentosessantacinque giorni dell’anno li contavano a sé e li chiamavano giorni inutili; fatto degno di nota perché affatto conforme alla costumanza egizia dei cinque giorni epagomeni.

Altra eccezione sarebbe quella dell’anno di Romolo di dieci mesi, ma la storicità e la verisimi-glianza stessa di questo anno di dieci mesi è troppo discutibile. Del resto anche in America la divisione messicana dell’anno è una eccezione. «Quelli del Peni, continua l’Acosta (26), contavano il suo anno egualmente come noi altri et li partivano in dodici mesi o lune. Nei monti dietro la città di Cuzco (che era la corte dei re Inghi) e vicino al maggior santuario del suo regno et come dicessimo un’altra Roma, tenevano posti nel suo ordine dodici pilastri, o colonne, in tale distanza et sito, che ciascheduno notava in ciascheduno mese ove nasceva il sole et ove tramontava». E, sempre rimanendo in America, il De Humboldt riferisce (27) «che un popolo semi selvaggio, gli Aracuani del Chili, ha un anno che offre ancora più analogia con quello degli Egizii che quello degli Atzechi. Trecentosessanta giorni sono suddivisi in dodici mesi di eguale durata, a cui si aggiunge alla fine dell’anno, al solstizio d’inverno, cinque giorni epagomeni».

È naturale domandarsi se questa analogia tra il calendario peruviano e quello egizio, sia puramente casuale, oppure sia indizio di una comune origine, di una comune derivazione da quell’Atlantide di cui la tradizione egizia conservava il ricordo.

La questione è interessante, ma dobbiamo attenerci al nostro tema. Contentiamoci quindi di os-servare che il calendario egizio, senza confronto migliore dei nostri, divideva l’anno in tre stagioni di quattro mesi l’una, mesi tutti eguali di trenta giorni l’uno; e che i preti di Eliopoli, probabilmente per una qualche ragione, davano a quella conoscenza ed usanza grande importanza sì da trarne vanto con Erodoto.

Dodici mesi contava l’anno greco-romano; la Cina, il Giappone, il Siam usano un anno lunare di dodici mesi ed un anno luni-solare con una tredicesima lunazione. Una tribù selvaggia dell’Africa Orientale, i kikuyos, divide anche essa l’anno in dodici parti. In India, infine, troviamo i dodici adityas, forme ed emblemi del sole per ogni mese dell’anno, che la mitologia hindù dice generati da Aditi e da Casyapa. Il nome aditya viene da Aditi, che significa letteralmente indistruttibilità, e denota la loro natura eterna. La corrispondenza tra i dodici adityas hindù ed i dodici dei consentes dell’olimpo etrusco-greco-romano è evidente. Notiamo ancora, in India, che il codice delle stesse leggi di Manu è diviso in dodici capitoli.

La considerazione del numero dodici ricompare anche nella suddivisione di altri intervalli di tempo, per esempio nella divisione in dodici parti eguali del giorno babilonese, il nukthemeron. I greci le raddoppiarono, e così ebbero origine le nostre ventiquattro ore.

Il calendario hindù ha anche esso come il nostro dodici mesi corrispondenti ai dodici segni zo-diacali; ed anche esso presenta ancora altri elementi in cui ricompare l’influenza del numero dodici. Infatti l’anno solare forma un giorno ed una notte degli dei, e trecentosessanta anni solari umani formano un anno divino; e dodicimila anni divini formano il Maha-Yuga, il grande periodo, comprendente le quattro età, e composto di dodicimila x trecentosessanta anni solari ossia di quattromilionitrecentoventimila anni. Questo stesso periodo di dodicimila apparirebbe anche nella cronologia etrusca se si potesse fare assegnamento su quanto dice parlando dei secoli etruschi un tardo scrittore greco, Suida. Secondo Suida, infatti, nella cosmologia etrusca il demiurgo aveva creato il mondo per la durata di dodicimila anni, ed ogni migliaio di anni corrispondeva ad uno dei segni dello zodiaco.

Un altro indizio che la divisione dell’anno è piuttosto effetto che causa ed origine della funzione e del valore del numero dodici ci sembra dato dal fatto che questo numero si presenta, sempre con il suo misterioso e tradizionale carattere, anche in tanti altri campi che non hanno con quello astronomico e cronologico un rapporto diretto. Ci limitiamo a ricordare presso gli Ebrei i dodici figli di Giacobbe e quindi le dodici tribù di Israele; nonché le dodici pietre dell’Urim e Tummim, e i dodici patriarchi, i dodici buoi del mare di bronzo, le dodici pietre dell’altare di Elia, eccetera, nonché i dodici apostoli di Gesù, e le dodici stazioni della via Crucis (che talvolta per altro diventano quattordici) e le dodici porte e le dodici pietre fondamentali della Gerusalemme celeste (28).

Tralasciando le dodici fatiche d’Ercole e venendo a Roma, si nota subito che il numero dodici ri-corre con frequenza nelle più antiche tradizioni e istituzioni romane.

Il Collegio dei Fratelli Arvali constava appunto di dodici sacerdoti e la tradizione ne spiegava il numero ed il nome di fratelli dicendo che esso era costituito primieramente dai dodici figli di Acca Larentia, di cui, essendone morto uno, Romolo aveva preso il posto (il nome arvales si riferisce al culto ed al simbolismo agricolo). E dodici erano pure i sacerdoti costituenti l’altro importantissimo collegio dei Salii. Dodici gli avvoltoi veduti da Romolo in auspicio della fondazione di Roma. Dodici le tavole della Legge. Sono tutti fatti ed elementi della massima importanza, ed il fatto che dodici era il numero dei littori che precedevano i re e i consoli non si può considerare isolatamente, ma va evidentemente inquadrato in questa considerazione e venerazione del numero dodici che si ritrova alla base stessa della fondazione di Roma. Virgilio, il poeta iniziato esaltatore della romanità, mantovano, e quindi di origine etrusca, sembra inspirarsi a questa tradizione e riaffermarla, componendo in dodici canti la sua Eneide (l’Iliade e l’Odissea ne hanno ciascuna ventiquattro). Anche il numero delle Sibille, sotto l’influenza di questa tradizione, venne dalla leggenda a poco a poco fissato in dodici.

Ora, facendo un salto nel tempo e nello spazio, è molto interessante osservare che, come il sommo Collegio dei fratelli Arvali e come quello dei Salii, così pure il “consiglio circolare” del Dalai-Lama è composto di dodici grandi Namshans (o Nomekhans) (29).

Un’altra significativa corrispondenza è fornita dal misterioso Agartha; infatti secondo quanto ri-porta Saint-Yves d’Alveydre, nella suprema ed universale gerarchia iniziatica «il cerchio più elevato e più vicino al centro misterioso si compone di dodici membri che rappresentano l’iniziazione suprema e corrispondono tra le altre cose alla zona zodiacale».

E Guénon, riportando questo passo del Saint-Yves, dopo aver osservato che questa costituzione si trova riprodotta in ciò che si chiama il “consiglio circolare” del Dalai-Lama, e che la si ritrova anche, d’altronde, sino in certe tradizioni occidentali, segnatamente in quelle che concernono i “Cavalieri della Tavola Rotonda“, aggiunge che i dodici membri del circolo interiore dell’Agartha rappresentano, più che i dodici segni dello zodiaco, i dodici Adityas. Anche per il Guénon la corrispondenza zodiacale è la secondaria.

Di questa tradizione si trovano altre antiche ed importanti tracce nell’estremo Oriente. Nel settimo secolo prima dell’era volgare, tanto Confucio quanto Lao-tseu, ossia le due più eminenti figure dell’antica Cina, ebbero ciascheduno dodici discepoli. Venti secoli dopo di loro, Marco Polo ci attesta la persistenza di questa tradizione; dice infatti Marco Polo (30) che il «gran sire ha dodici baroni con lui, grandissimi… e questa si chiama la “corte maggiore” che sia nella corte del Gran Cane». Ed altrove dice (31) che il Gran Cane si fa guardare da dodicimila uomini a cavallo, e chiamansi questi tan (chescican), cioè a dire «cavalieri fedeli del Signore»; che «la nobile città di Quisai, vale a dire in francesco la città del cielo… è la più nobile città del mondo e la migliore… ed ha dodicimila ponti di pietra…, dodici arti, cioè d’ogni mestiere una, e ciascuna arte ha dodici mila stazioni, cioè dodicimila case… »; e che «la provincia delli Magi di cui Quisai è la mastra città ha ben milleduecento cittadi».

In Occidente, la tradizione ermetica, naturalmente, connette il numero dodici alla grande opera. Basterà ricordare le dodici porte del Ripley, le dodici chiavi di Basilio Valentino, i dodici trattati de Lapide philosophorum attribuiti al celeberrimo Sendivogio (32). Non staremo ad analizzare se questa tradizione rosacroce si connette direttamente alla tradizione estremo orientale o se invece debba connettersi al simbolismo pagano dei lavori di Ercole (33) ed a quello cristiano della passione di Gesù.

http://www.azionetradizionale.com/2011/12/31/il-fascio-littorio-nell%E2%80%99antica-roma-i-parte/#more-12561


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