Bene, vediamo: il buon Giacomino, socialista di tutto rispetto, sempre ritratto nei libri di testo e in quelli di storia come un fanciullino, (giusto per sfiorare "quel tasto del patetico a cui noi italiani siamo particolarmente sensibili "), viene brutalmente ucciso da un pugno di fascisti al soldo di Mussolini. Motivo? Il prode Giacomino aveva denunciato i brogli elettorali di questi cattivi signori che, per non perdere la faccia, l'hanno confinato nel regno delle talpe,ovvero animaletti che non sentono, non vedono e non parlano.
Una storiella "carina" , non c'è che dire. E molto efficace in chiave politica, giacché riesce benissimo a gettare il marchio dell'infamia addosso al nemico ieri imperante, oggi sconfitto.
Allora, iniziamo a porre qualche dubbio, nella speranza di sfiorare qualche candida coscienza, (ammesso che ve ne siano ancora!), tra le fila dell'Italia moderna, democratica e antifascista.
Siete proprio sicuri che le cose siano andate così?
Siete proprio sicuri che le cose siano andate così?
Allora ditemi: perché Mussolini avrebbe dovuto volere proprio la morte di Matteotti? Perché non si sarebbe comportato con lui come fece in altre occasioni con avversari, non meno ingombranti, del calibro di Pertini e Gramsci, mandati in carcere, previo regolare processo, mantenuti e curati a spese dello Stato? Anche questi ultimi, in fondo, avevano denunciato l'operato delle Camicie Nere, eppure non furono mai uccisi.
Evidentemente, la ragione risiede altrove. Vi preannuncio che non sarà facile trovare riscontro alle parole che seguono, dato che pochi autori ne parlano, (R. Sermonti in primis). Comunque, dovete tenere presente una data, 1923, ed un luogo, Francia. Infatti, in quell'anno nel Paese transalpino muoiono diversi fascisti: a Strasburgo era stato ucciso un ebanista; a Marsiglia erano stati rinvenuti i corpi di due iscritti al Fascio di quella città; in seguito a Parigi erano stati uccisi altri due fascisti.
Su queste morti indagherà Amerigo Dumini.
Non è abbastanza singolare la circostanza che Dumini nel 1923 cercasse di scoprire la verità su quelle morti misteriose, e nel 1924 fosse uno dei responsabili del cd. "omicidio Matteotti"?
Sì, e non è solo singolare, ma addirittura sospetta. Ed è questa la tesi che Sermonti ed altri sostengono: Matteotti, assiduo frequentatore dei congressi socialisti anche all'estero, era il mandante di quelle morti. Dumini, Volpi, Povermo e gli altri, avevano il compito di prelevare il deputato socialista per condurlo davanti alle autorità, perché fosse ascoltato. Nel tentativo di condurre in auto Matteotti, sarebbe nata una colluttazione tra quest'ultimo e gli uomini della Ceka, in cui probabilmente Matteotti restò ACCIDENTALMENTE UCCISO, (come è stato scritto in più parti), o addirittura morì INASPETTAMENTE per una emottisi, causata forse da un aneurisma cerebrale, (come scritto in altre). Fatto sta che la morte del deputato gettò nel caos più profondo Dumini e compagni, (ma non erano stati assoldati per ucciderlo?), i quali vagarono tutta la notte con la lussuosa Lancia, (avevano scelto una macchina proprio "invisibile" per l'epoca), per cercare di trovare una soluzione. Alla fine, scelsero di seppellirlo maldestramente nel bosco della Quarterella: una fossa scavata alla bene e meglio, con mezzi di fortuna, (forse un cacciavite o un pugnale-che strano, questi dovevano accoppare un uomo e non avevano pensato a portarsi una pala!), coperta da un pugno di terra e da qualche foglia, ove il cadavere resterà abbandonato fino al ritrovamento casuale, avvenuto il 16 agosto, da parte del cane di un brigadiere dei Carabinieri in licenza.
Su queste morti indagherà Amerigo Dumini.
Non è abbastanza singolare la circostanza che Dumini nel 1923 cercasse di scoprire la verità su quelle morti misteriose, e nel 1924 fosse uno dei responsabili del cd. "omicidio Matteotti"?
Sì, e non è solo singolare, ma addirittura sospetta. Ed è questa la tesi che Sermonti ed altri sostengono: Matteotti, assiduo frequentatore dei congressi socialisti anche all'estero, era il mandante di quelle morti. Dumini, Volpi, Povermo e gli altri, avevano il compito di prelevare il deputato socialista per condurlo davanti alle autorità, perché fosse ascoltato. Nel tentativo di condurre in auto Matteotti, sarebbe nata una colluttazione tra quest'ultimo e gli uomini della Ceka, in cui probabilmente Matteotti restò ACCIDENTALMENTE UCCISO, (come è stato scritto in più parti), o addirittura morì INASPETTAMENTE per una emottisi, causata forse da un aneurisma cerebrale, (come scritto in altre). Fatto sta che la morte del deputato gettò nel caos più profondo Dumini e compagni, (ma non erano stati assoldati per ucciderlo?), i quali vagarono tutta la notte con la lussuosa Lancia, (avevano scelto una macchina proprio "invisibile" per l'epoca), per cercare di trovare una soluzione. Alla fine, scelsero di seppellirlo maldestramente nel bosco della Quarterella: una fossa scavata alla bene e meglio, con mezzi di fortuna, (forse un cacciavite o un pugnale-che strano, questi dovevano accoppare un uomo e non avevano pensato a portarsi una pala!), coperta da un pugno di terra e da qualche foglia, ove il cadavere resterà abbandonato fino al ritrovamento casuale, avvenuto il 16 agosto, da parte del cane di un brigadiere dei Carabinieri in licenza.
Mussolini, all'epoca astro nascente della politica italiana, conobbe un periodo di forte crisi. Si assumerà la responsabilità morale e storica del clima di violenza in un famoso discorso alle Camere, ma mai una qualche forma di responsabilità diretta nella vicenda, impossibile da dimostrare perché inesistente.
Potete trovare queste ed altre ricostruzioni navigando un po' in rete, oppure cercando testi tipo "Rutilio Sermonti- L'Italia nel XX secolo" oppure "Franco Scalzo- Il caso Matteotti: radiografia di un falso storico". C'è anche dell'altro materiale interessante, firmato dalle penne di Romanato, (prof. dell'Università di Padova), e recensito da Parlato, (storico apprezzato ed affermato già da tempo), che pone all'attenzione del grande pubblico vicende e lati del carattere di Matteotti fino ad oggi sconosciuti. Scritti che danno l'immagine di un uomo violento, fomentato e fomentatore, implicato addirittura in strani giri di strozzinaggio. Insomma, tutto tranne che quel bel giovinetto dalla faccia pulita, vittima della malvagità delle Camicie nere! C.V. D.
Buona lettura,
Roberto Marzola.
Cultura
STROZZINO E VIOLENTO ESTREMISTA: SI INCRINA IL MITO DI GIACOMO MATTEOTTI.
Lo storico Romanato traccia il ritratto del deputato socialista, pacifista in parlamento e rivoluzionario nel Polesine.
N
on si tratta di fare del revisionismo, piuttosto di andare oltre l’agiografia, tentando di superare il mito a favore di una maggiore conoscenza della nostra storia. Una missione non facile quando si prende in esame Giacomo Matteotti, come ha fatto il professore dell’Università di Padova Gianpaolo Romanato nella bella biografia "Un italiano diverso" (Longanesi) che ieri Giuseppe Parlato ha recensito su queste pagine.Del leader socialista assassinato dai fascisti ci resta oggi un santino, una descrizione eroica che in parte è certamente era,(ma qui abbiamo già risposto, ndr) ma incompleta. Meno noti al grande pubblico sono i lati più problematici del personaggio, due in particolare: le accuse di strozzinaggio rivolte alla famiglia Matteotti (di cui abbiamo già parlato) e il rapporto del deputato socialista con le violenze del cosiddetto biennio rosso. Lo studioso parla di «un clima di violenza e di guerra civile che, a opera dei socialisti e soprattutto delle leghe, imbarbarì la provincia».
Matteotti proveniva dal Polesine, e trattò in due discorsi parlamentari la drammatica questione del suo territorio. Il suo atteggiamento, tuttavia, fu ambivalente. Da un lato, alla Camera, il tono dei suoi discorsi era più conciliante, a casa propria invece si poneva diversamente.
In quelle zone l’egemonia socialista era fortissima, e Matteotti mostrava una «singolare dicotomia», come l’ha chiamata sull’Osservatore Romano un altro studioso di vaglia, Roberto Pertici: «A Rovigo, rivoluzionario e ossequiente all’estremismo oppressivo delle leghe del primo dopoguerra; alla Camera legalitario ed esperto di questioni tecniche e giuridiche».
Meriti e peccati
Pertici è un moderato, parlando con «Libero» riconosce i meriti di Matteotti e prende in tutti i modi le distanze dal sensazionalismo. Ma nel suo articolo per l’Osservatore spiega che Giacomo «diede copertura politica (volente o nolente) al clima di violenza e di guerra civile. Quel clima di violenza e di dura sopraffazione Matteotti non lo crea, ma lo protegge e non lo frena», ci dice il professore, «non si opponeva per non perdere il rapporto con il suo elettorato polesano». Del resto questa era la linea del suo schieramento.
«Il partito socialista», prosegue Pertici, «era inebriato dalla prospettiva della rivoluzione russa, le direttive erano quelle di alimentare il clima rivoluzionario. Nella provincia italiana, specie nelle campagne, si creò dunque una situazione di violenza diffusa e pressione sociale fortissima. Ci furono i morti, certo, ma ci fu anche una violenza diciamo ambientale: i reduci della guerra venivano derisi, i mutilati erano presi in giro, si impediva ai Comuni di esporre la bandiera. Il presidente del Consiglio Nitti, nel ’19, non fece festeggiare l’anniversario della fine del conflitto per non indispettire i socialisti, mentre tutti i Paesi europei lo celebravano».
Fu in questo quadro che si sviluppò la reazione dei fasci, inizialmente appoggiata anche dai popolari e dai moderati, che la intendevano come un freno al caos socialista. Poi, ovvio, il fascismo prese un’altra strada. Rispetto alle violenze rosse, nel libro di Romanato si legge un ruvido articolo comparso sul giornale dei popolari del Polesine che condanna duramente gli esponenti del partito di Matteotti: «Ci sono poche cose che corrompono tanto un popolo come l’abitudine dell’odio; e voi, capi del socialismo polesano, questo sentimento l’avete fomentato in tutte le guise».
Anche Romanato è estremamente cauto nei giudizi, e il suo libro è tutt’altro che denigratorio nei confronti del deputato socialista, cosa che lo rende ancora più importante e apprezzabile. A proposito delle coperture alla violenza politica, preferisce dire che Matteotti «fu condizionato da avvenimenti che non sempre seppe o poté governare. Il Polesine era una provincia poverissima e marginale», dice a Libero, «dove la lotta politica aveva poche mediazioni e facilmente degenerava nella rissa. Inoltre il socialismo locale fu sempre egemonizzato da spinte massimaliste, cioè rivoluzionarie. I due maggiori leader, prima Nicola Badaloni e poi Matteotti, operarono per moderare tali spinte e incanalarle in un’azione politica organizzata e più disciplinata. Ma dopo la guerra, quando il conflitto si accese, Matteotti ebbe sempre meno spazio per le mediazioni, non avendo neppure più la sponda di Badaloni. È questa la fase, siamo nel cosiddetto “biennio rosso”, in cui Matteotti apparve in Polesine più un piromane che un pompiere. Altra era invece la linea che teneva a Roma, dove il confronto era dialettico e non “pugilistico”. Questa duplicità gli fu rimproverata da tutti i suoi avversari, liberali, cattolici e fascisti».
Lo studioso racconta che nelle terre di Matteotti regnava una «violenza insostenibile», la quale contribuì certo a suscitare una reazione “nera”. «Il clima in Polesine, come anche nelle contigue province di Ferrara, Bologna e Mantova, era pesantissimo, di strisciante guerra civile», dice. «La documentazione che ho portato nel libro conferma l’esistenza di una situazione di violenza insostenibile, sia pure motivata da sacrosante richieste di giustizia sociale. Solo in Polesine ci furono una ventina di morti in poco più di due anni. È questo l’inferno da cui sorse lo squadrismo fascista, che, di suo, aggiunse all’esercizio della violenza una metodo, una disciplina e un’organizzazione che i socialisti non avevano».
Antiborghese
Il problema, come nota Roberto Pertici, è il tipo di riformismo che il partito di Matteotti propugnava. L’orizzonte era sempre quello della rivoluzione socialista, anche se con la convinzione che per realizzarla fosse necessaria una certa gradualità. I dirigenti dello schieramento rosso non si riconoscevano nelle istituzioni dello Stato democratico e borghese, anzi si consideravano estranei ad esse, le combattevano, per un certo periodo anche a costo di fomentare la violenza nelle province. Solo in seguito cambiarono rotta, ma ormai era troppo tardi, l’avvento del fascismo si faceva inarrestabile.
Giacomo Matteotti, prima di morire - come ha scritto ieri Giuseppe Parlato - aveva accentuato le sue posizioni anticomuniste, poi fu ammazzato come tutti sanno. Tentò di combattere la dittatura incipiente, come chiunque gli riconosce. Proprio per questo bisogna raccontare anche come agì in precedenza.di Francesco Borgonovo
In quelle zone l’egemonia socialista era fortissima, e Matteotti mostrava una «singolare dicotomia», come l’ha chiamata sull’Osservatore Romano un altro studioso di vaglia, Roberto Pertici: «A Rovigo, rivoluzionario e ossequiente all’estremismo oppressivo delle leghe del primo dopoguerra; alla Camera legalitario ed esperto di questioni tecniche e giuridiche».
Meriti e peccati
Pertici è un moderato, parlando con «Libero» riconosce i meriti di Matteotti e prende in tutti i modi le distanze dal sensazionalismo. Ma nel suo articolo per l’Osservatore spiega che Giacomo «diede copertura politica (volente o nolente) al clima di violenza e di guerra civile. Quel clima di violenza e di dura sopraffazione Matteotti non lo crea, ma lo protegge e non lo frena», ci dice il professore, «non si opponeva per non perdere il rapporto con il suo elettorato polesano». Del resto questa era la linea del suo schieramento.
«Il partito socialista», prosegue Pertici, «era inebriato dalla prospettiva della rivoluzione russa, le direttive erano quelle di alimentare il clima rivoluzionario. Nella provincia italiana, specie nelle campagne, si creò dunque una situazione di violenza diffusa e pressione sociale fortissima. Ci furono i morti, certo, ma ci fu anche una violenza diciamo ambientale: i reduci della guerra venivano derisi, i mutilati erano presi in giro, si impediva ai Comuni di esporre la bandiera. Il presidente del Consiglio Nitti, nel ’19, non fece festeggiare l’anniversario della fine del conflitto per non indispettire i socialisti, mentre tutti i Paesi europei lo celebravano».
Fu in questo quadro che si sviluppò la reazione dei fasci, inizialmente appoggiata anche dai popolari e dai moderati, che la intendevano come un freno al caos socialista. Poi, ovvio, il fascismo prese un’altra strada. Rispetto alle violenze rosse, nel libro di Romanato si legge un ruvido articolo comparso sul giornale dei popolari del Polesine che condanna duramente gli esponenti del partito di Matteotti: «Ci sono poche cose che corrompono tanto un popolo come l’abitudine dell’odio; e voi, capi del socialismo polesano, questo sentimento l’avete fomentato in tutte le guise».
Anche Romanato è estremamente cauto nei giudizi, e il suo libro è tutt’altro che denigratorio nei confronti del deputato socialista, cosa che lo rende ancora più importante e apprezzabile. A proposito delle coperture alla violenza politica, preferisce dire che Matteotti «fu condizionato da avvenimenti che non sempre seppe o poté governare. Il Polesine era una provincia poverissima e marginale», dice a Libero, «dove la lotta politica aveva poche mediazioni e facilmente degenerava nella rissa. Inoltre il socialismo locale fu sempre egemonizzato da spinte massimaliste, cioè rivoluzionarie. I due maggiori leader, prima Nicola Badaloni e poi Matteotti, operarono per moderare tali spinte e incanalarle in un’azione politica organizzata e più disciplinata. Ma dopo la guerra, quando il conflitto si accese, Matteotti ebbe sempre meno spazio per le mediazioni, non avendo neppure più la sponda di Badaloni. È questa la fase, siamo nel cosiddetto “biennio rosso”, in cui Matteotti apparve in Polesine più un piromane che un pompiere. Altra era invece la linea che teneva a Roma, dove il confronto era dialettico e non “pugilistico”. Questa duplicità gli fu rimproverata da tutti i suoi avversari, liberali, cattolici e fascisti».
Lo studioso racconta che nelle terre di Matteotti regnava una «violenza insostenibile», la quale contribuì certo a suscitare una reazione “nera”. «Il clima in Polesine, come anche nelle contigue province di Ferrara, Bologna e Mantova, era pesantissimo, di strisciante guerra civile», dice. «La documentazione che ho portato nel libro conferma l’esistenza di una situazione di violenza insostenibile, sia pure motivata da sacrosante richieste di giustizia sociale. Solo in Polesine ci furono una ventina di morti in poco più di due anni. È questo l’inferno da cui sorse lo squadrismo fascista, che, di suo, aggiunse all’esercizio della violenza una metodo, una disciplina e un’organizzazione che i socialisti non avevano».
Antiborghese
Il problema, come nota Roberto Pertici, è il tipo di riformismo che il partito di Matteotti propugnava. L’orizzonte era sempre quello della rivoluzione socialista, anche se con la convinzione che per realizzarla fosse necessaria una certa gradualità. I dirigenti dello schieramento rosso non si riconoscevano nelle istituzioni dello Stato democratico e borghese, anzi si consideravano estranei ad esse, le combattevano, per un certo periodo anche a costo di fomentare la violenza nelle province. Solo in seguito cambiarono rotta, ma ormai era troppo tardi, l’avvento del fascismo si faceva inarrestabile.
Giacomo Matteotti, prima di morire - come ha scritto ieri Giuseppe Parlato - aveva accentuato le sue posizioni anticomuniste, poi fu ammazzato come tutti sanno. Tentò di combattere la dittatura incipiente, come chiunque gli riconosce. Proprio per questo bisogna raccontare anche come agì in precedenza.di Francesco Borgonovo
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