martedì 16 agosto 2011
Perché il Sud è una colonia interna italiana - La questione meridionale
Per comprendere perché il Sud, cioè il territorio che formava lo Stato delle Due Sicilie, è di fatto una colonia interna italiana, vale a dire del Nord, è necessario evidenziare, sia pure in sintesi, il concetto di colonialismo.
Per colonialismo, come è meglio illustrato sui manuali di economia, si intende la conquista di un altro paese al fine di sfruttarne le risorse economiche, distruggendo le sue strutture e reprimendo con la forza la conseguente reazione popolare.
Tale sfruttamento avviene, generalmente, con l'assicurarsi il controllo politico del territorio conquistato mediante l'alleanza con quella fascia di borghesia parassitaria e corrotta, che viene potenziata e posta in posizione dominante dai conquistatori.
La conseguenza del colonialismo è il sottosviluppo dell’area colonizzata in quanto la sua crescita economica risponde solo ai bisogni dei colonizzatori.
Sottosviluppo che genera, quindi, una condizione di arretratezza sociale ed economica in genere e, in particolare, sul piano tecnico e produttivo, una condizione in cui una collettività si trova ad avere un minore reddito pro-capite rispetto alla parte dominante.
Quella che è ancora oggi spacciata come "unità d'Italia" non fu altro che una guerra di conquista ad opera del Piemonte savoiardo, che, versando in gravi condizioni di bancarotta economica, non aveva altra soluzione che quella di impossessarsi delle risorse altrui.
Da premettere che l’ingrandimento del Piemonte riuscì, come è noto, grazie all’opera della Francia (che fu ricompensata con la cessione della Savoia e di Nizza) e dell'Inghilterra (che ebbe grandi vantaggi politici ed economici nel continente europeo, nel Mediterraneo e, soprattutto, in Italia).
La conquista savoiarda, dunque, fu un grosso affare per il Piemonte che attuò in pieno tutte quelle operazioni tipiche del colonialismo come sopra descritte.
Il Regno delle Due Sicilie, nel 1860, era lo Stato più grande e più ricco della penisola italiana e soddisfaceva in pieno, come vittima sacrificale, alle esigenze savoiarde.
Non essendo, tuttavia, il Reame dislocato in un territorio distante geograficamente, se ne dovette fare l’annessione e fu inventata la suggestiva propaganda dell’ "unità" d’Italia con la favola del "risorgimento" per tacitare sia l'opinione pubblica italiana che quella degli altri Stati europei, ma anche per ingannare la borghesia duosiciliana.
In questo contesto, poi, per giustificare soprattutto l’aggressione alle Due Sicilie, fu costruita tutta una serie di menzogne per denigrare non solo la dinastia dei Borbone, ma anche il popolo, la società e l’economia "meridionale".
Particolarmente subdola è, ancora oggi, l’affermazione che nel 1860 il Piemonte era più evoluto, ma la menzogna savoiarda più spregevole è stata quella di asserire che l’invasione delle Due Sicilie si era resa necessaria perché vi era stata una rivolta del popolo duosiciliano contro la «feudale» amministrazione borbonica, rivolta che sarebbe stata poi confermata dalla farsa di un «plebiscito» che sanciva la volontà popolare di essere annessa ai criminali ladroni e assassini savoiardi.
Le rivolte, invece, furono tutte organizzate da agenti piemontesi con l'aiuto della delinquenza prezzolata.
Le vittorie del Garibaldi non sono mai esistite, furono solo frutto della corruzione e del tradimento di alti funzionari civili e militari.
Ai plebisciti, imposti dagli invasori, partecipò meno del 2 per cento della popolazione sotto la vigile attenzione delle baionette piemontesi.
La vera rivolta, mistificata come "brigantaggio endemico" per giustificare le stragi, le deportazioni e le distruzioni di interi paesi, fu invece quella contro l’occupazione piemontese.
Se con i Borbone di brigantaggio non s’era mai sentito parlare, perché con i piemontesi invece sì?
La borghesia piemontese, in accordo con quelle tosco-padane, impose subito il suo modello socio-politico e culturale nelle Due Sicilie, la cui società fu in breve tempo modificata e adattata alle esigenze economiche dei colonizzatori.
L’economia del regno sardo, infatti, era più rivolta a rimpinguare le sue vuote casse che interessata a promuovere l’unità dello Stato.
Del resto non c’era una storia comune, né c’era una lingua comune, tanto che la lingua italiana era parlata solo da una cerchia ristrettissima di funzionari e acculturati.
Il Nord, per potersi industrializzare, trafugò tutti i macchinari utili del Sud, il resto fu distrutto con determinazione per creare una situazione di monopolio al Nord e per cause belliche.
Alle sole ditte lombardo-piemontesi furono assegnati per pura speculazione tutti i lavori pubblici nelle "province" duosiciliane.
Avvenuta la conquista di tutta la penisola, i piemontesi misero immediatamente le mani su tutte le riserve di denaro esistenti nelle banche degli Stati appena conquistati.
La Banca Nazionale degli Stati Sardi, azienda di credito privata, divenne, dopo qualche tempo, la Banca d’Italia. La solida moneta duosiciliana d’argento e d’oro fu rapinata e sostituita da quella cartacea piemontese.
L'economia meridionale ebbe così un tracollo verticale e la disoccupazione si aggiunse al dramma della guerriglia.
Il carico fiscale, inoltre, fu aumentato dell'87%, ma il denaro così drenato fu tutto speso al Nord, soprattutto quello tratto dallo sfruttamento dell’agricoltura meridionale che finanziò le nascenti imprese industriali del Piemonte e della Lombardia.
Il tracollo dell’economia dell’Italia meridionale avvenne sia perché il centro propulsore dell’economia gravitò solo al Nord, ma anche perché il Piemonte, per sdebitarsi con Inghilterra e Francia, non dovendo proteggere una sua produzione che ancora non aveva, impose una politica di libero scambio che mise in ginocchio quel poco di produzione industriale che restava al Sud.
Dopo l’annessione le terre demaniali ed ecclesiastiche furono concesse alla collaborazionista borghesia parassitaria, originando i latifondi dai quali furono allontanati i contadini che furono privati anche della secolare economia domestica che li sostentava.
I circa 600 milioni di lire incamerati con la vendita delle terre demaniali, quasi tutta la riserva liquida degli abitanti duosiciliani, fu trasferita nelle casse del neonato Stato "italiano" per finanziare l’agricoltura del Nord.
Dopo la distruzione delle sue industrie, l’ex Regno Due Sicilie divenne un mercato per i prodotti del Nord, mentre i suoi abitanti, oltre che consumatori furono trasformati in ascari ante litteram per le guerre che seguirono all'indomani della cosiddetta unità nazionale.
E tutto questo avvenne con la complicità di una servile classe politica meridionale che è stata, ed è, sempre prona agli interessi delle lobby del cosiddetto "triangolo industriale".
Così, dunque, è nata la cosiddetta "questione meridionale" che ci trasciniamo dietro da oltre un secolo e che dimostra, proprio per la sua secolare durata, come gli interessi dei conquistatori siano sempre rimasti inalterati.
Una recente inchiesta dell'Accademia dei Lincei, infatti, ha dimostrato, tra l’altro, che, ancora adesso, contrariamente a quanto falsamente viene diffuso, il prelievo fiscale al Sud è maggiore di quello delle aree centro-settentrionali: la pressione tributaria è pari al 42% nel Sud e al 39,6% nel Centro-Nord.
Inoltre il Nord, che apparentemente sembra pagare più tasse, trasferisce il carico dei tributi sul resto del paese, scaricando le imposte sui prezzi dei beni e servizi che vengono venduti ai consumatori meridionali. Tipico il caso della Fiat: per un’auto venduta a Palermo apparentemente l'IVA viene pagata a Torino, in realtà la paga l’acquirente siciliano.
Lo stesso avviene per gli oneri sociali: pagati al Nord, ma poi incorporati nei prezzi di vendita dei prodotti che il Sud è costretto a comprare.
Antonio Perrucci
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