giovedì 7 luglio 2011

Fascisti senza Mussolini. Le origini del neofascismo in Italia, 1943-1948



Nel dibattito su post-fascismo e destra, entra il libro di Giuseppe Palrato sulle origini del neofascismo in Italia. Una recensione di Marco Tarchi.
giovedì 10 maggio 2007, di pietro g. serra - 2699 letture

Giuseppe Parlato, Fascisti senza Mussolini. Le origini del neofascismo in Italia, 1943-1948, Il Mulino, Bologna 2006, pagg. 438, euro 25.

Non è facile prevedere quale eco susciterà, nel dibattito intellettuale italiano, un libro acuto e documentato come quello che Giuseppe Parlato ha dedicato alle vicende dei fascisti rimasti privi della loro indiscussa guida, o perché residenti nella parte della penisola occupata dalle truppe alleate durante i seicento giorni della Rsi, o perché travolti dal crollo di quest’ultima il 25 aprile 1945. Per il momento, le reazioni a caldo giornalistiche si sono limitate – secondo un cliché piuttosto prevedibile – a rimproverare all’autore un trattamento troppo “umano” dei protagonisti degli eventi narrati, di cui avrebbe invece dovuto deplorare il nefando passato (così Simonetta Fiori, specialista della faziosità retroattiva, su “La Repubblica”) o a farsi eco delle polemiche aperte, nel microcosmo ormai molto attempato dei fedeli postumi del Duce, da alcune rivelazioni contenute nel volume, basate su carte d’archivio per la prima volta consultate (così il “Corriere della Sera”).

Poca cosa, per un’opera ricca di spunti analitici innovativi. Si potrebbe sperare di più e di meglio dagli ambienti della storiografia accademica, ma il rischio che essi derubrichino Fascisti senza Mussolini a cronaca di un episodio marginale della recente storia patria, in grado di coinvolgere tutt’al più un cinque per cento degli italiani sopravvissuti al secondo conflitto mondiale, è forte. Spetta quindi forse a chi abbina all’attenzione scientifica verso gli avvenimenti trattati dal libro la sensibilità psicologica che deriva dall’averne condiviso le conseguenze – e noi siamo, come è noto, fra questi – il compito principale di discutere le tesi che Parlato sostiene, le prove che porta a loro sostegno, le considerazioni che ne trae. Impegno non di poco conto, ma che ci si può accollare volentieri, non foss’altro che per sottrarre finalmente ad alcuni equivoci che da troppo tempo la ostacolano l’interpretazione del ruolo svolto nel sistema politico italiano del secondo dopoguerra da questa frazione anomala dell’area di destra.

Ed è proprio da questo punto che può partire una recensione del volume che mira ad essere soprattutto una discussione dei suoi suggerimenti interpretativi: la restituzione a pieno titolo del neofascismo, ma anche in certa misura del fenomeno di cui fu erede, alla storia della destra italiana, da cui si è stati spesso tentati di espungerlo in virtù di certi aspetti eterodossi del suo bagaglio ideologico.

Che i fascisti, non solo in Italia, siano stati sempre restii ad ammettere l’appartenenza ad una componente del panorama politico alla quale venivano ascritte anche caratteristiche che molti di loro sentivano estranee – come la difesa ad oltranza del sistema capitalistico e delle sperequazioni sociali che ne derivavano, o il culto dell’utilità individuale spinto sino all’aperto materialismo “panciafichista” (1) – è cosa ormai nota ; né si può negare che la promessa di rappresentare una “terza via” estranea sia alle democrazie liberali che alle forme collettiviste di socialismo sia stata uno dei motivi principali dell’attrazione che il prototipo mussoliniano e le sue varianti esercitarono su ampi strati dell’opinione pubblica nell’Europa fra le due guerre, in particolare sui giovani. Tuttavia, l’ambiguità del rapporto fra questa pretesa e l’aperta volontà di rappresentare una “rivoluzione antibolscevica”, una reazione al modello di società che si andava affermando con la rivoluzione russa e che gli ammiratori di quest’ultima minacciavano di esportare ovunque, è un altro dato di fatto significativo, e gli studi sin qui condotti dimostrano che fu questo carattere reattivo, antisocialista e anticomunista, ad attrarre alla causa fascista i maggiori consensi negli anni della conquista (tentata o, come in Italia e in Germania, riuscita) conquista del potere. Molti fiancheggiatori delle camicie nere e delle loro milizie (ma anche delle camicie brune di Hitler più tardi, e dei movimenti affini sorti in altri paesi) vedevano in esse soprattutto i più decisi oppositori della sinistra, i difensori di fatto delle classi medie dall’assedio di un proletariato mosso dall’invidia, i restauratori dell’autorità dello Stato contestata dall’eversione rossa, il baluardo della nazione intesa come deposito di tradizioni culturali e abitudini di vita consolidate. Fu la fiducia che derivava da queste convinzioni, e non certo l’anelito confusamente innovativo della pattuglia di sindacalisti rivoluzionari che si erano affiancati all’ex direttore dell’“Avanti!” convertitosi all’interventismo, a consentire prima il successo e poi il rapido consolidamento del movimento fascista in Italia.

I vent’anni di regime cambiarono, da questo punto di vista, le cose? Chi vorrebbe accreditare la tesi di un fascismo compiutamente totalitario, capace di neutralizzare le influenze della Corona, della Chiesa cattolica e dei poteri economici e sociali tradizionali e quindi di operare una vera e propria rivoluzione delle mentalità del cittadino medio, sostiene di sì. Ma i fatti danno un’altra risposta. E non c’è bisogno di ricorrere al modo molto diverso in cui gli italiani e i tedeschi – costoro, sì, immersi in un clima di identificazione totalitaria in chi li governava – affrontarono la prova bellica, o alla mesta implosione del regime del “credere, obbedire, combattere” all’indomani del 25 luglio 1943, per dimostrarlo. Basta e avanza il profilo che Giuseppe Parlato traccia di gran parte di quegli stessi fascisti “irriducibili” che, dopo l’8 settembre, aderirono alla Rsi e, in parte, si sforzarono dopo la sconfitta di rialzare il vessillo delle idealità in cui avevano creduto.

Che nella Repubblica insediatasi a Salò e dintorni agisse un nucleo di sostenitori della “sinistra” fascista, è fuori discussione: lo dimostrano il progetto di varare la socializzazione delle aziende, poi tradotto in una legge di quasi impossibile applicazione, e la diffusione attraverso gli organi di stampa di parole d’ordine antiplutocratiche. Ma quella componente, nota a ragione Parlato, non fu maggioritaria. La sovrastava nel numero, e per molti versi nell’influenza, l’ala nazional-conservatrice, che dal ventennio aveva ereditato un rispetto dello Stato e delle sue istituzioni che non ammetteva deroghe. Il “tradimento” del re poteva, agli occhi di coloro che ne facevano parte, rendere plausibile la scelta repubblicana dell’ultimo Mussolini e soprattutto di Pavolini, il segretario del Pfr che, con un gesto di rottura di grande portata psicologica, gli attivisti del movimento avevano imposto dal basso allo stesso Duce; ma non scuoteva la fiducia nella necessaria coerenza di fondo della storia italiana. La Rsi non era quindi vista da gran parte di coloro che ne facevano parte come una rottura con l’Italia “di prima”, un’impresa rivoluzionaria, ma come un sigillo di continuità, prima di tutto amministrativa, dello Stato; il che fa capire perché ad aderirvi furono anche numerosi monarchici.

Non solo. L’aver indirizzato la propria rischiosa scelta nel solco non di un’ideologia ma di un imperativo etico fondato sul binomio onore-fedeltà spiega perché, da Mussolini in giù, i fascisti repubblicani non acquisirono mai piena consapevolezza di dover combattere all’ultimo sangue altri italiani che si opponevano, armi alla mano, ai loro progetti, ma vissero sempre la lotta antipartigiana, a cui pure non si sottrassero, come un compito “sporco”, gravoso, nel fondo insensato, a tal punto che gli stessi tentativi di mettere in piedi al Sud una rete di sostegno esclusero esplicitamente ogni ipotesi di dar vita ad una contro-guerra civile: il sabotaggio delle truppe alleate era l’unico obiettivo lecito. L’ormai copiosa memorialistica dei reduci è intrisa di questo sentimento di dolorosa ripulsa della “carneficina fra italiani”, così diverso dall’entusiasmo che, a giudicare dalle testimonianze postume, animava in genere chi li combatteva (e li equiparava agli invasori tedeschi, espellendoli di fatto dall’appartenenza alla stessa patria).

Di questo handicap psicologico il fascismo dell’ultimo biennio di guerra soffrì, perlopiù inconsapevolmente, sino alla fine e persino oltre. Si iniziò a vederlo all’indomani della cruciale seduta del Gran Consiglio e dell’arresto di Mussolini, quando la crisi di consenso dovuta al cattivo andamento del conflitto si manifestò in una diffusa abulia di quadri ed iscritti del Pnf. La sola assicurazione badogliana che la guerra sarebbe continuata bastò ad arginare il turbamento dei tanti che si sentivano fascisti perché italiani, e non per altri motivi; dal presunto fascismo rivoluzionario non venne, in quel delicatissimo frangente, nessun segno di vita, se non l’angoscia impotente di cui Carlo Mazzantini ha fornito un toccante quadro personale in quel libro magnifico che è A cercar la bella morte. Dopo l’armistizio le cose cambiarono, e Parlato ha ragione nel sostenere che la sia pur tardiva reazione allora messa in atto sta a dimostrare che il fascismo era ancora vivo e capace di suscitare la simpatia di milioni di persone; tuttavia, a fare da molla del volontarismo dei fondatori del Pfr fu quasi sempre il desiderio di riscattare le sorti belliche del paese, di non aggiungere un altro tassello all’immagine della nazione di voltagabbana che perseguitava da tempo l’Italia, non uno stimolo politico. Vero è che “nella Repubblica sociale il Partito fascista repubblicano ebbe un ruolo ben superiore a quello che aveva avuto il Pnf durante l’intero regime”, ma lo svolse, e non solo in forza delle difficili contingenze in cui si trovò ad operare, pressoché tutto nel nome di un patriottismo neorisorgimentale, rifuggendo da vere suggestioni ideologiche (2) .

Ciò spiega anche e soprattutto perché tanti fascisti, del Ventennio e della Rsi, non ebbero difficoltà ad adattarsi rapidamente alla situazione politica del dopoguerra, dirigendo i propri consensi elettorali non sul Msi, che nelle elezioni 1948 faticò a raggiungere il 2%, ma su altri partiti. Fascista o antifascista che fosse, era l’Italia a contare per loro, e il fatto che anche in pieno regime lo Stato avesse prevalso nell’apparato statale sul partito li aveva rafforzati in questa convinzione; non costituiva dunque un trauma di coscienza coltivare qualche nostalgia per l’ordine o le politiche assistenziali dei “bei tempi andati” e nel contempo premiare nelle urne questo o quel partito che pure aveva fatto parte del Cln.

Se dunque si accetta il dato di fatto che nella maggioranza dei fascisti, inclusi quelli che avevano deciso di combattere l’ultima battaglia dalla parte che sarebbe stata poi definita “sbagliata”, argomenti tipicamente di destra – dall’onore alla continuità dell’autorità statale – prevalevano sulle suggestioni di trasformazione dell’ordine sociale in qualche modo ricollegabili a una mentalità di sinistra, non si prova alcuna sorpresa nell’apprendere, grazie all’attento lavoro archivistico svolto da Parlato utilizzando soprattutto le carte detenute dalla Fondazione Ugo Spirito che da anni alacremente dirige, da quali apparenti contraddizioni fu segnato il percorso del neofascismo decapitato della guida di Mussolini. Tutt’al più può lasciare interdetti qualcuno degli episodi da cui esso fu segnato; non certamente la direzione che, nel complesso, prese.

Sin da quando l’armistizio spezzò amministrativamente e politicamente la penisola in due, i dirigenti fascisti si guardarono infatti dall’ipotizzare una guerra di resistenza ad oltranza contro gli Alleati nei territori occupati, consapevoli che un messaggio in questo senso avrebbe trovato scarsa presa sugli antichi sostenitori del regime. Dallo studio di Parlato, il compito di organizzare la presenza fascista oltre le linee del fronte, affidato al principe Valerio Pignatelli, risulta nettamente ridimensionato rispetto all’epopea coltivata nei circoli nostalgici. Nessuna insurrezione fu prevista, non vi fu nessun coordinamento degli episodi di reazione negativa alla chiamata di leva nell’esercito del Regno del Sud che, soprattutto in Sicilia, misero in allarme il governo monarchico e gli angloamericani, nessuna azione concordata di sabotaggio, non venne fornito nessun efficace sostegno logistico agli agenti speciali inviati dalla Rsi in territorio ormai nemico (i quali, anche per questo, furono il più delle volte individuati, catturati e fucilati). Tutto ciò che la “rete” tessuta da Pignatelli e dall’intraprendente moglie riuscì a fare fu tenere contatti con piccoli gruppi di fedeli sparsi nel Meridione, rincuorare con generiche promesse chi stampava alla macchia giornaletti e volantini in poche copie o tracciava qualche scritta sul muro nell’attesa rivelatasi utopica di poter passare ad azioni più incisive, al massimo raccogliere alcune informazioni sulle attività militari alleate, a volte basata su semplici dicerie, da poter trasmettere fortunosamente ai camerati del Nord.

Ma accanto a questo, ed è il lato più significativo della vicenda dei “fascisti al Sud”, già dall’inizio del 1944 Pignatelli e i suoi facevano altro: frequentavano esponenti militari e agenti del controspionaggio statunitense, cioè del presunto nemico che avrebbero dovuto combattere, non tanto per ricavare notizie da utilizzare in un doppio gioco, quanto per avviare rapporti che ritenevano sarebbero risultati preziosi per una futura azione combinata in funzione anticomunista, una volta finita (e perduta) la guerra.

È questo l’elemento più importante della ricostruzione di Parlato, quello che più fa riflettere: l’assoluto primato della preoccupazione anticomunista fra i fascisti, o la quasi totalità di loro, sin dall’indomani dell’8 settembre. L’immagine rivoluzionaria della Rsi che il neofascismo ha coltivato per decenni subisce, dalle rivelazioni contenute nel libro, un colpo definitivo. Anche al Nord, chi “pensava al dopo”, avendo perduto le speranze di un rovesciamento in extremis dell’andamento dello scontro armato, si guardava bene del “seminare mine sociali”, come hanno sostenuto gli apologeti missini della socializzazione; gli interessava invece creare i migliori contatti possibili con ambienti statunitensi, nella convinzione tutt’altro che infondata che tra Usa e Urss, una volta liquidati Germania e Giappone, si sarebbe creata inimicizia e anche gli sconfitti sarebbero tornati utili per combattere le ambizioni comuniste di conquista dell’Italia. Facendosi trasportare un po’ dalla simpatia, Parlato giustifica questa posizione, a prima vista incoerente, sostenendo che soltanto così il neofascismo avrebbe potuto “fare politica” una volta persa la guerra, e che l’alternativa sarebbe stata abbandonarsi a “una soluzione esteticamente impolitica (la “bella morte”)” concepita “in termini reducistici, con un richiamo mitico – e quindi inutilizzabile politicamente – alla figura del duce e alla sua opera”, ma questo punto di vista non ci convince, per due motivi.

Primo, perché stando alla lettera dell’ideologia che il fascismo aveva incarnato per più di due decenni, i referenti politici per un tentativo di rientro sulla scena politica degli scampati a Salò avrebbero potuto essere ben diversi da quelli offerti dalla funzione di truppa di retroguardia di un blocco moderato-conservatore animato dalla paura del comunismo, peraltro ottimamente rappresentato dalla Democrazia cristiana. Secondo, perché la storia del Msi dimostra che proprio in virtù di un richiamo mitico nostalgico ben più emotivo che razionale il partito neofascista è sopravvissuto per mezzo secolo in condizioni di sostanziali marginalità nel sistema politico italiano, malgrado le sconfitte di tutti i suoi tentativi di forzare il blocco e farsi accettare come un alleato di governo credibile in funzione, appunto, di argine alla sinistra. Il che dimostra che quanti si sforzarono di instradare i seguaci postumi di Mussolini verso l’union sacrée con gli ex nemici interni e d’oltre Atlantico non lo fecero per puro pragmatismo ma per l’idea che si erano fatti del fascismo, da loro inteso – per dirla alla Maurice Bardèche – prima di tutto come un regime di salute pubblica in funzione “antisovversiva” e preso molto meno sul serio quando parlava di un superamento dell’ordine socioeconomico capitalistico e di un modello di civiltà lontano da quello delle “materialistiche” e “decadenti” liberaldemocrazie anglosassoni.

A guidare questa marcia verso destra fu, come il libro puntualmente documenta, Pino Romualdi, che sotto il nomignolo de “il dottore”, pur latitante, circolò a lungo per Roma con la protezione di ambienti ecclesiastici e grazie al complice silenzio di vari servizi d’informazione e di polizia allo scopo di rintracciare i camerati dispersi e collegarli fra loro. All’uomo politico romagnolo si dovette il passaggio dalla confusa galassia dei microscopici e fanfaroneschi gruppi clandestini ad una struttura di consultazione e (relativo) coordinamento, ufficiosamente denominata “Senato”, che si assunse il compito di tracciare una linea tattica e strategica per il reinserimento dei fascisti nella vita politica dopo il 25 aprile e le stragi di 25-30.000 combattenti di Salò nelle settimane immediatamente successive alla fine delle ostilità ufficiali. Altri personaggi autorevoli si mossero sullo sfondo degli eventi narrati nel volume, a partire da Junio Valerio Borghese e da alcuni dei suoi più diretti collaboratori nella Decima Mas, e tutti avevano in comune una familiarità tutt’altro che innocente con i servizi statunitensi, Oss in primo luogo, ma nessuno vi svolse un’azione tanto incisiva quanto fu quella di Romualdi.

Costui non godeva di un consenso unanime fra gli scampati alla resa dei conti, perché nelle ore della rotta, previa contatti con agenti dell’Oss e del servizio di spionaggio militare badogliano, aveva ordinato a Como una tregua ai cinquemila fascisti intenzionati a raggiungere Mussolini e Tavolini nel presunto ultimo ridotto; tuttavia l’attivismo che dispiegò durante la latitanza romana ne fece ben presto la figura più in vista del neofascismo e gli conferì credibilità. Secondo Parlato, Romualdi aveva una visione chiara della situazione e si rendeva conto che, come sosteneva una relazione dell’ottobre 1944 al governo monarchico, basata sui rapporti dei prefetti, il fascismo, “una volta tramontato come regime, è apparso estraneo come dottrina politica, consistente essenzialmente nell’autoritarismo, nell’animo della grande maggioranza dei suoi proseliti, i quali non perseguivano in esso nessun principio fondamentale che ne fosse come il patrimonio ideale comune, da custodire anche ora quale possibile seme di rinascita”. Insomma, era cosciente che l’azione politica neofascista, comunque orientata, non avrebbe potuto contare su un seguito di massa. Quel che poteva fare era giocare d’azzardo, puntare cioè sull’impressione che un intenso lavorio di raccordo, condotto simultaneamente in più direzioni, avrebbe potuto fare sui potenziali interlocutori, inducendoli a credere che le proporzioni del movimento revanscista fossero ben maggiori di quanto in realtà non erano. E così fece.

Facendo luce su vicende sin qui poco chiare, e ricostruendo minuziosamente (3) la situazione del potenziale seguito neofascista attraverso un censimento dei caduti, dei prigionieri non cooperatori, degli internati nei campi di concentramento, degli incarcerati, dei processati e condannati, degli epurati, dei coinvolti nei vari gruppi clandestini, Parlato offre una versione plausibile dell’agitazione che a Romualdi faceva capo, mettendo in chiaro che essa aveva due obiettivi collocati in tempi diversi: prima ottenere un’amnistia che rimettesse in libertà i fascisti più esperti e convinti, poi coagularli in un partito disposto all’attività legale. Per raggiungere il primo risultato, puntò su entrambi i tavoli aperti dal referendum istituzionale, promettendo sia ai monarchici sia ai sostenitori della repubblica la neutralità dei fascisti – il cui voto era in realtà ben lungi dal poter controllare – in cambio del provvedimento di clemenza. E, con una spregiudicatezza testimoniata dall’ampio raggio degli incontri che i suoi emissari ebbero con esponenti delle varie parti politiche, ottenne quanto voleva – o, perlomeno, il libro gli attribuisce un’influenza significativa sulla decisione che Togliatti, da guardasigilli, prese. Sul secondo fronte, le cose furono più difficili.

Mentre il “Senato” si sforzava di raccogliere i rappresentanti più significativi dell’universo dei vinti, molte altre forze politiche avevano infatti in animo di ingrossare le proprie file puntando sui molti che avevano creduto nel fascismo fino al 1943 o ancora dopo, ciascuna puntando su un motivo di attrazione diverso: chi sbandierando idealità condivisibili dai “giovani in buona fede traviati da Mussolini”, chi agitando paure di imminenti sanguinose insurrezioni comuniste, chi invocando il comune sentimento patriottico o l’avversione per il Cln, chi semplicemente promettendo un’accoglienza che avrebbe fatto dimenticare presto le colpe passate e assicurato una vita tranquilla. Inoltre, la concorrenza dei gruppuscoli che pretendevano di vendicare la sconfitta era numerosa, e sebbene a tutti mancassero mezzi e prospettive credibili, gettare le basi di un partito significava convincere gli uni che l’azione clandestina non aveva sbocchi, altri che pubblicare un giornale non bastava a risvegliare le masse, altri ancora che i loro diritti di primogenitura non avevano fondamento. L’opera ricostruttiva fu quindi intensa e contrastata e non riuscì ad ottenere i frutti in un primo tempo sperati.

Un certo numero di fascisti, a partire dagli epurati reintegrati negli impieghi amministrativi e da quelli che poterono recuperare i beni confiscati, orientò presto le proprie simpatie verso i partiti moderati di governo, Dc e liberali soprattutto. Altri, senz’altro assai meno numerosi ma intellettualmente più brillanti, compirono la tappa finale del più o meno lungo viaggio che li separava dal comunismo e riversarono nel Pci le speranze di palingenesi sociale in precedenza affidate al corporativismo o alla socializzazione. Alcuni riscoprirono le radici socialiste, magari orientandole verso l’anticomunismo di Saragat. Né mancarono coloro che rimasero per un certo tempo sotto l’ombrello protettivo dell’Uomo Qualunque e da lì imboccarono strade più conservatrici. Su questo frammentato panorama prese poi, dai primi mesi del 1946, a stendersi l’ombra del timore di un colpo di forza comunista sostenuto dalla Jugoslavia, che su molti ex militi di Salò fece presa. All’insegna dell’anticomunisti, gli ex fedeli di Mussolini si imbarcarono nelle avventure più sconcertanti: molti intensificarono l’abbraccio con i nemici di solo pochi mesi prima – statunitensi e monarchici in testa – offrendo disponibilità per qualunque progetto controrivoluzionario, da chiunque diretto, mentre in qualche caso si andò addirittura oltre, come quando (le carte scovate da Parlato non lasciano dubbi) un gruppo di ex marò della Decima Mas collaborò con l’Irgun Zwai Leumi per far giungere di soppiatto imbarcazioni italiane agli attivisti sionisti, affondare una nave egiziana, realizzare un attentato contro l’ambasciata britannica a Roma e poi fornire armi detenute clandestinamente ai servizi segreti del neocostituito stato di Israele, atti non esattamente scontati da parte di alleati fino all’ultimo giorno del Terzo Reich (4) .

In un panorama così ricco di spioni, avventurieri, doppiogiochisti, millantatori e sognatori, non mancavano comunque le persone serie e disinteressate. Fu grazie a loro, e a volte ai loro danni, che l’aggregazione politica del neofascismo poté realizzarsi, nei modi descritti nel libro di cui ci stiamo occupando. Puntando su alti richiami ideali, di cui si facevano eco in modo articolato e in qualche caso contraddittorio le prime pubblicazioni dell’area, come “Manifesto”, “Rivolta ideale”, “Rataplan”, “Meridiano d’Italia”, “Fracassa”, “Rosso e nero”, Romualdi e i suoi si impegnarono nella costruzione di un movimento che, come Parlato a ragione sottolinea, nasceva borghese e anticomunista, perché il suo obiettivo primario era “difendere lo stato borghese – che il fascismo [aveva] validamente contribuito a rafforzare, pur con caratteristiche proprie e peculiari che lo rendono dissimile dalla società liberale classica”. L’obiettivo non poteva essere condiviso dai sostenitori del fascismo di sinistra, come Giorgio Pini, Concetto Pettinato ed Ernesto Massi, che opponevano alla vocazione al compromesso del neofascismo romano una posizione intransigente condivisa soprattutto dai simpatizzanti residenti al Nord, ma ad onta dei distinguo e dei dubbi il progetto di Romualdi, in una prima fase, prevalse, e il 26 dicembre 1946, nello studio di Arturo Michelini, dopo frenetiche trattative fra singoli, gruppi e direttori di testate giornalistiche, il Movimento sociale italiano vide la luce. I propositi che lo tenevano a battesimo erano peraltro sproporzionati alle circostanze. In un articolo uscito sul foglio dei clandestini Fasci di Azione Rivoluzionaria, Romualdi lo aveva descritto in termini che possono indurre retrospettivamente al sorriso: “Si tratta insomma di creare nel paese una psicosi anticomunista tale da costringere tutti i partiti ad appoggiare il Fascismo come il più dinamico dei movimenti anticomunisti […] così, quando il nostro momento sarà giunto, il Fascismo dovrà fungere da massa d’urto dell’anticomunismo e la maggioranza degli italiani – anche se non fascista – ci appoggerà, per odio al comunismo”.

Ma fra le parole e i fatti ce ne correva, e l’unico dato di fatto che coincideva con il proclama citato era l’esistenza di una “psicosi anticomunista”. Peccato che, prima ancora di radicarsi nel paese, essa avesse fatto breccia fra i fondatori del neofascismo, spingendoli a mettere in soffitta gran parte delle idealità del passato e ad accontentarsi di una formazione ben decisa a collocarsi nell’area “nazionale e moderata”, con la benedizione di ambienti vicini al Vaticano, di servizi segreti americani e anche degli stessi democristiani, che speravano così di arginare le tentazioni di avvicinamento di molti reduci della Rsi alla sinistra.

Le cose non andarono peraltro come Romualdi sperava, e Parlato documenta bene i motivi del successo solo parziale del progetto dell’ex vicesegretario del Pfr. In primo luogo, l’ala “sociale” si dimostrò, in sede di contrattazione del programma, più ostinata del previsto, e le concessioni che ottenne indussero esponenti di segno nazional-conservatore come Pignatelli e Gray a defilarsi. In secondo luogo, la linea di apertura verso chi non aveva aderito alla Rsi ma era disponibile a sottoscrivere posizioni di nazionalismo occidentale e cattolico incontrò l’opposizione di altre frange interne. In terzo luogo, si manifestò subito un problema di rapporti con la potenziale base di sostegno, che, nota l’autore del libro, se “avesse saputo con quali ambienti i capi del neofascismo avevano trattato” (servizi segreti americani, settori ecclesiastici ma anche massonici, gruppi monarchici, rappresentanti dei servizi israeliani), probabilmente non avrebbe mai sostenuto il Msi. Infine, dato ancor più importante dei precedenti, Romualdi, che già non aveva potuto proporsi come segretario – ad un partito che peraltro all’inizio non voleva saperne di nuovi aspiranti duci ed ambiva ad una direzione collegiale – per le diffidenze che il suo nome e la sua disponibilità al compromesso suscitavano tra gli “irriducibili” reduci di Salò, venne messo fuori gioco da un improvviso arresto (le cui cause sono poco chiare, data l’agibilità che, da latitante, le forze dell’ordine gli avevano consentito) il 17 marzo 1948 e dovette rimanere in prigione per tre anni e mezzo.

Si fece così rapidamente strada nel nuovo partito, venendone nominato segretario nel giugno 1947, Giorgio Almirante, che con il talento organizzativo, la dedizione, il coraggio fisico e la flessibilità tattica che inviava contemporaneamente messaggi rivoluzionari ai fedeli del Nord e possibilisti ai “monarchici, qualunquisti e agrari” che via via ne infoltivano le fila al Sud, seppe costruirsi in breve tempo un ruolo di protagonista. Le divergenze e i personalismi non si placarono e determinarono continue fuoriuscite e scissioni, inaugurando una tendenza che non si sarebbe mai estinta, ma grazie agli aiuti di facoltosi simpatizzanti appartenenti alle comunità italiane argentina e brasiliana, il Msi iniziò un rapido processo di consolidamento. Contrastato sulle piazze in modo violento, venne però risparmiato dalle autorità di polizia. Gli giovò, evidentemente, l’opposta ma convergente convinzione delle autorità politiche che la sua attività avrebbe potuto danneggiare gli avversari: la Dc, come accennato, lo vedeva come un intralcio alla politica di reclutamento di ex fascisti avviata dal Pci; quest’ultimo sperava che drenasse consensi da destra indebolendo lo Scudo Crociato. Solo quando fu chiaro che i missini avevano imboccato la strada del fiancheggiamento del fronte anticomunista, il partito di Togliatti cambiò atteggiamento ed alzò il tono delle richieste di scioglimento del Msi.

Diventato “padrone del partito”, Almirante non ribaltò la linea ideata da Romualdi; si limitò a correggerla e ad attenuarla in misura tale da far convivere anticomunismo e reducismo. Quest’ultimo, ad avviso di Parlato, essendo molto diffuso nella base militante, agiva come una palla al piede per il neofascismo, spingendolo a coltivare aspirazioni di terzietà rispetto ai blocchi egemoni nell’opinione pubblica che lo condannavano alla marginalità. A noi, francamente, questa non pare un’analisi fondata. Se la Dc non avesse assunto, come invece si affrettò a fare dai primi mesi del 1947, il ruolo di diga anticomunista e si fosse mantenuta su una rotta pienamente centrista, uno spazio a destra per il Msi si sarebbe senz’altro aperto.

Ma poiché accadde il contrario, l’insistenza quasi ossessiva sulla chiusura a sinistra voluta da Romualdi avrebbe indebolito ancor di più il partito della Fiamma, facendolo apparire come uno sterile e velleitario doppione. Il ricorso di Almirante al richiamo identitario sanò almeno in parte l’emorragia, e si può supporre che una ben più decisa volontà di proporsi come “terza via” avrebbe potuto, nell’immediato e in seguito, fatto apparire più chiaro il solco che separava il Msi dalla Dc, attraendo un elettorato non necessariamente più ridotto. Sta di fatto, comunque, che viceversa il Msi decise di inaugurare in quei frangenti una mai più smentita tradizione di ambiguità, tenendo il piede in due staffe (“socialità” e anticomunismo occidentalista) e offrendosi a ipotesi di blocchi nazionali e grandi destre nel momento stesso in cui dichiarava di non voler avere nulla a che spartire con le idee conservatrici e reazionarie.

Creando un partito di nicchia, Almirante nel contempo tarpò i sogni di espansione di taluni fondatori ed evitò un possibile tracollo a vantaggio della Democrazia cristiana. Scoraggiò molti simpatizzanti autorevoli che gli si erano avvicinati in una prospettiva troppo acerba di “destra nazionale” ma si conquistò un congruo numero di seguaci più oscuri, attratti dalla nostalgia del passato. Con l’ingresso in Parlamento il 18 aprile del 1948, il Msi ottenne una legittimazione decisiva, e parallelamente si impresse un marchio di marginalità, che sarebbe costato al suo primo segretario il defenestramento venti mesi dopo e al partito tutto decenni di inutili sforzi per cancellarlo. Ma questa, ovviamente, è un’altra storia, che è stata scritta solo per sommi capi da storici e politologi e tuttora attende chi ne ricostruisca i molti controversi passaggi con accurata documentazione.

Marco Tarchi


NOTE

1) Ce ne siamo occupati anche personalmente in Marco Tarchi, Fascismo. Teorie, interpretazioni e giudizi, Laterza, Roma-Bari 2003; per una panoramica del fenomeno a livello europeo le opere migliori sono Stein Larsen, Berndt Hagtvet e Jan-Petter Myklebust (a cura di), I fascisti, Ponte alle Grazie, Firenze 1996 e Juan J. Linz, Alcuni aspetti storico-sociologici, in Idem, Democrazia e autoritarismo. Problemi e sfide tra XX e XXI secolo, Il Mulino, Bologna 2006.

2) Risulta difficile, da questo punto di vista, seguire Parlato quando sostiene che nella “lettura rivoluzionaria e antiborghese del fascismo” di Pavolini, “alla tradizionale fedeltà al concetto di nazione si sostitui[va] il culto per elementi estranei alla cultura e alla prassi del fascismo, quali la razza, l’Europa del nuovo ordine, i modelli del nazionalsocialismo e dei “fascismi” orientali” (pag. 18). Alla luce della nostra conoscenza di testi e proclami, questa visione risulta infondata, sebbene dagli anni Settanta in poi si sia fortemente radicata nell’immaginario neofascista, che nel proprio disperato bisogno di miti di cui nutrirsi non poteva accontentarsi dei richiami ad un nazionalismo ormai passato (o non ancora ritornato) di moda.

3) A tratti anche troppo minuziosamente, al punto che il libro risente di qualche ripetizione (si vedano, ad esempio, le pagine 119 e 141) e, in generale, si appesantisce nella parte centrale, rendendo più faticosa una lettura altrimenti gradevole anche per il non specialista.

4) Naturalmente, non tutti costoro erano mossi da preoccupazioni ideali, e neppure da un perdurante odio anti-inglese; Parlato chiarisce che fra i loro moventi vi era “la possibilità di mettere a frutto l’esperienza maturata in guerra (in cambio di una sistemazione economica più che onorevole)”.

http://www.girodivite.it/Giuseppe-Parlato-Fascisti-senza.html


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