Di Raffaele Ragni
26/01/2008Le prime forme di attività bancaria risalgono alle antiche civiltà mediorientali e mediterranee. Già presso gli assiro-babilonesi e gli egiziani vi erano particolari luoghi, in genere templi, dove venivano ammassati i metalli preziosi allo scopo, non solo di custodia, ma anche di deposito per i pagamenti a distanza. Nelle città greche operavano banchieri privati - i cosiddetti trapeziti - che ricevevano moneta in deposito, effettuavano cambio di valute, pagamenti e riscossioni per conto terzi, concedevano prestiti su pegno e crediti di tipo ipotecario. In età ellenistica sorsero banche pubbliche con funzioni di tesoreria. Nel mondo romano i banchieri - detti argentarii, nummullarii, collectarii - oltre alle operazioni in uso presso i greci, effettuavano speculazioni su prodotti agricoli ed appalto di imposte.
Con l’affermazione della civiltà feudale e dell’economia curtense, l’attività creditizia assunse forme nuove. Dal secolo XIII, accanto ai cambiavalute, si diffusero in tutta Europa le figure del mercante-banchiere e dell’orafo. Essi custodivano le monete affidate loro dai clienti, accertandone il titolo e il valore, ed effettuavano operazioni di prestito e pagamenti anche in località lontane tramite propri corrispondenti in loco. L’insicurezza delle strade e la grande confusione monetaria causata dall’esistenza di più monete di diverso titolo, insieme alle frequenti alterazioni del contenuto di metallo fino apportate dai principi e dai privati, accrebbero la rilevanza sociale dell’attività svolta dalle nascenti imprese creditizie.
Fin dal XII secolo, i banchieri privati accoglievano depositi in moneta metallica, con impegno di rimborso a richiesta del cliente, ed erano disposti a trasferire la disponibilità dei depositi da una persona all’altra mediante annotazioni contabili, da cui la denominazione di banchi di deposito e di giro. Nei secoli XVI e XVII, sia per garantire i depositanti che per finanziare lo Stato, fiorirono in tutta Europa banchi pubblici di deposito e di giro. Dopo la nascita della Banca d’Inghilterra (1694) si assisterà nei secoli seguenti alla progressiva differenziazione delle funzioni bancarie: da un lato gli istituti di emissione, ad un tempo organi della circolazione monetaria e banche centrali, dall’altro le banche commerciali e le banche di deposito che svolgevano funzione di intermediazione creditizia a vantaggio del mondo produttivo.
Per molti secoli il diritto di battere moneta fu riservato allo Stato. Questo fondamentale requisito della sovranità consisteva nel coniare monete metalliche in apposite fonderie pubbliche chiamate zecche e metterle in circolazione con valore di moneta legale. I titoli di credito all’ordine di natura cartacea emessi dai banchieri privati, previa annotazione contabile nei rispettivi registri, erano utilizzati nelle transazioni commerciali, ma non avevano funzione di moneta. Potevano sostituirla solo perché vi era fiducia presso il pubblico che il banchiere, a richiesta, li avrebbe convertiti in moneta metallica. In seguito, con l’evolversi delle prime lettere di cambio e delle note di credito in banconote, queste ottennero il riconoscimento dallo Stato come mezzi di pagamento dotati di potere liberatorio generale, ed entrarono a far parte della moneta legale, che divenne quindi di tue tipi: metallica e cartacea.
Le lontane origini degli attuali istituti di emissione si possono rinvenire, quanto alla funzione, negli antichi banchi di deposito e di giro sorti nel XII secolo, ed in particolare in quelli pubblici del XVI secolo. La loro struttura è invece assimilabile a quella delle banche private che ottennero il privilegio dell’emissione di biglietti in cambio dell’aiuto finanziario offerto allo Stato, e precisamente la Banca d’Inghilterra (1694) e la Banca di Francia (1800). La facoltà di emettere banconote con valore di moneta legale inizialmente fu estesa a molteplici istituti in concorrenza tra loro, che si organizzarono tutti sul modello inglese e francese. In seguito, prevalse l’orientamento di limitare il privilegio dell’emissione a poche banche, e col tempo affidare il monopolio ad un unico istituto.
In Italia, nel primo decennio di storia unitaria, operavano cinque banche di emissione: la Banca Nazionale del Regno d’Italia, la Banca Nazionale Toscana, la Banca Toscana di Credito, il Banco di Napoli ed il Banco di Sicilia. Dal 1870 fu riconosciuta la facoltà di emissione anche alla Banca Romana, per cui gli istituti con tale privilegio divennero sei. Nel 1893 la Banca Romana, travolta da un celebre scandalo, fu messa in liquidazione ed assorbita dalla Banca Nazionale del Regno d’Italia. Nello stesso anno fu istituita la Banca d’Italia, in seguito alla fusione tra Banca Nazionale del Regno d’Italia, Banca Nazionale Toscana e Banca Toscana di Credito. Al nuovo istituto fu attribuita la facoltà di emettere moneta, già spettante al Banco di Napoli ed al Banco di Sicilia, per cui le banche d’emissione si ridussero a tre.
Fino all’avvento del fascismo, il sistema bancario italiano si caratterizzava per l’assenza di una specifica normativa di settore. L’attività creditizia era assimilata alle altre attività commerciali. Non c’era distinzione tra attività creditizie ed attività di emissione. Qualsiasi impresa bancaria, previa autorizzazione del governo, poteva emettere titoli al portatore pagabili agli sportelli. Una regolamentazione giuridica speciale era prevista soltanto per gli istituti di credito fondiario, gli istituti di credito agrario, gli istituti di credito per le imprese di pubblica utilità. Nel 1888 le casse di risparmio ottennero la qualifica di enti creditizi e furono staccate dalle Pubbliche Amministrazioni che le avevano costituite.
Lo Stato liberale, per attrarre capitali stranieri sia nel settore creditizio che in quello industriale, perseguì una politica di deregolamentazione. Fino al 1865 un minimo di vigilanza era affidato a commissari facenti capo ad una divisione del Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio. Nel 1866 fu istituito il Sindacato delle società commerciali ed istituti di credito, con compiti di istruttoria per il rilascio dell’autorizzazione governativa e di vigilanza delle società costituite. Nel 1869 il sindacato fu soppresso e sostituito da Uffici provinciali di ispezione, composti dal Prefetto e da due membri eletti ogni biennio dalla locale Camera di Commercio. Tale regime fu abolito dal nuovo codice di commercio (1882) che equiparò le imprese esercenti il credito alle altre imprese commerciali, con in più l’obbligo di presentare al Tribunale del Commercio una relazione mensile sulle operazione svolte. Il denaro prodotto servì a finanziare le concentrazioni monopolistiche in diversi settori industriali, ma non a sanare il divario economico tra regioni italiane.
Appena giunto al potere, il fascismo riorganizzò il sistema creditizio italiano secondo un profilo gerarchico che subordinava l’economia alla politica. La legge bancaria del 1926 razionalizzò i rapporti di vertice. La facoltà di emissione fu sottratta al Banco di Napoli ed al Banco di Sicilia e concentrata nella Banca d’Italia, che divenne così l’unico istituto di emissione dello Stato italiano. Il Ministro per le Finanze ed il Ministro per l’Economia Nazionale avevano il potere di concedere e ritirare l’autorizzazione per la costituzione di nuove banche, l’apertura di filiali e la fusione di banche già esistenti. La Banca d’Italia assunse il ruolo di banca centrale e le fu riconosciuta la natura di ente pubblico. Oltre a diventare l’unico istituto di emissione, svolgeva funzioni di vigilanza su tutte le banche: riceveva rapporti periodici ed aveva potere di ispezione. In seguito acquisì anche la vigilanza sui cambi.
La successiva legge bancaria del 1936 sottopose il sistema bancario italiano al potere di indirizzo e di controllo del governo, riducendo fortemente i margini di autonomia e indipendenza della stessa Banca d’Italia. Al vertice del sistema creditizio fu posto un Comitato di Ministri - diretto dal presidente del Consiglio, cioè da Benito Mussolini, e composto dai Ministri di Finanza, Agricoltura, Economia Nazionale - che poteva perseguire scopi di politica economica anche attraverso interventi selettivi sulle scelte delle imprese bancarie. La funzione di vigilanza fu sottratta alla Banca d’Italia ed attribuita ad un organo della Pubblica Amministrazione definito Ispettorato per la difesa del risparmio e l’esercizio del credito, che era presieduto dal Governatore della Banca d’Italia, ma svolgeva soltanto funzioni ausiliarie del comitato diretto dal Duce.
La normativa del 1936 confermò la distinzione, introdotta dalla precedente legge del 1926, tra istituti di credito - che raccoglievano risparmio a medio e lungo termine - ed aziende di credito - che raccoglievano risparmio a breve termine. Il fine era di bandire dal sistema uno dei principali amplificatori della crisi del 1929, cioè la banca mista - che utilizzava fondi raccolti a breve dai risparmiatori per finanziare a medio e lungo termine la costituzione e l’aumento del capitale fisso delle imprese – e di affermare una rigida specializzazione dell’attività creditizia basata sulla indicazione formale della durata delle operazioni. Fu tuttavia accentuata l’impostazione pluralista del sistema, conservando una disciplina speciale per alcune categorie di banche: istituti di credito di diritto pubblico, banche di interesse nazionale, casse di risparmio, monti di credito su pegno, banche popolari, casse rurali e artigiane.
La classe politica del dopoguerra ha dapprima snaturato e poi cancellato la riforma bancaria fascista. Per finanziare la ricostruzione postbellica, le aziende di credito - che avrebbero dovuto esercitare solo il credito a breve termine - finirono con l’esercitare anche il credito a medio e lungo termine attraverso sezioni speciali, dotate di autonomia organizzativa, o istituti giuridicamente autonomi ed appositamente costituiti, verso cui le banche fungevano da agenzie per la raccolta dei fondi da essi amministrati. Di fatto rinasceva la banca mista. Le sue appendici, oltre che a finanziare lo sviluppo - ciò almeno in teoria - servivano a dare posti di lavoro alle clientele partitiche. La dottrina si adeguò alla nuova logica clientelare. Fu abbandonata la distinzione basata sulla durata delle operazioni, che distingueva le imprese bancarie in aziende o istituti, e fu accolta la distinzione basata sulla natura del credito, che definiva ordinario quello a breve termine e speciale quello a medio e lungo termine.
Fino al Testo Unico del 1993, che ha epurato il sistema bancario italiano da ogni residuo della legislazione fascista. Hanno prevalso la specializzazione ed il pluralismo dei soggetti, con normative differenziate in base al tipo di banca.
Con la progressiva attenuazione della specializzazione funzionale e l’allargamento della gamma di servizi offerti, la banca ha finito per configurarsi come un department store of finance, una sorta di grande magazzino dove si vende moneta - quindi sia denaro che capitale - in tutte le forme possibili: prodotti creditizi, finanziari, assicurativi. A livello mondiale è in atto un processo di concentrazione delle aziende di credito, attraverso fusioni ed incorporazioni, ciò al fine di conseguire economie di scala non diversamente da quanto avviene in ambito industriale. Con la formazione di potenti gruppi a dimensione planetaria, il settore creditizio - che è uno dei pochi settori realmente globale - ha assunto da tempo le caratteristiche tipiche dei mercati oligopolistici.
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