giovedì 10 marzo 2011

Quando Giovanni Giolitti mosse la “Grande Proletaria” alla volta della Libia contro il dominio turco



A proposito della visita di Gheddafi

L’invasione della Libia fu preparata dall’Italia fin dal 1887 (Mussolini, il male assoluto, aveva quattro anni). Forti pressioni per questa impresa vennero principalmente dalle banche alla testa delle quali era il Banco di Roma che aveva investito notevoli capitali proprio in Libia, contando sulla sua trasformazione in colonia. Ma a favore della spedizione troviamo anche i socialisti, i sindacalisti rivoluzionari, nonché i cattolici. La decisione della guerra contro la Turchia, che allora dominava la Libia fu presa dal presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, nel novembre 1911 ed il 25 di quel mese il dado fu tratto, e fu guerra. Violente dimostrazioni contro quell’impresa si svolsero principalmente in Romagna, guidate, indovinate da chi? Dall’allora non ancora male assoluto. Però, evviva la democrazia, la dichiarazione di guerra, come consentiva l’art. 5 dello Statuto, fu inviata senza l’approvazione del Parlamento, il quale, in vacanza dal luglio, riaprirà solo il 22 febbraio 1912.
Il contingente italiano, dopo aspri combattimenti, occupa i principali centri costieri della Tripolitania e della Cirenaica; ma non va oltre. L’interno libico rimarrà, per almeno due decenni, in mano di bande locali, spesso in lotta fra loro.
Ma, c’è sempre un ma, anche se non ancora in Camicia nera: un attacco turco a Sciara Sciat provoca quasi 400 morti fra i bersaglieri italiani. Seguirà da parte italiana una feroce rappresaglia (fascista? Ma che pensate! Mancano ancora una dozzina di anni prima che il male assoluto prenda il potere) che colpirà anche la popolazione civile dell’oasi. Il comportamento italiano susciterà indignazione nella stampa internazionale e provocherà un’intensificazione della guerriglia araba di resistenza. E’ ovvio che i furbetti, giocando sul monopolio dell’informazione e sull’ignoranza del popolo, hanno fatto credere che quella rappresaglia fosse di “chiara marca fascista”. E non è da dimenticare che dopo la Prima Guerra Mondiale la riappropriazione della Libia fu avviata con mano di ferro da un ministro liberale che si chiamava Giovanni Amendola.
La visita del colonnello Gheddafi che ci ha onorato in questi giorni di giugno 2009, nel corso della quale ha preteso, e ottenuto le scuse da parte delle autorità italiane per le atrocità commesse dall’Italia fascista (il fascismo, come abbiamo visto, nel caso di Sciara Sciat, era ancora solo nella mente di Allah), ed i vermetti-furbetti si sono genuflessi anche dinanzi al beduino.
Chi scrive queste note non è un fanatico, quindi riconosce che nel caso specifico le scuse erano giustificate, ma (ecco un altro ma) quali scuse ha portato Gheddafi per le atrocità commesse da parte dei suoi concittadini a danno degli italiani? Circa le atrocità di cui furono vittime i soldati italiani caduti nelle mani dei turchi-libici durante la conquista di Tripoli, sono così riportate dal Journal: “Ho veduto in una sola moschea diciassette italiani crocifissi. Sono stati inchiodati al muro e morirono a fuoco lento… A un ufficiale furono cuciti gli occhi. I cadaveri erano mutilati in modo indicibile… Nel cimitero di Chari vedemmo cinque soldati sepolti sino alle spalle; le teste emergevano dalla sabbia, nera del loro sangue” E il giornalista del Matin: “Nel villaggio di Henni e nel cimitero arabo era stato operato un vero macello… Si sono loro tagliati i piedi, strappate le mani: vi sono stati crocifissi. Un bersagliere ha la bocca squarciata fino alle orecchie”. E chi porge le scuse per queste atrocità? I vermetti-furbetti non dispongono degli attributi necessari per un giusto atto d’orgoglio.
Il mai sufficientemente rimpianto Franz Maria D’Azaro, già il 10 novembre 1987 scriveva: “Ogni volta che i periodici lampi di follia accendono di furore anti-italiano i neuroni del colonnello Gheddafi, con le ridicole pretese di risarcimenti (…)>. Quello che una volta erano ridicole pretese, oggi, 2009, il colonnello Gheddafi torna a casa con un assegno che gli italiani dovranno onorare. Questa è la politica dell’italietta nata dalla Resistenza, priva di un anche minimo motivo di orgoglio.
E veniamo alle imprese di Omar al Muktar. Il film che esaltava le imprese del ribelle libico, Il Leone del deserto, costato circa cinquanta miliardi di lire nel 1980, ebbi occasione di vederlo nei primi anni del ‘90 in Australia: per quanto ricordo, non fu particolarmente acido nei confronti degli italiani. Il film non è stato mai proiettato in Italia.
Omar el Muktar era al servizio del monarca senussita, Re Idriss, detronizzato proprio da Gheddafi nel 1969.
Ora è necessario ricordare, checché ne possano dire i vermetti-furbetti, la pacificazione della Libia era una delle tante eredità negative lasciate al fascismo dai governi precedenti. Come ricorda Franz Maria D’Azaro, quando Rodolfo Graziani, inviato in Libia dal governo per tentare la pacificazione, trovandosi di fronte a Muktar, questi chiese al futuro Maresciallo d’Italia: “Perché siete venuti?” questi rispose: “Non siamo venuti, siamo tornati” accompagnando la risposta mostrando una moneta romana di Leptis Magna, così denominata la Roma d’Africa da Diocleziano. Interessante è anche quanto ricordato, sempre da Franza Maria D’Azaro, riportando un giudizio di Oliver Reed che interpretava nel film la parte di Graziani, il quale nutriva una profonda stima verso il ribelle libico, “Per questo - ricorda Reed - Graziani ha scritto nelle sue memorie che una delle cose più tristi della sua vita è stata quella di vedersi costretto dalle circostanze ad ordinare l’impiccagione di Omar el Muktar”. In altra occasione Graziani disse a Muktar: “L’Italia ha diritto di stare qui, come gli inglesi stanno in Egitto, i francesi in Tunisia ed in Algeria, gli spagnoli in Marocco”. In merito a ciò, commenta Reed: “Nessuno ha in effetti dei diritti su un altro Paese, ma la carta geografica del mondo è piena di invasioni da parte degli arabi dei mori in Spagna e in Sicilia, degli spagnoli nei Carabi, degli inglesi in ogni parte del globo. Siamo tutti nello stesso brodo. La storia ha punteggiato la carta del mondo di molte bandiere; e le atrocità delle guerre, da parte di tutti, non conosce limiti”.
Omar el Muktar nasce in un villaggio della Marmarica orientale intorno al 1862, in un ambiente fortemente influenzato dalle regole del Corano. Omar el Muktar si fa notare sia per la sua attitudine negli studi coranici, sia per il suo temperamento volitivo, ma anche per la sua volontà nel combattere prima i turchi, poi gli invasori italiani. A 40 anni è nominato capo della Zawia (convento e centro d’azione) e tornato nella natia Marmarica ha la spiacevole sorpresa di vedere le tribù sottomesse al governo italiano. Da allora in poi, sempre nel nome di Dio Altissimo e Misericordioso, punisce con spietata durezza chiunque accetti di collaborare con le autorità italiane.
A causa della guerra 1915-1918 il territorio, specialmente quello interno, vide le truppe italiane ridursi notevolmente per essere trasferite in altri fronti, così che bande sempre più numerose poterono spadroneggiare nel territorio imponendo decime alle popolazioni, accanendosi, in particolare contro coloro che mostrano una qualsiasi simpatia verso l’Italia. Omar el Muktar ha una parte preminente in queste azioni intimidatrici e punitive, precedute e seguite sempre da atti di inaudita ferocia. Fare un elenco del terrore seminato dal Leone del deserto e da altre bande simili è semplicemente impossibile. L’attività di Omar el Muktar assume connotati di assoluta preminenza nel biennio 1929-1931, di conseguenza il governo italiano ritenne indispensabile pacificare tutta la Libia. Badoglio e Graziani, incaricati allo scopo, reputarono necessario sottrarre il territorio all’influenza dei capi locali. Graziani, sempre affascinato dal modello della romanità, si richiamò alla legge “parcere subiectis et debellare superbos” e la applicò sforzandosi a persuadere i nativi che se protetti dal tricolore italiano avrebbero ottenuto un avvenire tranquillo e di prosperità. Quindi giustizia e perdono per i sottomessi, severità implacabile per i ribelli.
Mohamed el Mohesci, giornalista libico, sostenne che la tensione alimentata da Omar el Muktar stava frenando il decollo economico e sociale della Cirenaica, nonostante “la profusione di milioni di lire italiane per la costruzione di porti, ferrovie, strade, acquedotti ed opere per la valorizzazione delle strutture agricole”.
Negli anni ‘29, a seguito di una serie di contatti con alti ufficiali italiani, sembrava che un accordo sulla pacificazione fosse a portata di mano, ma a ottobre di quell’anno el Muktar ordinò l’attacco ad una pattuglia di zapié (carabinieri indigeni) comandati dal brigadiere Stefano Ramorino, accorsa per riparare la linea telefonica, appositamente sabotata in località Gars Benigden proprio per realizzare l’agguato. L’eccidio compromise qualsiasi ulteriore tentativo di accordi e ravvivò la guerriglia e la contro-guerriglia. Nei primi quattro mesi del 1931 il ritmo delle razzie e degli agguati assunsero proporzioni non più tollerabili. Fu in questo contesto che Graziani concepì e diresse la più grande e complessa operazione sahariana mai prima compiuta. Obiettivo finale della manovra: l’oasi di Kufra, nel più profondo sud desertico, conquistata, dai reparti cammellati, dopo una massacrante marcia nel deserto.
Contrariamente a quanto prevede il codice d’onore occidentale, un capo arabo ha il dovere di sottrarsi alla morte e alla cattura. Omar el Muktar, approfittando di questo diritto, non accettò la battaglia, ma ormai stanco, sfiduciato, vecchio e abbandonato dai suoi fidi, venne catturato, ai primi di settembre del 1931 nella zona di Uadi el Kuf, da una pattuglia di Sawari. Dopo la cattura, accusando di essere stato abbandonato al suo destino, stoicamente aggiunse: “Se mi avete preso è soltanto per volontà di Allah. Ora fate di me quel che volete”.
Graziani, d’accordo con Badoglio e con il ministro delle Colonie De Bono, convocò il Tribunale militare speciale.
Trascriviamo le parti essenziali del dibattimento: “L’anno millenovecentotrentuno, il giorno quindici del mese di settembre, in Bengasi nell’ufficio d’Istruzione delle Carceri Regionali (…). Si entra nel vivo della causa. Il Presidente chiede: ‘Tu hai combattuto e contro chi?’. Omar: ‘Ho combattuto contro il Governo italiano’ (…). Pres. : ‘Hai dato tu l’ordine di uccidere quelli che erano andati a riparare la linea telefonica a Gars Benighden?’. Omar: ‘Sì, ho dato l’ordine di uccidere quelli ed altri’. Pres.: ‘Anche i carabinieri di scorta?’. Omar: ‘La guerra è guerra’ (…). Pres. : ‘Hai fatto rapine, hai fatto razzie?’. Omar: ‘Sì’. Pres.: ‘Hai ordinato riscossioni di decime da parte dei sottomessi?’. Omar: ‘Prima sì, dopo no, da quando le popolazioni sono state allontanate’ (…). Dall’arringa del pubblico ministero proponiamo solo le parti più determinanti. Il pm rivolgendosi all’imputato lo accusa: “Tu hai dato l’ordine che a Gars Benigden venissero uccisi e seviziati i carabinieri di scorta ai lavori di riparazione alla linea telefonica mentre tra noi c’era la pace. Hai approfittato delle piccole guarnigioni per sorprenderle e ucciderle. Tu non sei un combattente ma un bandito che ha sempre vissuto alla macchia. Il vero combattente uccide l’avversario in guerra, ma non lo sevizia, mentre tu hai seviziato i nostri ufficiali e i nostri soldati. Hai ucciso i nostri feriti. Non uno di essi ha fatto ritorno (…). Hai dato ordine di uccidere i prigionieri (…). Tu hai effettuato rapine e razzie: di queste ancora dovrai dar conto”.
Al termine dell’udienza il Presidente chiese al giudicabile se ha altro da dire a sua discolpa, ed ottenuta risposta negativa, il Tribunale si ritirò in Camera di Consiglio. “Dopo mezz’ora rientra nell’aula ove tra un religioso silenzio il Presidente legge la sentenza con la quale, ritenuto Omar el Muktar responsabile dei reati ascritti, lo condanna alla pena di morte”. Avendo l’interprete tradotta la sentenza al giudicabile, questi dice: “Da Dio siamo venuti, a Dio dobbiamo tornare”.
Il giorno dopo, alle 9 nell’assolata piana di Soluk, l’esecuzione venne consumata in un cupo silenzio. “L’evento è triste” - ha scritto Franz Maria D’Azaro - “ma chi ha giudicato Omar el Muktar ha la certezza di averlo condannato non per aver animato la ribellione, ma per aver ordinato, incoraggiato e lasciato compiere atrocità contro gli italiani e contro le stesse popolazioni indigene (…). Un fatto è certo, scomparso Muktar – cui fece seguito la coraggiosa liberazione in massa degli ex ribelli – non un solo colpo di fucile è stato più esploso contro gli italiani, razzie e saccheggi finirono d’incanto e i remoti territori del deserto tornarono alla serenità”.
Ed ora facciamo qualche dispettuccio ai vermetti-furbetti, ricordando qualche esempio di quanta cattiveria fu animata la colonizzazione Littoria.
Il Duce si recò in Libia dal 12 al 21 marzo 1937, per inaugurare ospedali, strade, edifici pubblici, fattorie. Anziché essere preso a fucilate fu accolto dai nativi con un entusiasmo incontenibile, tanto che gli fu donata la Spada dell’Islam, intarsiata in oro massiccio e pietre preziose, alto simbolo di riconoscenza. Nel corso della sua visita nelle varie località libiche l’entusiasmo dei coloni italiani e della popolazione locale era veramente esaltante. Descrivere in queste poche righe le opere compiute dal lavoro fascista risulta impossibile, ma solo per motivi di spazio.
Un’altra iniziativa del male assoluto, accuratamente taciuta dai vermetti-furbetti, iniziativa unica del genere per i Paesi colonizzatori, fu il provvedimento con il quale grazie al R.D. Legge 3 dicembre 1934 XIII, N° 2012 e del R.D. 8 aprile 1937 XV N° 431, dove nell’articolo 4 è riconosciuta “una cittadinanza italiana speciale per i nativi musulmani delle quattro province libiche che fanno parte integrante del Regno d’Italia”. Per essere più chiari, l’infame Regime riconosceva i cittadini libici come cittadini italiani; chiamati, allora, italiani della quarta sponda.
Spaziando ancora con qualche esempio, possiamo ricordare quanto scrisse il capo senussita Mohammed Redà: “Questo governo (italiano, ndr) è stato mandato da Dio altissimo per la rinascita di questo paese, per la sua felicità e per la felicità dei suoi figli”.
E ancora. Un autorevole insegnante libico, il prof. Mohammed ben Messuad Fusceka, in un suo libro, con il titolo La storia della Libia, edito nel 1956, fra l’altro ha scritto: “Il governo fascista, presieduto dal suo Capo Benito Mussolini, aveva intanto preso i poteri. I suoi uomini provvidero a far prosperare la Libia. Onde mettere in esecuzione le direttive del governo, gli italiani nominarono nel 1934 il Maresciallo Italo Balbo Governatore generale della Libia. In tale periodo la Libia raggiunse il più alto tenore di vita della sua storia”.
E oggi (ma quanta tristezza), cosa possono snudare e alzare verso il cielo i vari vermetti-furbetti, i vari arlecchini e pulcinella, i quali non hanno niente di meglio che indagare quanti rapporti sessuali ha uno rispetto all’altro? Li vediamo genuflessi di fronte ad un Gheddafi autore di una delle più vergognose rapine che la storia ricordi, durante le quali parlò di cancro italiano. Quando cacciò, negli anni ‘70 gli italiani dalla Libia, appropriandosi da perfetto razziatore di quattromila ettari di terreni, di 714 mila olivi, 245 mila piante di agrumi, 184 mila piante di mandorlo, un milione di tralci di uva, 4 mila ville, 765 appartamenti, 468 edifici, 727 tra veicoli industriali e trattori agricoli, 265 officine, 50 industrie, nazionalizzate le banche (un affare da quattordici miliardi in un colpo solo), un numero imprecisato di oggetti di valore confiscati nelle case degli italiani. Una sola soddisfazione, se questa fosse sufficiente: “Semplicemente che i figli della rivoluzione non erano stati in grado di sostituire i nostri connazionali cacciati: le officine e le fabbriche avevano dovuto chiudere quasi subito, i raccolti delle fattorie erano andati in malora, i villaggi dei coloni in rovina, la sabbia del deserto aveva ricominciato ad avanzare su quegli che erano stati floridi agrumeti e vigneti”. (Franz Maria D’Azaro). Ed i vari Arlecchino e Pulcinella per ricambiare e riparare la rapina da noi subita, hanno regalato al rapinatore un risarcimento (lo vogliamo chiamare così?).

Filippo Giannini

http://www.italiasociale.net/storia07/storia010709-1.html

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